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"Questi ricordi, devo lasciarli perdere di nuovo, perché già troppi li hanno ricordati a modo loro? Qui vedo chiaro che la mia fanciullezza è più vicina ai tempi dei nuraghi che a tempi come questi. E mi ci sento le vertigini. Ma è grazie agli artifici del ricordo che si riesce a sopportare ogni passato, e forse a non avere eccessi di paura del futuro. Ma non sarà che rimane memoria solo di ciò che lo voleva diventare, ci aspirava da sé, per conto suo, a essere memoria?". Giulio Angioni
"Questi ricordi, devo lasciarli perdere di nuovo, perché già troppi li hanno ricordati a modo loro? Qui vedo chiaro che la mia fanciullezza è più vicina ai tempi dei nuraghi che a tempi come questi. E mi ci sento le vertigini. Ma è grazie agli artifici del ricordo che si riesce a sopportare ogni passato, e forse a non avere eccessi di paura del futuro. Ma non sarà che rimane memoria solo di ciò che lo voleva diventare, ci aspirava da sé, per conto suo, a essere memoria?". Giulio Angioni
Se una notte * Storie dalle Storie di Erodoto * Viaggi e Meraviglie
"Questi ricordi, devo lasciarli perdere di nuovo, perché già troppi li hanno ricordati a modo loro? Qui vedo chiaro che la mia fanciullezza è più vicina ai tempi dei nuraghi che a tempi come questi. E mi ci sento le vertigini. Ma è grazie agli artifici del ricordo che si riesce a sopportare ogni passato, e forse a non avere eccessi di paura del futuro. Ma non sarà che rimane memoria solo di ciò che lo voleva diventare, ci aspirava da sé, per conto suo, a essere memoria?". Giulio Angioni
"Questi ricordi, devo lasciarli perdere di nuovo, perché già troppi li hanno ricordati a modo loro? Qui vedo chiaro che la mia fanciullezza è più vicina ai tempi dei nuraghi che a tempi come questi. E mi ci sento le vertigini. Ma è grazie agli artifici del ricordo che si riesce a sopportare ogni passato, e forse a non avere eccessi di paura del futuro. Ma non sarà che rimane memoria solo di ciò che lo voleva diventare, ci aspirava da sé, per conto suo, a essere memoria?". Giulio Angioni
Una borta ci fiat - una volta c'era - Novelline popolari sarde, di Francesco Mango
"Questi ricordi, devo lasciarli perdere di nuovo, perché già troppi li hanno ricordati a modo loro? Qui vedo chiaro che la mia fanciullezza è più vicina ai tempi dei nuraghi che a tempi come questi. E mi ci sento le vertigini. Ma è grazie agli artifici del ricordo che si riesce a sopportare ogni passato, e forse a non avere eccessi di paura del futuro. Ma non sarà che rimane memoria solo di ciò che lo voleva diventare, ci aspirava da sé, per conto suo, a essere memoria?". Giulio Angioni
"Questi ricordi, devo lasciarli perdere di nuovo, perché già troppi li hanno ricordati a modo loro? Qui vedo chiaro che la mia fanciullezza è più vicina ai tempi dei nuraghi che a tempi come questi. E mi ci sento le vertigini. Ma è grazie agli artifici del ricordo che si riesce a sopportare ogni passato, e forse a non avere eccessi di paura del futuro. Ma non sarà che rimane memoria solo di ciò che lo voleva diventare, ci aspirava da sé, per conto suo, a essere memoria?". Giulio Angioni
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"Questi ricordi, devo lasciarli perdere di nuovo, perché già troppi li hanno ricordati a modo loro? Qui vedo chiaro che la mia fanciullezza è più vicina ai tempi dei nuraghi che a tempi come questi. E mi ci sento le vertigini. Ma è grazie agli artifici del ricordo che si riesce a sopportare ogni passato, e forse a non avere eccessi di paura del futuro. Ma non sarà che rimane memoria solo di ciò che lo voleva diventare, ci aspirava da sé, per conto suo, a essere memoria?". Giulio Angioni
C'era una volta un re, che aveva una figlia a cui voleva molto bene. Questo re aveva fatto costruire un monte di vetro, promettendo che che avrebbe dato sua figlia in sposa a chi fosse riuscito ad attraversarlo, senza minimo cadere. C'era un giovane ragazzo che era innamorato della principessa e domandò al re se potesse averla lui in sposa. — Sì! — disse il re: - se attraverserete il monte senza cadere, l'avrete. Allora la principessa, che già amava il coraggioso ragazzo, disse che voleva anche lei attraversare il monte, insieme con il suo amato, così da poterlo aiutare, semmai dovesse cadere. Il re suo padre diede il suo permesso. [...] Continue reading
Parole di Storie - Storie di Paura, dal classico alla notte di Halloween
Messa in voce di Lilli Fois C'era una volta un re, che aveva una figlia a cui voleva molto bene. Questo re aveva fatto costruire un monte di vetro, promettendo che che avrebbe dato sua figlia in sposa a chi fosse riuscito ad attraversarlo, senza minimo cadere. C'era un giovane ragazzo che era innamorato della principessa e domandò al re se potesse averla lui in sposa. — Sì! — disse il re: - se attraverserete il monte senza cadere, l'avrete. Allora la principessa, che già amava il coraggioso ragazzo, disse che voleva anche lei attraversare il monte, insieme con il suo amato, così da poterlo aiutare, semmai dovesse cadere. Il re suo padre diede il suo permesso. [...]
C'era una volta un re, che aveva una figlia a cui voleva molto bene. Questo re aveva fatto costruire un monte di vetro, promettendo che che avrebbe dato sua figlia in sposa a chi fosse riuscito ad attraversarlo, senza minimo cadere. C'era un giovane ragazzo che era innamorato della principessa e domandò al re se potesse averla lui in sposa. — Sì! — disse il re: - se attraverserete il monte senza cadere, l'avrete. Allora la principessa, che già amava il coraggioso ragazzo, disse che voleva anche lei attraversare il monte, insieme con il suo amato, così da poterlo aiutare, semmai dovesse cadere. Il re suo padre diede il suo permesso. [...] Continue reading
C'era una volta un re, che aveva una figlia a cui voleva molto bene. Questo re aveva fatto costruire un monte di vetro, promettendo che che avrebbe dato sua figlia in sposa a chi fosse riuscito ad attraversarlo, senza minimo cadere. C'era un giovane ragazzo che era innamorato della principessa e domandò al re se potesse averla lui in sposa. — Sì! — disse il re: - se attraverserete il monte senza cadere, l'avrete. Allora la principessa, che già amava il coraggioso ragazzo, disse che voleva anche lei attraversare il monte, insieme con il suo amato, così da poterlo aiutare, semmai dovesse cadere. Il re suo padre diede il suo permesso. [...] Continue reading
Coperti di stracci, abbrustoliti dal freddo, con certi scarponi che affondavano nelle pozzanghere come draghe nel porto, tuttavia sani, allegri e sudicioni a più non posso, i bambini della lavandaia se ne stavano quasi tutto il giorno davanti alla finestra bassa della cantina, dove la madre, vera figura da "novecento", tutta ossa e ventre, con la grande faccia ovale e nìvea dentro una cuffia di capelli neri ridotti a stoffa, lavava e sbatteva i panni con un fracasso da terremoto.
Coperti di stracci, abbrustoliti dal freddo, con certi scarponi che affondavano nelle pozzanghere come draghe nel porto, tuttavia sani, allegri e sudicioni a più non posso, i bambini della lavandaia se ne stavano quasi tutto il giorno davanti alla finestra bassa della cantina, dove la madre, vera figura da "novecento", tutta ossa e ventre, con la grande faccia ovale e nìvea dentro una cuffia di capelli neri ridotti a stoffa, lavava e sbatteva i panni con un fracasso da terremoto.
Coperti di stracci, abbrustoliti dal freddo, con certi scarponi che affondavano nelle pozzanghere come draghe nel porto, tuttavia sani, allegri e sudicioni a più non posso, i bambini della lavandaia se ne stavano quasi tutto il giorno davanti alla finestra bassa della cantina, dove la madre, vera figura da "novecento", tutta ossa e ventre, con la grande faccia ovale e nìvea dentro una cuffia di capelli neri ridotti a stoffa, lavava e sbatteva i panni con un fracasso da terremoto.
Coperti di stracci, abbrustoliti dal freddo, con certi scarponi che affondavano nelle pozzanghere come draghe nel porto, tuttavia sani, allegri e sudicioni a più non posso, i bambini della lavandaia se ne stavano quasi tutto il giorno davanti alla finestra bassa della cantina, dove la madre, vera figura da "novecento", tutta ossa e ventre, con la grande faccia ovale e nìvea dentro una cuffia di capelli neri ridotti a stoffa, lavava e sbatteva i panni con un fracasso da terremoto.
Coperti di stracci, abbrustoliti dal freddo, con certi scarponi che affondavano nelle pozzanghere come draghe nel porto, tuttavia sani, allegri e sudicioni a più non posso, i bambini della lavandaia se ne stavano quasi tutto il giorno davanti alla finestra bassa della cantina, dove la madre, vera figura da "novecento", tutta ossa e ventre, con la grande faccia ovale e nìvea dentro una cuffia di capelli neri ridotti a stoffa, lavava e sbatteva i panni con un fracasso da terremoto.
Coperti di stracci, abbrustoliti dal freddo, con certi scarponi che affondavano nelle pozzanghere come draghe nel porto, tuttavia sani, allegri e sudicioni a più non posso, i bambini della lavandaia se ne stavano quasi tutto il giorno davanti alla finestra bassa della cantina, dove la madre, vera figura da "novecento", tutta ossa e ventre, con la grande faccia ovale e nìvea dentro una cuffia di capelli neri ridotti a stoffa, lavava e sbatteva i panni con un fracasso da terremoto.
Coperti di stracci, abbrustoliti dal freddo, con certi scarponi che affondavano nelle pozzanghere come draghe nel porto, tuttavia sani, allegri e sudicioni a più non posso, i bambini della lavandaia se ne stavano quasi tutto il giorno davanti alla finestra bassa della cantina, dove la madre, vera figura da "novecento", tutta ossa e ventre, con la grande faccia ovale e nìvea dentro una cuffia di capelli neri ridotti a stoffa, lavava e sbatteva i panni con un fracasso da terremoto.
Se una notte * Storie dalle Storie di Erodoto * Viaggi e Meraviglie
Coperti di stracci, abbrustoliti dal freddo, con certi scarponi che affondavano nelle pozzanghere come draghe nel porto, tuttavia sani, allegri e sudicioni a più non posso, i bambini della lavandaia se ne stavano quasi tutto il giorno davanti alla finestra bassa della cantina, dove la madre, vera figura da "novecento", tutta ossa e ventre, con la grande faccia ovale e nìvea dentro una cuffia di capelli neri ridotti a stoffa, lavava e sbatteva i panni con un fracasso da terremoto.
Coperti di stracci, abbrustoliti dal freddo, con certi scarponi che affondavano nelle pozzanghere come draghe nel porto, tuttavia sani, allegri e sudicioni a più non posso, i bambini della lavandaia se ne stavano quasi tutto il giorno davanti alla finestra bassa della cantina, dove la madre, vera figura da "novecento", tutta ossa e ventre, con la grande faccia ovale e nìvea dentro una cuffia di capelli neri ridotti a stoffa, lavava e sbatteva i panni con un fracasso da terremoto.
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Una borta ci fiat - una volta c'era - Novelline popolari sarde, di Francesco Mango
Coperti di stracci, abbrustoliti dal freddo, con certi scarponi che affondavano nelle pozzanghere come draghe nel porto, tuttavia sani, allegri e sudicioni a più non posso, i bambini della lavandaia se ne stavano quasi tutto il giorno davanti alla finestra bassa della cantina, dove la madre, vera figura da "novecento", tutta ossa e ventre, con la grande faccia ovale e nìvea dentro una cuffia di capelli neri ridotti a stoffa, lavava e sbatteva i panni con un fracasso da terremoto.
Il gobbino entrava in tutte le case del paese e, volendo, avrebbe potuto sapere i più segreti affari delle famiglie che le abitavano. Ma non voleva: era onesto fino alla manìa, e per questo gli avevano dato il posto di portalettere, anche per le raccomandate e le assicurate, con uso di bicicletta quando si trattava di distribuire espressi e telegrammi, o di andare lontano. In bicicletta dunque andava tutti i giorni a portare Il Sole alla fattoria Busoni, e pedalando sull'argine come sulla lama di un coltello, con la gobba che pareva una terza ruota del veicolo, cantava e fischiava allegro come un fringuello. Quel giorno però si sentiva insolitamente preoccupato; di tanto in tanto fermava la macchina come volesse scendere, e guardava una lettera che premeva forte col pollice sui giornali tenuti con la mano sinistra. Era una lettera sopraffina, con la busta orlata d'oro, indirizzata alla signorina Rachele Busoni, figlia unica del ricco fattore: una lettera, infine, che odorava di dichiarazione d'amore come odora il bocciolo della rosa sebbene ancora sigillato. [...]
Se una notte * Storie dalle Storie di Erodoto * Viaggi e Meraviglie
Il gobbino entrava in tutte le case del paese e, volendo, avrebbe potuto sapere i più segreti affari delle famiglie che le abitavano. Ma non voleva: era onesto fino alla manìa, e per questo gli avevano dato il posto di portalettere, anche per le raccomandate e le assicurate, con uso di bicicletta quando si trattava di distribuire espressi e telegrammi, o di andare lontano. In bicicletta dunque andava tutti i giorni a portare Il Sole alla fattoria Busoni, e pedalando sull'argine come sulla lama di un coltello, con la gobba che pareva una terza ruota del veicolo, cantava e fischiava allegro come un fringuello. Quel giorno però si sentiva insolitamente preoccupato; di tanto in tanto fermava la macchina come volesse scendere, e guardava una lettera che premeva forte col pollice sui giornali tenuti con la mano sinistra. Era una lettera sopraffina, con la busta orlata d'oro, indirizzata alla signorina Rachele Busoni, figlia unica del ricco fattore: una lettera, infine, che odorava di dichiarazione d'amore come odora il bocciolo della rosa sebbene ancora sigillato. [...]
Il gobbino entrava in tutte le case del paese e, volendo, avrebbe potuto sapere i più segreti affari delle famiglie che le abitavano. Ma non voleva: era onesto fino alla manìa, e per questo gli avevano dato il posto di portalettere, anche per le raccomandate e le assicurate, con uso di bicicletta quando si trattava di distribuire espressi e telegrammi, o di andare lontano. In bicicletta dunque andava tutti i giorni a portare Il Sole alla fattoria Busoni, e pedalando sull'argine come sulla lama di un coltello, con la gobba che pareva una terza ruota del veicolo, cantava e fischiava allegro come un fringuello. Quel giorno però si sentiva insolitamente preoccupato; di tanto in tanto fermava la macchina come volesse scendere, e guardava una lettera che premeva forte col pollice sui giornali tenuti con la mano sinistra. Era una lettera sopraffina, con la busta orlata d'oro, indirizzata alla signorina Rachele Busoni, figlia unica del ricco fattore: una lettera, infine, che odorava di dichiarazione d'amore come odora il bocciolo della rosa sebbene ancora sigillato. [...]
Il gobbino entrava in tutte le case del paese e, volendo, avrebbe potuto sapere i più segreti affari delle famiglie che le abitavano. Ma non voleva: era onesto fino alla manìa, e per questo gli avevano dato il posto di portalettere, anche per le raccomandate e le assicurate, con uso di bicicletta quando si trattava di distribuire espressi e telegrammi, o di andare lontano. In bicicletta dunque andava tutti i giorni a portare Il Sole alla fattoria Busoni, e pedalando sull'argine come sulla lama di un coltello, con la gobba che pareva una terza ruota del veicolo, cantava e fischiava allegro come un fringuello. Quel giorno però si sentiva insolitamente preoccupato; di tanto in tanto fermava la macchina come volesse scendere, e guardava una lettera che premeva forte col pollice sui giornali tenuti con la mano sinistra. Era una lettera sopraffina, con la busta orlata d'oro, indirizzata alla signorina Rachele Busoni, figlia unica del ricco fattore: una lettera, infine, che odorava di dichiarazione d'amore come odora il bocciolo della rosa sebbene ancora sigillato. [...]
Una borta ci fiat - una volta c'era - Novelline popolari sarde, di Francesco Mango
Il gobbino entrava in tutte le case del paese e, volendo, avrebbe potuto sapere i più segreti affari delle famiglie che le abitavano. Ma non voleva: era onesto fino alla manìa, e per questo gli avevano dato il posto di portalettere, anche per le raccomandate e le assicurate, con uso di bicicletta quando si trattava di distribuire espressi e telegrammi, o di andare lontano. In bicicletta dunque andava tutti i giorni a portare Il Sole alla fattoria Busoni, e pedalando sull'argine come sulla lama di un coltello, con la gobba che pareva una terza ruota del veicolo, cantava e fischiava allegro come un fringuello. Quel giorno però si sentiva insolitamente preoccupato; di tanto in tanto fermava la macchina come volesse scendere, e guardava una lettera che premeva forte col pollice sui giornali tenuti con la mano sinistra. Era una lettera sopraffina, con la busta orlata d'oro, indirizzata alla signorina Rachele Busoni, figlia unica del ricco fattore: una lettera, infine, che odorava di dichiarazione d'amore come odora il bocciolo della rosa sebbene ancora sigillato. [...]
Il gobbino entrava in tutte le case del paese e, volendo, avrebbe potuto sapere i più segreti affari delle famiglie che le abitavano. Ma non voleva: era onesto fino alla manìa, e per questo gli avevano dato il posto di portalettere, anche per le raccomandate e le assicurate, con uso di bicicletta quando si trattava di distribuire espressi e telegrammi, o di andare lontano. In bicicletta dunque andava tutti i giorni a portare Il Sole alla fattoria Busoni, e pedalando sull'argine come sulla lama di un coltello, con la gobba che pareva una terza ruota del veicolo, cantava e fischiava allegro come un fringuello. Quel giorno però si sentiva insolitamente preoccupato; di tanto in tanto fermava la macchina come volesse scendere, e guardava una lettera che premeva forte col pollice sui giornali tenuti con la mano sinistra. Era una lettera sopraffina, con la busta orlata d'oro, indirizzata alla signorina Rachele Busoni, figlia unica del ricco fattore: una lettera, infine, che odorava di dichiarazione d'amore come odora il bocciolo della rosa sebbene ancora sigillato. [...]
Il gobbino entrava in tutte le case del paese e, volendo, avrebbe potuto sapere i più segreti affari delle famiglie che le abitavano. Ma non voleva: era onesto fino alla manìa, e per questo gli avevano dato il posto di portalettere, anche per le raccomandate e le assicurate, con uso di bicicletta quando si trattava di distribuire espressi e telegrammi, o di andare lontano. In bicicletta dunque andava tutti i giorni a portare Il Sole alla fattoria Busoni, e pedalando sull'argine come sulla lama di un coltello, con la gobba che pareva una terza ruota del veicolo, cantava e fischiava allegro come un fringuello. Quel giorno però si sentiva insolitamente preoccupato; di tanto in tanto fermava la macchina come volesse scendere, e guardava una lettera che premeva forte col pollice sui giornali tenuti con la mano sinistra. Era una lettera sopraffina, con la busta orlata d'oro, indirizzata alla signorina Rachele Busoni, figlia unica del ricco fattore: una lettera, infine, che odorava di dichiarazione d'amore come odora il bocciolo della rosa sebbene ancora sigillato. [...]
Il gobbino entrava in tutte le case del paese e, volendo, avrebbe potuto sapere i più segreti affari delle famiglie che le abitavano. Ma non voleva: era onesto fino alla manìa, e per questo gli avevano dato il posto di portalettere, anche per le raccomandate e le assicurate, con uso di bicicletta quando si trattava di distribuire espressi e telegrammi, o di andare lontano. In bicicletta dunque andava tutti i giorni a portare Il Sole alla fattoria Busoni, e pedalando sull'argine come sulla lama di un coltello, con la gobba che pareva una terza ruota del veicolo, cantava e fischiava allegro come un fringuello. Quel giorno però si sentiva insolitamente preoccupato; di tanto in tanto fermava la macchina come volesse scendere, e guardava una lettera che premeva forte col pollice sui giornali tenuti con la mano sinistra. Era una lettera sopraffina, con la busta orlata d'oro, indirizzata alla signorina Rachele Busoni, figlia unica del ricco fattore: una lettera, infine, che odorava di dichiarazione d'amore come odora il bocciolo della rosa sebbene ancora sigillato. [...]
Il gobbino entrava in tutte le case del paese e, volendo, avrebbe potuto sapere i più segreti affari delle famiglie che le abitavano. Ma non voleva: era onesto fino alla manìa, e per questo gli avevano dato il posto di portalettere, anche per le raccomandate e le assicurate, con uso di bicicletta quando si trattava di distribuire espressi e telegrammi, o di andare lontano. In bicicletta dunque andava tutti i giorni a portare Il Sole alla fattoria Busoni, e pedalando sull'argine come sulla lama di un coltello, con la gobba che pareva una terza ruota del veicolo, cantava e fischiava allegro come un fringuello. Quel giorno però si sentiva insolitamente preoccupato; di tanto in tanto fermava la macchina come volesse scendere, e guardava una lettera che premeva forte col pollice sui giornali tenuti con la mano sinistra. Era una lettera sopraffina, con la busta orlata d'oro, indirizzata alla signorina Rachele Busoni, figlia unica del ricco fattore: una lettera, infine, che odorava di dichiarazione d'amore come odora il bocciolo della rosa sebbene ancora sigillato. [...]
Il gobbino entrava in tutte le case del paese e, volendo, avrebbe potuto sapere i più segreti affari delle famiglie che le abitavano. Ma non voleva: era onesto fino alla manìa, e per questo gli avevano dato il posto di portalettere, anche per le raccomandate e le assicurate, con uso di bicicletta quando si trattava di distribuire espressi e telegrammi, o di andare lontano. In bicicletta dunque andava tutti i giorni a portare Il Sole alla fattoria Busoni, e pedalando sull'argine come sulla lama di un coltello, con la gobba che pareva una terza ruota del veicolo, cantava e fischiava allegro come un fringuello. Quel giorno però si sentiva insolitamente preoccupato; di tanto in tanto fermava la macchina come volesse scendere, e guardava una lettera che premeva forte col pollice sui giornali tenuti con la mano sinistra. Era una lettera sopraffina, con la busta orlata d'oro, indirizzata alla signorina Rachele Busoni, figlia unica del ricco fattore: una lettera, infine, che odorava di dichiarazione d'amore come odora il bocciolo della rosa sebbene ancora sigillato. [...]
Il gobbino entrava in tutte le case del paese e, volendo, avrebbe potuto sapere i più segreti affari delle famiglie che le abitavano. Ma non voleva: era onesto fino alla manìa, e per questo gli avevano dato il posto di portalettere, anche per le raccomandate e le assicurate, con uso di bicicletta quando si trattava di distribuire espressi e telegrammi, o di andare lontano. In bicicletta dunque andava tutti i giorni a portare Il Sole alla fattoria Busoni, e pedalando sull'argine come sulla lama di un coltello, con la gobba che pareva una terza ruota del veicolo, cantava e fischiava allegro come un fringuello. Quel giorno però si sentiva insolitamente preoccupato; di tanto in tanto fermava la macchina come volesse scendere, e guardava una lettera che premeva forte col pollice sui giornali tenuti con la mano sinistra. Era una lettera sopraffina, con la busta orlata d'oro, indirizzata alla signorina Rachele Busoni, figlia unica del ricco fattore: una lettera, infine, che odorava di dichiarazione d'amore come odora il bocciolo della rosa sebbene ancora sigillato. [...]
Un’orfanella sedeva presso al muro di cinta e filava, quando vide una serpe sbucare da una fessura ai piedi del muro. Stese subito accanto a sé il suo scialletto di seta azzurra; piace tanto alle serpi e non vanno che su quello. Appena la serpe lo vide, tornò indietro, ricomparve, portò una piccola coroncina d’oro, la mise sullo scialletto e se ne andò. [...] Continue reading
Un’orfanella sedeva presso al muro di cinta e filava, quando vide una serpe sbucare da una fessura ai piedi del muro. Stese subito accanto a sé il suo scialletto di seta azzurra; piace tanto alle serpi e non vanno che su quello. Appena la serpe lo vide, tornò indietro, ricomparve, portò una piccola coroncina d’oro, la mise sullo scialletto e se ne andò. [...] Continue reading
Parole di storie - Fiabe classiche d'altri suoni di Sardegna
Un'orfanella sedeva presso al muro di cinta e filava, quando vide una serpe sbucare da una fessura ai piedi del muro. Stese subito accanto a sé il suo scialletto di seta azzurra; piace tanto alle serpi e non vanno che su quello. Appena la serpe lo vide, tornò indietro, ricomparve, portò una piccola coroncina d'oro, la mise sullo scialletto e se ne andò. [...]
C'erano una volta tre poveri garzoni che non avevano lavoro. Un giorno si misero in viaggio per il mondo a cercar fortuna. Camminando e camminando, decisero di fermarsi in una città dove trovarono lavoro. Ma dopo un po' il lavoro finì, e i tre garzoni si ritrovarono in povertà. Allora [...] Continue reading
[...] Ma il Gigante si rifiutò. Subito nacque una lotta durissima tra il Gigante e la signora Morte. Fu una lotta che durò parecchio. Il gigante rimase stupito dalla forza di quella donnetta, come lui aveva chiamato. La signora morte non si muoveva per niente, bastavano le sue vesti a sferrare schiaffi e frustate, più forti che fossero pugni e calci, contro il malcapitato gigante. Ma alla fine, non si sa come, né perché, il gigante, forse colto di disperazione, tirò un colpo fortunato, e diede un pugno forte sulla testa della signora Morte, tanto che stramazzò a terra. [...] Continue reading
Parole di storie - Fiabe classiche d'altri suoni di Sardegna
Adattamento di Gaetano Marino [...] Ma il Gigante si rifiutò. Subito nacque una lotta durissima tra il Gigante e la signora Morte. Fu una lotta che durò parecchio. Il gigante rimase stupito dalla forza di quella donnetta, come lui aveva chiamato. La signora morte non si muoveva per niente, bastavano le sue vesti a sferrare schiaffi e frustate, più forti che fossero pugni e calci, contro il malcapitato gigante. Ma alla fine, non si sa come, né perché, il gigante, forse colto di disperazione, tirò un colpo fortunato, e diede un pugno forte sulla testa della signora Morte, tanto che stramazzò a terra. [...]
C’era una volta un contadino che andava ad arare il suo campo con un paio di buoi. Quando arrivò nel campo, mentre i buoi tiravano l’aratro di ginepro, e con grossa fatica, per solcare il campo, d’improvviso le corna dei due animali cominciarono a crescere; e cresci e cresci e cresci, crebbero così tanto quelle corna, che quando il contadino tornò a casa non poté far entrare i buoi nella stalla; dato che le loro corna erano cresciute troppo da non poter varcare il portone della casa. [...] Continue reading
Parole di storie - Fiabe classiche d'altri suoni di Sardegna
Messa in voce di Lilli Fois C'era una volta un contadino che andava ad arare il suo campo con un paio di buoi. Quando arrivò nel campo, mentre i buoi tiravano l'aratro di ginepro, e con grossa fatica, per solcare il campo, d'improvviso le corna dei due animali cominciarono a crescere; e cresci e cresci e cresci, crebbero così tanto quelle corna, che quando il contadino tornò a casa non poté far entrare i buoi nella stalla; dato che le loro corna erano cresciute troppo da non poter varcare il portone della casa. [...]
Parole di storie - Fiabe classiche d'altri suoni di Sardegna
Messa in voce di Lilli Fois C'era una volta un re, che aveva una figlia a cui voleva molto bene. Questo re aveva fatto costruire un monte di vetro, promettendo che che avrebbe dato sua figlia in sposa a chi fosse riuscito ad attraversarlo, senza minimo cadere. C'era un giovane ragazzo che era innamorato della principessa e domandò al re se potesse averla lui in sposa. — Sì! — disse il re: - se attraverserete il monte senza cadere, l'avrete. Allora la principessa, che già amava il coraggioso ragazzo, disse che voleva anche lei attraversare il monte, insieme con il suo amato, così da poterlo aiutare, semmai dovesse cadere. Il re suo padre diede il suo permesso. [...]
Parole di storie - Fiabe classiche d'altri suoni di Sardegna
Messa in voce di Lilli Fois C'era una volta una povera donna, che aveva un figlio; questo figlio aveva tanta voglia di girare il mondo e la madre gli disse: — Come farai? Noi non abbiamo denaro, che tu possa portare con te —. Disse il figlio: — Me la caverò. Dirò sempre: «Non molto, non molto, non molto ». Girò il mondo per qualche tempo e diceva sempre: — Non molto; non molto, non molto —. Trovò un gruppo di pescatori e disse: - Dio vi assista! non molto; non molto, non molto! Perché dici «non molto », mascalzone? — E quando tirarono le reti, non ci avevano preso molto pesce. Allora lo bastonarono e dissero: — Non hai mai visto come si fa a trebbiare? — Cosa devo dire allora? — domandò il ragazzo. — Devi dire: « Piglia tanto! piglia tanto! » [...]
[...] Matteo vide, e non poté trattenere un moto d'angoscia: fin dalla sua prima giovinezza, più che il tramonto del sole e della luna, egli aveva amato e contemplato sempre il tramonto di Venere. E quest'ultimo tramonto, più che ogni altra cosa in quella sera fatale gli rievocava in un attimo tutti i più cari ricordi della sua vita. Entrò nel boschetto, in un viale diritto e stretto che la luna illuminava dall'alto. Non una foglia si muoveva: i rami s'ergevano e si stendevano rigidi, immobili nella purissima trasparenza dell'aria, e sembravano addormentati in un sogno. I raggi della luna li attraversavano, quieti, andando a porre larghe macchie d'argento sull'erba finissima che rinasceva sotto le piante. Una fredda fragranza di erba, di funghi, di foglie cadute, esalava, dando la distinta sensazione dei luoghi solitari e ombrosi. Ma anche là, sotto il cielo sempre più puro, sotto le stelle limpidissime, sembrava d'essere in primavera. Matteo attraversò il viale, andando dritto verso una panchetta di pietra, seduto sulla quale aveva già trascorso tante ore: laggiù precisamente egli voleva morire. Ma arrivato in fondo al viale vide sulla panchetta un bimbo addormentato. — A quest'ora? — pensò meravigliato. S'accostò, piano piano, e si curvò per veder meglio. Il bimbo, di forse quattro anni, stava seduto in dolce abbandono, con le gambette penzoloni, le manine abbandonate sulla panchetta e il capo reclinato sul petto. [...]
[...] Matteo vide, e non poté trattenere un moto d'angoscia: fin dalla sua prima giovinezza, più che il tramonto del sole e della luna, egli aveva amato e contemplato sempre il tramonto di Venere. E quest'ultimo tramonto, più che ogni altra cosa in quella sera fatale gli rievocava in un attimo tutti i più cari ricordi della sua vita. Entrò nel boschetto, in un viale diritto e stretto che la luna illuminava dall'alto. Non una foglia si muoveva: i rami s'ergevano e si stendevano rigidi, immobili nella purissima trasparenza dell'aria, e sembravano addormentati in un sogno. I raggi della luna li attraversavano, quieti, andando a porre larghe macchie d’argento sull'erba finissima che rinasceva sotto le piante. Una fredda fragranza di erba, di funghi, di foglie cadute, esalava, dando la distinta sensazione dei luoghi solitari e ombrosi. Ma anche là, sotto il cielo sempre più puro, sotto le stelle limpidissime, sembrava d'essere in primavera. Matteo attraversò il viale, andando dritto verso una panchetta di pietra, seduto sulla quale aveva già trascorso tante ore: laggiù precisamente egli voleva morire. Ma arrivato in fondo al viale vide sulla panchetta un bimbo addormentato. — A quest'ora? — pensò meravigliato. S'accostò, piano piano, e si curvò per veder meglio. Il bimbo, di forse quattro anni, stava seduto in dolce abbandono, con le gambette penzoloni, le manine abbandonate sulla panchetta e il capo reclinato sul petto. [...]
[...] Matteo vide, e non poté trattenere un moto d'angoscia: fin dalla sua prima giovinezza, più che il tramonto del sole e della luna, egli aveva amato e contemplato sempre il tramonto di Venere. E quest'ultimo tramonto, più che ogni altra cosa in quella sera fatale gli rievocava in un attimo tutti i più cari ricordi della sua vita. Entrò nel boschetto, in un viale diritto e stretto che la luna illuminava dall'alto. Non una foglia si muoveva: i rami s'ergevano e si stendevano rigidi, immobili nella purissima trasparenza dell'aria, e sembravano addormentati in un sogno. I raggi della luna li attraversavano, quieti, andando a porre larghe macchie d’argento sull'erba finissima che rinasceva sotto le piante. Una fredda fragranza di erba, di funghi, di foglie cadute, esalava, dando la distinta sensazione dei luoghi solitari e ombrosi. Ma anche là, sotto il cielo sempre più puro, sotto le stelle limpidissime, sembrava d'essere in primavera. Matteo attraversò il viale, andando dritto verso una panchetta di pietra, seduto sulla quale aveva già trascorso tante ore: laggiù precisamente egli voleva morire. Ma arrivato in fondo al viale vide sulla panchetta un bimbo addormentato. — A quest'ora? — pensò meravigliato. S'accostò, piano piano, e si curvò per veder meglio. Il bimbo, di forse quattro anni, stava seduto in dolce abbandono, con le gambette penzoloni, le manine abbandonate sulla panchetta e il capo reclinato sul petto. [...]
Una borta ci fiat - una volta c'era - Novelline popolari sarde, di Francesco Mango
[...] Matteo vide, e non poté trattenere un moto d'angoscia: fin dalla sua prima giovinezza, più che il tramonto del sole e della luna, egli aveva amato e contemplato sempre il tramonto di Venere. E quest'ultimo tramonto, più che ogni altra cosa in quella sera fatale gli rievocava in un attimo tutti i più cari ricordi della sua vita. Entrò nel boschetto, in un viale diritto e stretto che la luna illuminava dall'alto. Non una foglia si muoveva: i rami s'ergevano e si stendevano rigidi, immobili nella purissima trasparenza dell'aria, e sembravano addormentati in un sogno. I raggi della luna li attraversavano, quieti, andando a porre larghe macchie d'argento sull'erba finissima che rinasceva sotto le piante. Una fredda fragranza di erba, di funghi, di foglie cadute, esalava, dando la distinta sensazione dei luoghi solitari e ombrosi. Ma anche là, sotto il cielo sempre più puro, sotto le stelle limpidissime, sembrava d'essere in primavera. Matteo attraversò il viale, andando dritto verso una panchetta di pietra, seduto sulla quale aveva già trascorso tante ore: laggiù precisamente egli voleva morire. Ma arrivato in fondo al viale vide sulla panchetta un bimbo addormentato. — A quest'ora? — pensò meravigliato. S'accostò, piano piano, e si curvò per veder meglio. Il bimbo, di forse quattro anni, stava seduto in dolce abbandono, con le gambette penzoloni, le manine abbandonate sulla panchetta e il capo reclinato sul petto. [...]
[...] Matteo vide, e non poté trattenere un moto d'angoscia: fin dalla sua prima giovinezza, più che il tramonto del sole e della luna, egli aveva amato e contemplato sempre il tramonto di Venere. E quest'ultimo tramonto, più che ogni altra cosa in quella sera fatale gli rievocava in un attimo tutti i più cari ricordi della sua vita. Entrò nel boschetto, in un viale diritto e stretto che la luna illuminava dall'alto. Non una foglia si muoveva: i rami s'ergevano e si stendevano rigidi, immobili nella purissima trasparenza dell'aria, e sembravano addormentati in un sogno. I raggi della luna li attraversavano, quieti, andando a porre larghe macchie d'argento sull'erba finissima che rinasceva sotto le piante. Una fredda fragranza di erba, di funghi, di foglie cadute, esalava, dando la distinta sensazione dei luoghi solitari e ombrosi. Ma anche là, sotto il cielo sempre più puro, sotto le stelle limpidissime, sembrava d'essere in primavera. Matteo attraversò il viale, andando dritto verso una panchetta di pietra, seduto sulla quale aveva già trascorso tante ore: laggiù precisamente egli voleva morire. Ma arrivato in fondo al viale vide sulla panchetta un bimbo addormentato. — A quest'ora? — pensò meravigliato. S'accostò, piano piano, e si curvò per veder meglio. Il bimbo, di forse quattro anni, stava seduto in dolce abbandono, con le gambette penzoloni, le manine abbandonate sulla panchetta e il capo reclinato sul petto. [...]
[...] Matteo vide, e non poté trattenere un moto d'angoscia: fin dalla sua prima giovinezza, più che il tramonto del sole e della luna, egli aveva amato e contemplato sempre il tramonto di Venere. E quest'ultimo tramonto, più che ogni altra cosa in quella sera fatale gli rievocava in un attimo tutti i più cari ricordi della sua vita. Entrò nel boschetto, in un viale diritto e stretto che la luna illuminava dall'alto. Non una foglia si muoveva: i rami s'ergevano e si stendevano rigidi, immobili nella purissima trasparenza dell'aria, e sembravano addormentati in un sogno. I raggi della luna li attraversavano, quieti, andando a porre larghe macchie d'argento sull'erba finissima che rinasceva sotto le piante. Una fredda fragranza di erba, di funghi, di foglie cadute, esalava, dando la distinta sensazione dei luoghi solitari e ombrosi. Ma anche là, sotto il cielo sempre più puro, sotto le stelle limpidissime, sembrava d'essere in primavera. Matteo attraversò il viale, andando dritto verso una panchetta di pietra, seduto sulla quale aveva già trascorso tante ore: laggiù precisamente egli voleva morire. Ma arrivato in fondo al viale vide sulla panchetta un bimbo addormentato. — A quest'ora? — pensò meravigliato. S'accostò, piano piano, e si curvò per veder meglio. Il bimbo, di forse quattro anni, stava seduto in dolce abbandono, con le gambette penzoloni, le manine abbandonate sulla panchetta e il capo reclinato sul petto. [...]
[...] Matteo vide, e non poté trattenere un moto d'angoscia: fin dalla sua prima giovinezza, più che il tramonto del sole e della luna, egli aveva amato e contemplato sempre il tramonto di Venere. E quest'ultimo tramonto, più che ogni altra cosa in quella sera fatale gli rievocava in un attimo tutti i più cari ricordi della sua vita. Entrò nel boschetto, in un viale diritto e stretto che la luna illuminava dall'alto. Non una foglia si muoveva: i rami s'ergevano e si stendevano rigidi, immobili nella purissima trasparenza dell'aria, e sembravano addormentati in un sogno. I raggi della luna li attraversavano, quieti, andando a porre larghe macchie d'argento sull'erba finissima che rinasceva sotto le piante. Una fredda fragranza di erba, di funghi, di foglie cadute, esalava, dando la distinta sensazione dei luoghi solitari e ombrosi. Ma anche là, sotto il cielo sempre più puro, sotto le stelle limpidissime, sembrava d'essere in primavera. Matteo attraversò il viale, andando dritto verso una panchetta di pietra, seduto sulla quale aveva già trascorso tante ore: laggiù precisamente egli voleva morire. Ma arrivato in fondo al viale vide sulla panchetta un bimbo addormentato. — A quest'ora? — pensò meravigliato. S'accostò, piano piano, e si curvò per veder meglio. Il bimbo, di forse quattro anni, stava seduto in dolce abbandono, con le gambette penzoloni, le manine abbandonate sulla panchetta e il capo reclinato sul petto. [...]
[...] Matteo vide, e non poté trattenere un moto d'angoscia: fin dalla sua prima giovinezza, più che il tramonto del sole e della luna, egli aveva amato e contemplato sempre il tramonto di Venere. E quest'ultimo tramonto, più che ogni altra cosa in quella sera fatale gli rievocava in un attimo tutti i più cari ricordi della sua vita. Entrò nel boschetto, in un viale diritto e stretto che la luna illuminava dall'alto. Non una foglia si muoveva: i rami s'ergevano e si stendevano rigidi, immobili nella purissima trasparenza dell'aria, e sembravano addormentati in un sogno. I raggi della luna li attraversavano, quieti, andando a porre larghe macchie d'argento sull'erba finissima che rinasceva sotto le piante. Una fredda fragranza di erba, di funghi, di foglie cadute, esalava, dando la distinta sensazione dei luoghi solitari e ombrosi. Ma anche là, sotto il cielo sempre più puro, sotto le stelle limpidissime, sembrava d'essere in primavera. Matteo attraversò il viale, andando dritto verso una panchetta di pietra, seduto sulla quale aveva già trascorso tante ore: laggiù precisamente egli voleva morire. Ma arrivato in fondo al viale vide sulla panchetta un bimbo addormentato. — A quest'ora? — pensò meravigliato. S'accostò, piano piano, e si curvò per veder meglio. Il bimbo, di forse quattro anni, stava seduto in dolce abbandono, con le gambette penzoloni, le manine abbandonate sulla panchetta e il capo reclinato sul petto. [...]
[...] Matteo vide, e non poté trattenere un moto d'angoscia: fin dalla sua prima giovinezza, più che il tramonto del sole e della luna, egli aveva amato e contemplato sempre il tramonto di Venere. E quest'ultimo tramonto, più che ogni altra cosa in quella sera fatale gli rievocava in un attimo tutti i più cari ricordi della sua vita. Entrò nel boschetto, in un viale diritto e stretto che la luna illuminava dall'alto. Non una foglia si muoveva: i rami s'ergevano e si stendevano rigidi, immobili nella purissima trasparenza dell'aria, e sembravano addormentati in un sogno. I raggi della luna li attraversavano, quieti, andando a porre larghe macchie d'argento sull'erba finissima che rinasceva sotto le piante. Una fredda fragranza di erba, di funghi, di foglie cadute, esalava, dando la distinta sensazione dei luoghi solitari e ombrosi. Ma anche là, sotto il cielo sempre più puro, sotto le stelle limpidissime, sembrava d'essere in primavera. Matteo attraversò il viale, andando dritto verso una panchetta di pietra, seduto sulla quale aveva già trascorso tante ore: laggiù precisamente egli voleva morire. Ma arrivato in fondo al viale vide sulla panchetta un bimbo addormentato. — A quest'ora? — pensò meravigliato. S'accostò, piano piano, e si curvò per veder meglio. Il bimbo, di forse quattro anni, stava seduto in dolce abbandono, con le gambette penzoloni, le manine abbandonate sulla panchetta e il capo reclinato sul petto. [...]
[...] Matteo vide, e non poté trattenere un moto d'angoscia: fin dalla sua prima giovinezza, più che il tramonto del sole e della luna, egli aveva amato e contemplato sempre il tramonto di Venere. E quest'ultimo tramonto, più che ogni altra cosa in quella sera fatale gli rievocava in un attimo tutti i più cari ricordi della sua vita. Entrò nel boschetto, in un viale diritto e stretto che la luna illuminava dall'alto. Non una foglia si muoveva: i rami s'ergevano e si stendevano rigidi, immobili nella purissima trasparenza dell'aria, e sembravano addormentati in un sogno. I raggi della luna li attraversavano, quieti, andando a porre larghe macchie d'argento sull'erba finissima che rinasceva sotto le piante. Una fredda fragranza di erba, di funghi, di foglie cadute, esalava, dando la distinta sensazione dei luoghi solitari e ombrosi. Ma anche là, sotto il cielo sempre più puro, sotto le stelle limpidissime, sembrava d'essere in primavera. Matteo attraversò il viale, andando dritto verso una panchetta di pietra, seduto sulla quale aveva già trascorso tante ore: laggiù precisamente egli voleva morire. Ma arrivato in fondo al viale vide sulla panchetta un bimbo addormentato. — A quest'ora? — pensò meravigliato. S'accostò, piano piano, e si curvò per veder meglio. Il bimbo, di forse quattro anni, stava seduto in dolce abbandono, con le gambette penzoloni, le manine abbandonate sulla panchetta e il capo reclinato sul petto. [...]
Se una notte * Storie dalle Storie di Erodoto * Viaggi e Meraviglie
[...] Matteo vide, e non poté trattenere un moto d'angoscia: fin dalla sua prima giovinezza, più che il tramonto del sole e della luna, egli aveva amato e contemplato sempre il tramonto di Venere. E quest'ultimo tramonto, più che ogni altra cosa in quella sera fatale gli rievocava in un attimo tutti i più cari ricordi della sua vita. Entrò nel boschetto, in un viale diritto e stretto che la luna illuminava dall'alto. Non una foglia si muoveva: i rami s'ergevano e si stendevano rigidi, immobili nella purissima trasparenza dell'aria, e sembravano addormentati in un sogno. I raggi della luna li attraversavano, quieti, andando a porre larghe macchie d'argento sull'erba finissima che rinasceva sotto le piante. Una fredda fragranza di erba, di funghi, di foglie cadute, esalava, dando la distinta sensazione dei luoghi solitari e ombrosi. Ma anche là, sotto il cielo sempre più puro, sotto le stelle limpidissime, sembrava d'essere in primavera. Matteo attraversò il viale, andando dritto verso una panchetta di pietra, seduto sulla quale aveva già trascorso tante ore: laggiù precisamente egli voleva morire. Ma arrivato in fondo al viale vide sulla panchetta un bimbo addormentato. — A quest'ora? — pensò meravigliato. S'accostò, piano piano, e si curvò per veder meglio. Il bimbo, di forse quattro anni, stava seduto in dolce abbandono, con le gambette penzoloni, le manine abbandonate sulla panchetta e il capo reclinato sul petto. [...]
"Questi ricordi, devo lasciarli perdere di nuovo, perché già troppi li hanno ricordati a modo loro? Qui vedo chiaro che la mia fanciullezza è più vicina ai tempi dei nuraghi che a tempi come questi. E mi ci sento le vertigini. Ma è grazie agli artifici del ricordo che si riesce a sopportare ogni passato, e forse a non avere eccessi di paura del futuro. Ma non sarà che rimane memoria solo di ciò che lo voleva diventare, ci aspirava da sé, per conto suo, a essere memoria?".
Sostieni Quarta Radio con una libera donazione Il gioco del mondo, di Giulio Angioni (versione teatrale) con Lilli Fois, Roberta Perra e Caterina Scalas drammaturgia di scena di Gaetno Marino Elaborazione del suono a cura di Simon Balestrazzi Suono di Gaetano Marino “Questi ricordi, devo lasciarli perdere di nuovo, perché già troppi li hanno ricordati […]
"Questi ricordi, devo lasciarli perdere di nuovo, perché già troppi li hanno ricordati a modo loro? Qui vedo chiaro che la mia fanciullezza è più vicina ai tempi dei nuraghi che a tempi come questi. E mi ci sento le vertigini. Ma è grazie agli artifici del ricordo che si riesce a sopportare ogni passato, e forse a non avere eccessi di paura del futuro. Ma non sarà che rimane memoria solo di ciò che lo voleva diventare, ci aspirava da sé, per conto suo, a essere memoria?".
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