Questo canale podcast è nato dall'unione di due passioni: la scrittura e la recitazione. Siamo due ragazzi di Verona che vogliono far conoscere le proprie capacità. Benvenuti!!
Narrazione di Manuel Cavalieri con l'aiuto di Deborah Campagnari sul racconto "La Perfezione" di Mirko Alberini.Il peso del viaggio stava diventando insostenibile, per fortuna mancava poco alla sua fine. Perfino la valigia era diventata una zavorra, una palla di ferro al piede di un prigioniero. La appoggiai qualche istante per terra per riprendere fiato e poi incamminarmi verso casa, la mia vera casa, non quella che il lavoro aveva designato per me. La trasferta diventava ogni settimana più lunga e pesante e la lontananza da casa mi faceva sentire in colpa. Forse mia moglie e mio figlio mi avrebbero considerato uno sporco menefreghista nei loro confronti. Forse avrebbero pensato che stessi meglio fuori città, lontano dai problemi della loro vita quotidiana. Ma non era vero. Solo lavorando distante avrei guadagnato una somma tale da rendere la vita facile e piacevole per loro e per quanto riguarda i problemi, bhe, era distruttivo per me pensare che ne avessero e che non potevo risolverglieli per la distanza. Ripresi in mano il bagaglio pieno di vestiti, sensi di colpa e aspettative e mi diressi verso casa. Superai a piedi il parco nel quale sicuramente mio figlio rideva e scherzava con gli amici, poco più avanti passai di fronte al parrucchiere che faceva sempre la messa in piega a mia moglie e della quale mia moglie era sempre scontenta. Andai oltre la scuola e la chiesa, girai in una piccola via piena di botteghe alimentari e svoltai dove l’edicola faceva angolo. Superai tutte quelle tappe di quella quotidianità che non mi apparteneva, ma che vedevo come un obbiettivo da raggiungere. Arrivai poco dopo di fronte al cancello di casa e la osservai per qualche momento: una piccola villetta con un minuscolo giardino, le mura di un colore bianco ormai sporco e una lingua di ruggine che colava dalla grondaia, dalle finestre si intravedevano le tende che mia moglie aveva scelto con tanta cura e dietro di esse due ombre che ogni tanto passavano in velocità senza curarsi del mondo esterno, vivendo le loro vite, vivendo una perfezione incompleta. Non volevo cercare le chiavi nella valigia, quindi suonai e attesi.Mi venne ad aprire mia moglie. Un angelo. Gli occhi le si illuminarono e sorrise. Dio, quando amavo quel sorriso! Il rossetto rosso scuro che incorniciava una dentatura bellissima, gli zigomi che si alzavano e facevano sorridere anche i suoi occhi.“Ciao, tesoro!” disse, “Ale, papà è tornato!” urlò poi a nostro figlio.“Sei bellissima!”, non so perché fu questa la prima cosa che dissi, ma era vero.“Bellissima? Anche con questa piega?” ridacchiò mentre si toccava i capelli.La baciai sulle labbra.“Ciao papà!” sentii urlare. Guardai in basso ed eccolo lì, quel piccolo scricciolo di 5 anni che mi guardava con i suoi grandi occhioni verdi. Lo presi in braccio.Ecco, questa era la perfezione. Arrivare a casa, dalle persone che si amano e guardarle come la prima volta. Per questo ringrazio il mio lavoro a distanza tanto quanto lo maledico: perché ci toglie tanto, ma quando finisce ci rende il doppio.
Narrazione di Manuel Cavalieri con l'aiuto di Deborah Campagnari sul racconto "La Perfezione" di Mirko Alberini.Il peso del viaggio stava diventando insostenibile, per fortuna mancava poco alla sua fine. Perfino la valigia era diventata una zavorra, una palla di ferro al piede di un prigioniero. La appoggiai qualche istante per terra per riprendere fiato e poi incamminarmi verso casa, la mia vera casa, non quella che il lavoro aveva designato per me. La trasferta diventava ogni settimana più lunga e pesante e la lontananza da casa mi faceva sentire in colpa. Forse mia moglie e mio figlio mi avrebbero considerato uno sporco menefreghista nei loro confronti. Forse avrebbero pensato che stessi meglio fuori città, lontano dai problemi della loro vita quotidiana. Ma non era vero. Solo lavorando distante avrei guadagnato una somma tale da rendere la vita facile e piacevole per loro e per quanto riguarda i problemi, bhe, era distruttivo per me pensare che ne avessero e che non potevo risolverglieli per la distanza. Ripresi in mano il bagaglio pieno di vestiti, sensi di colpa e aspettative e mi diressi verso casa. Superai a piedi il parco nel quale sicuramente mio figlio rideva e scherzava con gli amici, poco più avanti passai di fronte al parrucchiere che faceva sempre la messa in piega a mia moglie e della quale mia moglie era sempre scontenta. Andai oltre la scuola e la chiesa, girai in una piccola via piena di botteghe alimentari e svoltai dove l’edicola faceva angolo. Superai tutte quelle tappe di quella quotidianità che non mi apparteneva, ma che vedevo come un obbiettivo da raggiungere. Arrivai poco dopo di fronte al cancello di casa e la osservai per qualche momento: una piccola villetta con un minuscolo giardino, le mura di un colore bianco ormai sporco e una lingua di ruggine che colava dalla grondaia, dalle finestre si intravedevano le tende che mia moglie aveva scelto con tanta cura e dietro di esse due ombre che ogni tanto passavano in velocità senza curarsi del mondo esterno, vivendo le loro vite, vivendo una perfezione incompleta. Non volevo cercare le chiavi nella valigia, quindi suonai e attesi.Mi venne ad aprire mia moglie. Un angelo. Gli occhi le si illuminarono e sorrise. Dio, quando amavo quel sorriso! Il rossetto rosso scuro che incorniciava una dentatura bellissima, gli zigomi che si alzavano e facevano sorridere anche i suoi occhi.“Ciao, tesoro!” disse, “Ale, papà è tornato!” urlò poi a nostro figlio.“Sei bellissima!”, non so perché fu questa la prima cosa che dissi, ma era vero.“Bellissima? Anche con questa piega?” ridacchiò mentre si toccava i capelli.La baciai sulle labbra.“Ciao papà!” sentii urlare. Guardai in basso ed eccolo lì, quel piccolo scricciolo di 5 anni che mi guardava con i suoi grandi occhioni verdi. Lo presi in braccio.Ecco, questa era la perfezione. Arrivare a casa, dalle persone che si amano e guardarle come la prima volta. Per questo ringrazio il mio lavoro a distanza tanto quanto lo maledico: perché ci toglie tanto, ma quando finisce ci rende il doppio.
Narrazione di Manuel Cavalieri sul racconto Finestrino sul passato di Mirko Alberini.Non ho mai fatto un viaggio così lungo. La mia stazione sembra non arrivare mai, le persone salgono e scendono da questo treno e non tocca mai a me schiodarmi da questo sedile.Nel frattempo inganno la fatica della noia guardando dal mio finestrino il mondo esterno che corre veloce in direzione contraria, come missili passano case, parchi, storie e vite.Un piccolo paese in lontananza si staglia sul finestrino più a lungo rispetto alle altre immagini, era costruito su una collina e la conformazione delle abitazioni ricordava una piccola cittadella medievale. Ho sempre avuto la passione per quei secoli bui, non c’era fiera rinascimentale che non frequentassi e la mia camera, almeno fino a una certa età, era piena di pergamene scritte con inchiostro e pennino e qualche riproduzione di spade appartenenti a un medioevo di fantasia. Poi sono “diventato grande”, così dissero i miei parenti almeno. A quel punto il mio treno iniziò ad accelerare. Trovai un lavoretto per finire i miei studi, mi laureai in economia con un ottimo voto e ora, mentre il mondo passava veloce al mio fianco capii che anche quegli anni spesi a portare pizze a domicilio e a litigare con i numeri passarono veloci, non ho saputo fermarli come se fossero l’acqua di un torrente che fugge tra le dita di una mano.“Si avvisano i gentili clienti che il treno subirà un ritardo di dieci minuti”, disse la voce maschile e robotica all’altoparlante. In quel momento si sedette una signora di fronte a me, non anziana ma nemmeno giovane avrà avuto la sua sessantina d’anni. Si appoggiò la borsa sulle gambe, la abbracciò come se fosse un cucciolo amorevole e aprì un libro. Lo sguardo era concentrato dietro gli occhiali con la montatura rossa, sembrava che niente potesse distogliere la sua attenzione da quel mondo di pagine e io la lasciai a navigare in oceani sconosciuti di immaginazione. Rivolsi invece la mia attenzione ai campi che attraversavano il mio schermo sul mondo e ricordai le mie vacanze in campagna dai miei zii. Litigavano sempre, ogni giorno, ma si volevano bene, da piccolo non credevo che fossero mai esistiti da soli, erano troppo perfetti insieme.Il treno si stava fermando: era giunto in una stazione, non la mia. Sospirai.La donna di fronte si alzò, sempre con il libro in una mano e la borsa nell’altra. Scese e provai una sorta di tristezza. Non la conoscevo certo, ma era una presenza che ha colorato un frammento del mio viaggio, ora quel colore si fece più opaco.Quando il mezzo ripartì rivolsi ancora lo sguardo fuori e vidi sullo sfondo una grande città, piena di alti palazzi, di fabbriche e di uffici. Prigioni. Galere che non lasciano entrare né i pasti di un passato, né la luce di un futuro, ma solo le tenebre di un presente. Ho avuto un presente così per molto tempo ottenebrato da numeri, bilanci e sigle di cui la maggior parte della gente non conosce il significato, ma adesso sono libero. Viaggiare è diventato il significato della mia esistenza. Posti, emozioni e soprattutto persone, questo conta è questo molto spesso dimentichiamo. Ora non sono più in carcere. Posso nutrirmi di ciò che voglio, posso vedere luci e luoghi mai visti. Apprezzo molto essere in pensione, se solo non fossi così vecchio e non avessi visto così tante persone scendere da questo treno.Beh, forse è tempo che mi prepari, la prossima è la mia fermata
Narrazione di Manuel Cavalieri sul racconto Finestrino sul passato di Mirko Alberini.Non ho mai fatto un viaggio così lungo. La mia stazione sembra non arrivare mai, le persone salgono e scendono da questo treno e non tocca mai a me schiodarmi da questo sedile.Nel frattempo inganno la fatica della noia guardando dal mio finestrino il mondo esterno che corre veloce in direzione contraria, come missili passano case, parchi, storie e vite.Un piccolo paese in lontananza si staglia sul finestrino più a lungo rispetto alle altre immagini, era costruito su una collina e la conformazione delle abitazioni ricordava una piccola cittadella medievale. Ho sempre avuto la passione per quei secoli bui, non c’era fiera rinascimentale che non frequentassi e la mia camera, almeno fino a una certa età, era piena di pergamene scritte con inchiostro e pennino e qualche riproduzione di spade appartenenti a un medioevo di fantasia. Poi sono “diventato grande”, così dissero i miei parenti almeno. A quel punto il mio treno iniziò ad accelerare. Trovai un lavoretto per finire i miei studi, mi laureai in economia con un ottimo voto e ora, mentre il mondo passava veloce al mio fianco capii che anche quegli anni spesi a portare pizze a domicilio e a litigare con i numeri passarono veloci, non ho saputo fermarli come se fossero l’acqua di un torrente che fugge tra le dita di una mano.“Si avvisano i gentili clienti che il treno subirà un ritardo di dieci minuti”, disse la voce maschile e robotica all’altoparlante. In quel momento si sedette una signora di fronte a me, non anziana ma nemmeno giovane avrà avuto la sua sessantina d’anni. Si appoggiò la borsa sulle gambe, la abbracciò come se fosse un cucciolo amorevole e aprì un libro. Lo sguardo era concentrato dietro gli occhiali con la montatura rossa, sembrava che niente potesse distogliere la sua attenzione da quel mondo di pagine e io la lasciai a navigare in oceani sconosciuti di immaginazione. Rivolsi invece la mia attenzione ai campi che attraversavano il mio schermo sul mondo e ricordai le mie vacanze in campagna dai miei zii. Litigavano sempre, ogni giorno, ma si volevano bene, da piccolo non credevo che fossero mai esistiti da soli, erano troppo perfetti insieme.Il treno si stava fermando: era giunto in una stazione, non la mia. Sospirai.La donna di fronte si alzò, sempre con il libro in una mano e la borsa nell’altra. Scese e provai una sorta di tristezza. Non la conoscevo certo, ma era una presenza che ha colorato un frammento del mio viaggio, ora quel colore si fece più opaco.Quando il mezzo ripartì rivolsi ancora lo sguardo fuori e vidi sullo sfondo una grande città, piena di alti palazzi, di fabbriche e di uffici. Prigioni. Galere che non lasciano entrare né i pasti di un passato, né la luce di un futuro, ma solo le tenebre di un presente. Ho avuto un presente così per molto tempo ottenebrato da numeri, bilanci e sigle di cui la maggior parte della gente non conosce il significato, ma adesso sono libero. Viaggiare è diventato il significato della mia esistenza. Posti, emozioni e soprattutto persone, questo conta è questo molto spesso dimentichiamo. Ora non sono più in carcere. Posso nutrirmi di ciò che voglio, posso vedere luci e luoghi mai visti. Apprezzo molto essere in pensione, se solo non fossi così vecchio e non avessi visto così tante persone scendere da questo treno.Beh, forse è tempo che mi prepari, la prossima è la mia fermata
Narrazione di Manuel Cavalieri sul racconto L'immenso di Mirko Alberini.Ci sono posti che l’occhio non riesce a raggiungere. In questo risiede la bellezza.La vastità dell’immenso è una cosa che ha sempre affascinato tutti e, mentre guardava il mare stendersi fino a congiungersi con il cielo, anche lui si sentiva affascinato dalla grandezza. Voleva sfidarla, ma aveva anche paura. L’ignoto di quel mondo blu nascondeva pericoli mortali e sapeva che un giorno o l’altro li avrebbe affrontati, ma per ora se ne stava lì, sulla riva a guardare il suo possibile futuro.Osservava l’acqua bassa nella quale era immerso e, guardando il fondo sabbioso, vedeva tortuose stradine di sole che l’avrebbero condotto, curva dopo curva, verso un mondo splendidamente terrificante.Era quasi il tramonto, il momento della giornata che preferiva, quando il blu del mare si scagliava contro i colori caldi del cielo e ne prendeva i riflessi. Come un amore. Non esisteva più il mare e il cielo, ma entrambi diventavano un po’ uno e un po’ l’altro. L’acqua catturava i riflessi rossi del sole che andava a scomparire e il cielo diventava sempre più scuro come i luoghi più profondi dell’oceano. Lui era lì ad aspettare che il cielo e il mare si innamorassero anche quel giorno.Si ancorava alla sabbia avvertendo il dolce cullare delle onde che pacifiche sembravano volerlo invitare verso l’immenso e lui, vedendo le onde andare e venire, era indeciso se restare nel suo posticino sicuro oppure viaggiare in un mondo sconosciuto.Il sole era sempre più basso e stava quasi per baciare il mare con l’intensità del fuoco quando qualcosa quel giorno cambiò.Vide il cielo diventare rosso e avvicinarsi sempre di più come un grande disco che copriva la bellezza della volta celeste per intrappolarlo in un mondo di sangue. Era spaventoso. Il suo cuore batteva all’impazzata e provò a fuggire. Sulle prime non riusciva a muoversi, ma poi corse, corse come un folle, ma non c’era niente da fare, il disco rosso era sempre sopra di lui. Iniziarono anche dei rumori striduli come conchiglie strisciate su un tubo di ferro, come un linguaggio sconosciuto di mostri altrettanto ignoti.Spalsh.Il mondo si fece tutto rosso. Era in trappola. Altri stridii. Altro terrore.Provò a fuggire da quella gabbia ma sbatté contro la parete. Tentò di scappare da un’altra parte, ma niente. Non voleva morire così, si ritrovò a pensare, lui avrebbe voluto morire guardando il bacio del sole e del mare.Poi le cose peggiorarono. Ci fu un momento di confusione in cui terra e cielo si mischiarono per un secondo e lui si ritrovò a guardare in alto un quadro circolare in cui campeggiava una nuvola, sotto di sé un po’ di sabbia e un po’ di acqua e, intorno, la gabbia di sangue non era scomparsa.Provò ancora a sbatterci contro, forse voleva romperla, forse sperava che sparisse da un momento all’altro o forse si poteva rovesciare permettendogli di andarsene.Il tempo passava e il cielo si oscurava sempre di più, stava per scendere la notte e lui era ancora lì dentro. Avrebbe passato tutta la vita in quello spazio piccolo e soffocante? Come avrebbe fatto a procurarsi il cibo? Forse sarebbe morto di fame o forse il sole del giorno dopo l'avrebbe letteralmente cotto. Non voleva. Doveva fare ancora molte cose. Voleva ancora vedere l'immenso. Pochi minuti dopo si sentì uno scroscio sbattere sulle pareti di quella strana gabbia. Poi seguito da un altro è un altro poco più forte. La sua prigione traballò e si capovolse ancora. L'acqua uscì e, come un cucciolo che raggiunge la madre dopo essere rimasto indietro, si ricongiunse con il suo genitore che era il mare. Lui riuscì ad uscire e il secchiello rosso, sospinto dalle onde, rotolò per un bel pezzo sulla riva. Lui lo guardò con odio.Con un po' di timore ma mosso dalla voglia di vendetta si avvicinò a quella prigione che ora appariva così inerme e la pizzicò con le sue chele. Poi si diresse verso l'immenso, verso la grandezza del mare aperto, certo che la vastità non avrebbe fatto più paura dei piccoli spazi.
Narrazione di Manuel Cavalieri sul racconto L'immenso di Mirko Alberini.Ci sono posti che l’occhio non riesce a raggiungere. In questo risiede la bellezza.La vastità dell’immenso è una cosa che ha sempre affascinato tutti e, mentre guardava il mare stendersi fino a congiungersi con il cielo, anche lui si sentiva affascinato dalla grandezza. Voleva sfidarla, ma aveva anche paura. L’ignoto di quel mondo blu nascondeva pericoli mortali e sapeva che un giorno o l’altro li avrebbe affrontati, ma per ora se ne stava lì, sulla riva a guardare il suo possibile futuro.Osservava l’acqua bassa nella quale era immerso e, guardando il fondo sabbioso, vedeva tortuose stradine di sole che l’avrebbero condotto, curva dopo curva, verso un mondo splendidamente terrificante.Era quasi il tramonto, il momento della giornata che preferiva, quando il blu del mare si scagliava contro i colori caldi del cielo e ne prendeva i riflessi. Come un amore. Non esisteva più il mare e il cielo, ma entrambi diventavano un po’ uno e un po’ l’altro. L’acqua catturava i riflessi rossi del sole che andava a scomparire e il cielo diventava sempre più scuro come i luoghi più profondi dell’oceano. Lui era lì ad aspettare che il cielo e il mare si innamorassero anche quel giorno.Si ancorava alla sabbia avvertendo il dolce cullare delle onde che pacifiche sembravano volerlo invitare verso l’immenso e lui, vedendo le onde andare e venire, era indeciso se restare nel suo posticino sicuro oppure viaggiare in un mondo sconosciuto.Il sole era sempre più basso e stava quasi per baciare il mare con l’intensità del fuoco quando qualcosa quel giorno cambiò.Vide il cielo diventare rosso e avvicinarsi sempre di più come un grande disco che copriva la bellezza della volta celeste per intrappolarlo in un mondo di sangue. Era spaventoso. Il suo cuore batteva all’impazzata e provò a fuggire. Sulle prime non riusciva a muoversi, ma poi corse, corse come un folle, ma non c’era niente da fare, il disco rosso era sempre sopra di lui. Iniziarono anche dei rumori striduli come conchiglie strisciate su un tubo di ferro, come un linguaggio sconosciuto di mostri altrettanto ignoti.Spalsh.Il mondo si fece tutto rosso. Era in trappola. Altri stridii. Altro terrore.Provò a fuggire da quella gabbia ma sbatté contro la parete. Tentò di scappare da un’altra parte, ma niente. Non voleva morire così, si ritrovò a pensare, lui avrebbe voluto morire guardando il bacio del sole e del mare.Poi le cose peggiorarono. Ci fu un momento di confusione in cui terra e cielo si mischiarono per un secondo e lui si ritrovò a guardare in alto un quadro circolare in cui campeggiava una nuvola, sotto di sé un po’ di sabbia e un po’ di acqua e, intorno, la gabbia di sangue non era scomparsa.Provò ancora a sbatterci contro, forse voleva romperla, forse sperava che sparisse da un momento all’altro o forse si poteva rovesciare permettendogli di andarsene.Il tempo passava e il cielo si oscurava sempre di più, stava per scendere la notte e lui era ancora lì dentro. Avrebbe passato tutta la vita in quello spazio piccolo e soffocante? Come avrebbe fatto a procurarsi il cibo? Forse sarebbe morto di fame o forse il sole del giorno dopo l'avrebbe letteralmente cotto. Non voleva. Doveva fare ancora molte cose. Voleva ancora vedere l'immenso. Pochi minuti dopo si sentì uno scroscio sbattere sulle pareti di quella strana gabbia. Poi seguito da un altro è un altro poco più forte. La sua prigione traballò e si capovolse ancora. L'acqua uscì e, come un cucciolo che raggiunge la madre dopo essere rimasto indietro, si ricongiunse con il suo genitore che era il mare. Lui riuscì ad uscire e il secchiello rosso, sospinto dalle onde, rotolò per un bel pezzo sulla riva. Lui lo guardò con odio.Con un po' di timore ma mosso dalla voglia di vendetta si avvicinò a quella prigione che ora appariva così inerme e la pizzicò con le sue chele. Poi si diresse verso l'immenso, verso la grandezza del mare aperto, certo che la vastità non avrebbe fatto più paura dei piccoli spazi.
Narrazione di Manuel Cavalieri sul racconto Mille Lire di Mirko Alberini.Mille Lire.La cerniera non rimaneva chiusa, il bottoncino si era staccato e la fodera si era strappata: era giunto il momento di cambiarlo. Il portafoglio che l’aveva accompagnato per più di cinque anni, che conteneva ricordi e scontrini, l’aveva abbandonato.Mattia prese il portafoglio che aveva accantonato nel cassetto e che non aveva mai usato. Iniziò quindi a travasare il contenuto del vecchio nel nuovo. Una carta fedeltà della libreria, una carta per i punti del supermercato, una tessera sconti per un negozio di elettronica, una decina di scontrini, qualche monetina e una banconota da mille lire.Una banconota da mille lire.Una lacrima rigò la guancia di Mattia e un’altra la seguì quasi creando un solco di dolorosa soluzione salina che andò a finire sulle labbra screpolate.Mille lire.Non c’era valore monetario, bensì sentimentale. Quel pezzo di carta portò Mattia a una decina di anni addietro. Lui era poco meno che un adolescente ed era ancora in vita la donna che l’aveva cresciuto, sua nonna.La banconota riportò Mattia a un pomeriggio di primavera quando, assillato da mille starnuti di allergia, vide rincasare la nonna con un sacchettino di insolite monetine.Quella banconota lo riportò alla giornata passata a spiegare alla nonna come funzionasse l’euro. Non che lei non lo sapesse, si divertiva solamente a vedere come si arrampicava sugli specchi per rivelare ogni piccola particolarità di quei soldi sconosciuti.Quella banconota riportò Mattia a quel maledetto giorno in cui la malattia la portò via, lo riportò a quel saluto – Ciao amore – biascicato quando le forze ormai la stavano abbandonando.Mille lire gli portarono alla mente mille ricordi, felici e tristi. Lui nell’indecisione pianse.Quando tutte le lacrime furono scese, mise la banconota nella tasca più segreta del nuovo portafoglio per racchiudere un mondo di ricordi in uno spazio piccolo di pelle marrone
Narrazione di Manuel Cavalieri sul racconto Mille Lire di Mirko Alberini.Mille Lire.La cerniera non rimaneva chiusa, il bottoncino si era staccato e la fodera si era strappata: era giunto il momento di cambiarlo. Il portafoglio che l’aveva accompagnato per più di cinque anni, che conteneva ricordi e scontrini, l’aveva abbandonato.Mattia prese il portafoglio che aveva accantonato nel cassetto e che non aveva mai usato. Iniziò quindi a travasare il contenuto del vecchio nel nuovo. Una carta fedeltà della libreria, una carta per i punti del supermercato, una tessera sconti per un negozio di elettronica, una decina di scontrini, qualche monetina e una banconota da mille lire.Una banconota da mille lire.Una lacrima rigò la guancia di Mattia e un’altra la seguì quasi creando un solco di dolorosa soluzione salina che andò a finire sulle labbra screpolate.Mille lire.Non c’era valore monetario, bensì sentimentale. Quel pezzo di carta portò Mattia a una decina di anni addietro. Lui era poco meno che un adolescente ed era ancora in vita la donna che l’aveva cresciuto, sua nonna.La banconota riportò Mattia a un pomeriggio di primavera quando, assillato da mille starnuti di allergia, vide rincasare la nonna con un sacchettino di insolite monetine.Quella banconota lo riportò alla giornata passata a spiegare alla nonna come funzionasse l’euro. Non che lei non lo sapesse, si divertiva solamente a vedere come si arrampicava sugli specchi per rivelare ogni piccola particolarità di quei soldi sconosciuti.Quella banconota riportò Mattia a quel maledetto giorno in cui la malattia la portò via, lo riportò a quel saluto – Ciao amore – biascicato quando le forze ormai la stavano abbandonando.Mille lire gli portarono alla mente mille ricordi, felici e tristi. Lui nell’indecisione pianse.Quando tutte le lacrime furono scese, mise la banconota nella tasca più segreta del nuovo portafoglio per racchiudere un mondo di ricordi in uno spazio piccolo di pelle marrone
Narrazione di Manuel Cavalieri sul racconto Stagioni Passate di Mirko Alberini.Stagioni Passate.Alcune volte la morte arriva di soppiatto, trascina i suoi piedi con un fruscio appena udibile, altre volte a ritmo di marcia posa le sue mani su una povera anima spaventata, ma che sia silenziosa o no, si fa sentire. Annuncia la sua venuta con squilli di tromba o soavi campanellini. Io l'ho sentita suonare grossi tamburi da guerra che andavano a un frenetico ritmo tribale.Era un giorno d'estate, ricordo il caldo, l'afa e l'umidità. Davanti a me avevo il solito panorama: un grande campo erboso, un po' verde e un po' giallo, qualche albero a farmi compagnia e piccoli animaletti che correvano in cerca di cibo o di acqua.Poi un tuono e un gran polverone.I piccoli esseri viventi si misero al sicuro con una folle corsa e io rimasi lì cercando di capire. Dopo poco iniziò il dolore. Iniziò la fine.Dicono che quando si sta per compiere il grande passo ci si ricordi dei momenti passati, ed è vero. A me è successo. Non so perché ma la prima cosa che ho ricordato è stato il mio tatuaggio, un cuore con due lettere all'interno. Ho ricordato il dolore di quando me l'hanno fatto. È strano come la mia mente sia andata esattamente a quell'istante. Non mi sembrava tanto importante, ma forse ciò che era importante non era tanto il tatuaggio ma ciò che simboleggiava. La nascita di un amore. Posso dire che ho una veneranda età e nella mia vita ho visto nascere e finire molti amori, ma nessuno era come quello. Era un giorno di primavera quando le tanto temute e attese parole furono pronunciate. Un "ti amo" che si è unito al vento e ai petali dei fiori e un "anche io" che con la leggera brezza e i profumi dolci della stagione ha creato un piccolo tornado di felicità. Erano parole sincere.Quelle due persone ogni anno, sempre lo stesso giorno, si riparavano sotto le mie fronde e facevano un picnic. Mangiavano. Ridevano. Scherzavano. Si amavano.Ma la felicità non può durare in eterno altrimenti non esisterebbe, si sa. Un anno arrivò solo lei con una mano bagnata dalle lacrime mi accarezzò il tatuaggio, poi si accovacciò tra le mie radici e pianse finché si addormentò. Mi faceva una tristezza tale che avrei voluto allungare un ramo per consolarla e invece piansi con lei anche se non poteva sentirmi.Un altro tuono e altri tamburi.La mia mente passò ai giorni d'autunno che a me tanto piacevano. Scoiattoli e conigli nascondevano il loro cibo dentro di me, una cassaforte a cui affidare la loro vita per l'inverno. Ogni autunno mi sentivo importante, quasi essenziale per quegli esseri e, nonostante io fossi ormai una quercia secolare, con quella responsabilità mi sentivo ancora più imponente del solito. Ora dove andranno quei piccoli animali? Ci sarà qualcuno che li proteggerà, come facevo io, dalla neve e dal gelo? Non voglio morire sapendo che lascerò quelle vite in balia degli eventi. Non voglio lasciare quel panorama in preda alla devastazione dell'uomo. Eppure non posso fare più niente. La mia luce si sta spegnendo e la mia mente sta crollando con il mio corpo e il boato che farò quando cadrò probabilmente segnerà la fine anche di qualche altra vita. Mi dispiace di non essere stato più forte. Abbiate cura di voi stessi. Addio.
Narrazione di Manuel Cavalieri sul racconto Stagioni Passate di Mirko Alberini.Stagioni Passate.Alcune volte la morte arriva di soppiatto, trascina i suoi piedi con un fruscio appena udibile, altre volte a ritmo di marcia posa le sue mani su una povera anima spaventata, ma che sia silenziosa o no, si fa sentire. Annuncia la sua venuta con squilli di tromba o soavi campanellini. Io l'ho sentita suonare grossi tamburi da guerra che andavano a un frenetico ritmo tribale.Era un giorno d'estate, ricordo il caldo, l'afa e l'umidità. Davanti a me avevo il solito panorama: un grande campo erboso, un po' verde e un po' giallo, qualche albero a farmi compagnia e piccoli animaletti che correvano in cerca di cibo o di acqua.Poi un tuono e un gran polverone.I piccoli esseri viventi si misero al sicuro con una folle corsa e io rimasi lì cercando di capire. Dopo poco iniziò il dolore. Iniziò la fine.Dicono che quando si sta per compiere il grande passo ci si ricordi dei momenti passati, ed è vero. A me è successo. Non so perché ma la prima cosa che ho ricordato è stato il mio tatuaggio, un cuore con due lettere all'interno. Ho ricordato il dolore di quando me l'hanno fatto. È strano come la mia mente sia andata esattamente a quell'istante. Non mi sembrava tanto importante, ma forse ciò che era importante non era tanto il tatuaggio ma ciò che simboleggiava. La nascita di un amore. Posso dire che ho una veneranda età e nella mia vita ho visto nascere e finire molti amori, ma nessuno era come quello. Era un giorno di primavera quando le tanto temute e attese parole furono pronunciate. Un "ti amo" che si è unito al vento e ai petali dei fiori e un "anche io" che con la leggera brezza e i profumi dolci della stagione ha creato un piccolo tornado di felicità. Erano parole sincere.Quelle due persone ogni anno, sempre lo stesso giorno, si riparavano sotto le mie fronde e facevano un picnic. Mangiavano. Ridevano. Scherzavano. Si amavano.Ma la felicità non può durare in eterno altrimenti non esisterebbe, si sa. Un anno arrivò solo lei con una mano bagnata dalle lacrime mi accarezzò il tatuaggio, poi si accovacciò tra le mie radici e pianse finché si addormentò. Mi faceva una tristezza tale che avrei voluto allungare un ramo per consolarla e invece piansi con lei anche se non poteva sentirmi.Un altro tuono e altri tamburi.La mia mente passò ai giorni d'autunno che a me tanto piacevano. Scoiattoli e conigli nascondevano il loro cibo dentro di me, una cassaforte a cui affidare la loro vita per l'inverno. Ogni autunno mi sentivo importante, quasi essenziale per quegli esseri e, nonostante io fossi ormai una quercia secolare, con quella responsabilità mi sentivo ancora più imponente del solito. Ora dove andranno quei piccoli animali? Ci sarà qualcuno che li proteggerà, come facevo io, dalla neve e dal gelo? Non voglio morire sapendo che lascerò quelle vite in balia degli eventi. Non voglio lasciare quel panorama in preda alla devastazione dell'uomo. Eppure non posso fare più niente. La mia luce si sta spegnendo e la mia mente sta crollando con il mio corpo e il boato che farò quando cadrò probabilmente segnerà la fine anche di qualche altra vita. Mi dispiace di non essere stato più forte. Abbiate cura di voi stessi. Addio.