Il progetto ARTPOD – ascolti d’arte nasce da una collaborazione con Collezione Maramotti, Doppiozero e Teatro delle Albe: una serie di podcast su opere iconiche della raccolta permanente della Collezione Maramotti, raccontate attraverso le parole degli autori della rivista e interpretate dagli attori del Teatro delle Albe di Ravenna. Un'iniziativa con il sostegno di Max Mara. ARTPOD – ascolti d’arte is a joint initiative between Collezione Maramotti, Doppiozero and Teatro delle Albe: a podcast series about iconic works from Collezione Maramotti permanent collection, captured in the words of Doppiozero writers and performed by actors from the Teatro delle Albe theatre company. Supported by Max Mara
collezione maramotti - doppiozero - teatro delle albe
Objects carry with them a lingering aura of past forms, other human actions. By choosing this rough jute fabric, Burri opened up another path, because the image of the sack – a container that has vanished from our visual horizon – is interwoven with distant memories: contrition and repentance (the “sackcloth” of the Middle Ages), but also the toil of manual labour: lifting, carrying, filling and emptying. In the austere fabrics of Nero con punti rossi we find other things as well.
Yet his process is never one of mere replication. “I'm not trying to imitate a photograph” he says in one of his notes, “I'm trying to make one.
Yet his process is never one of mere replication. “I'm not trying to imitate a photograph” he says in one of his notes, “I'm trying to make one.
Like Barry X Ball's work, the device here combined technology (the shifting, talking masks) with craft (theatre). This was spelled out by the subtitle of the play, Technological Phantasmagoria, which tried to bend the rules of theatre, removing the presence of actors to reveal subterranean forces. In that case, however, after the initial shock of the faces looming high above − which seem to peer down without looking at us, or to be seeing into some dark elsewhere – the focus became the head, and how it spins in circles around the inconsolable, hopeless pain of existence.
Perché un artista contemporaneo sente il bisogno di rifare l'opera di un maestro del passato, e per giunta una tra le più famose dell'intera storia dell'arte?Le ragioni possono essere varie. Fra le tante è che quell'opera ha smesso di funzionare, perché il suo scopo è venuto meno, o perché semplicemente sono mutati i mezzi necessari a raggiungerlo, e quindi l'opera è stata, per così dire, liberata da sé stessa.
Un panno in fustagno si arrotola su di sé.
Considerato nella sua totalità, dai primi esperimenti giovanili al presente, il lavoro artistico di Ontani è sicuramente un universo in espansione, impossibile da immaginare senza la presenza attiva del suo demiurgo. È lui a governare la proliferazione delle forme, con tutta la straordinaria varietà delle tecniche e delle occasioni, imprimendole la coerenza di uno sviluppo organico, in cui non è concesso nessuno spazio al caso, e nulla si aggiunge al già fatto come una semplice addizione.
Dentro lo specchio ci sei tu. Di fronte, a viso scoperto, nell'atto di guardare, mentre “Lui e Lei abbracciati” ti rivolgono le spalle e non ricambiano il tuo sguardo. Eppure lo dirigono, stanno lì a configurare il tuo spazio, a indicare come posizionarti in relazione. Lo specchio cattura qualsiasi figura vi si affacci, ma accanto al loro due può starcene una sola. Stretti nell'abbraccio, Lui e Lei sono compiuti. Invece tu, persona singola, debordi. Una porzione del tuo corpo resta fuori, una parte della tua vita non si lascia ridurre a immagine di superficie.
Le adolescenti della Manzelli sono le adolescenti di oggi. In Luminale lei ti guarda con gli occhi grandi come quelli di una bambina che deve ancora crescere. Solo che lei è già cresciuta, ha i piedi da donna e le mani lunghe. Eppure sembra proprio che non crescerà più di così: è stesa su un tavolo, un altare, una bara, un luogo dove si consuma il sacrificio e il pasto sacrificale sarà lei stessa. Con le ossa del costato sporgenti, con una luce negli occhi che ci guardano, come quella che hanno i bambini che sempre, qualunque cosa gli si faccia, ci chiamano.
Due figure completamente nude su un letto matrimoniale, in una stanza anonima dal soffitto basso, illuminata da due o tre lampade con paralume, ai piani alti di un edificio immerso in un tessuto urbano congestionato e verticale, visibile dalla finestra in fondo alla stanza, in un momento serale o notturno. La luce è soffusa, calda, ma i colori sono spenti, ad eccezione di due macchie rosso vivo, il copriletto su cui sono adagiati i corpi, e il vassoio sul quale stanno, insieme a un giornale ripiegato, una caraffa e un bicchiere.
A un primo sguardo distratto, quello che vedete potrebbe sembrare equivalente allo spettacolo, banale e quotidiano, che si offre a chiunque abbandoni le città e si immerga in ambienti costruiti e arredati per lo più da viventi che non condividono la nostra forma. Un prato ai margini di una foresta o di uno stagno, in cui si alternano graminacee erbose come la poa, la festuca o il loglio, a tarassachi, papaveri, fritillarie festuche, e decine di altre infestanti perenni o arbusti fioriti.
Nel Parco Alcide Cervi di Reggio Emilia, dal lato verso Via Gazzata, si può vedere una lastra di marmo inclinata che si trova appoggiata su un bel prato. Dalla lastra, se la fontana è in funzione, guizza preciso uno zampillo di acqua. Se sei un bambino e indossi degli stivali, sentirai un richiamo irresistibile a salirci sopra per scalarla: puoi farlo, nessuno te lo impedisce, non ci sono recinti o allarmi, è lì anche per questo, per te. Il suo dorso, dove camminerai, è irregolare e ruvido.
Il progetto Artpod – ascolti d'arte nasce da una collaborazione con Collezione Maramotti e Teatro delle Albe: una serie di podcast su opere iconiche della Collezione Maramotti permanente, raccontate attraverso le parole degli autori della rivista e interpretate dagli attori del Teatro delle Albe di Ravenna.
Una perenne tensione conoscitiva sul mondo che tuttavia sempre si ostina a negarsi; se ne colgono dei brani, se ne sentono degli odori, ma mai se ne afferra il noumeno. Questa è la condizione umana, che un autore come Julian Schnabel sembra recepire e fare sua in assoluto. La sua è una ricerca di evidente stampo filosofico, e lo stesso oscillare tra pittura e cinema lo verifica.
Nel dipinto di Gerhard Richter che porta il nome di «Kleine Liegender Akt» c'è una donna sdraiata su un fianco, sopra un sofà, completamente nuda. È appoggiata dolcemente sui gomiti, col busto appena ruotato e inclinato in avanti. Le sue braccia cingono un cuscino scuro. La gamba destra, sollevata, va a incrociare la sinistra, all'altezza del polpaccio. Probabilmente la donna ci guarda. Non lo possiamo stabilire con certezza, perché l'immagine è sfuocata.
Fa una certa impressione vederla sospesa là, nella Collezione Maramotti, la testa di Matthew Barney segnata di rosso, come se fosse sanguinante, con due lunghe appendici come un collo svuotato della carne che lo lega al corpo. Una faccia immobilizzata nel freddo di una preziosa scultura, levitante al soffitto con un perno placcato in oro, il volto di un amico ritratto dallo scultore nel prezioso onice messicano, e trasformato in una specie di San Sebastiano trafitto al capo da un solo dardo.
C'è un uomo con un coltello in pugno appostato accanto a una porta, come in attesa che entri qualcuno o qualcosa di minaccioso che egli intende colpire, per difesa o offesa non si sa.
Certo, è un gioco, forse il più paradigmatico dei giochi, il circuito, ma i giochi sono degli esercizi mentali, il circuito è una circonvoluzione del cervello, l'immagine del percorso che fa il pensiero. Dunque tu giri e lungo il percorso incontri sorprese e ostacoli, imprevisti e probabilità. Se non c'è un obiettivo da raggiungere o una competizione tra diversi partecipanti, il percorso risulta chiuso su sé stesso e tu sei sua preda, non puoi far altro che continuare a girare, in loop.
Da lontano si direbbe un manichino, di quelli in uso nelle giostre in costume o in qualche tiro al bersaglio. Un corpo umano senza dubbio, benché senza testa e senza braccia, un simulacro a grandezza naturale eretto su due rozze gambe che accennano a un passo con la rigidità di una statua egizia. Un corpo colto in uno stato incerto, indefinibile: è l'abbozzo di una figura? O il suo stato finale, un esperimento interrotto o fallito? C'è qualcosa di vago e minaccioso in questa scultura decapitata, e di stranamente espressivo, di patetico anche.
Senza titolo è un nome neutro. A differenza di quelli di molte altre opere di Kiefer, tratte da versi di poeti amati, da mitologie e leggende di ogni cultura e latitudine, e perciò ricchi di suggestioni e risonanze liriche ed epiche, questo non offre alcun appiglio. Non spiega, non allude, non orienta. Lascia che sia lo spettatore a inoltrarsi nel groviglio di segni e vi rintracci il senso nascosto.
«La gomma da cancellare è bandita». Questo è il semplicissimo precetto cui si devono attenere i giovanissimi artisti dell'Atelier dell'errore. Grazie ad esso si ribadisce un antico modo di intendere l'arte: essa deve essere “imitazione” della natura. Se ci si asterrà dal cancellare, ad essere replicata fedelmente non sarà però la natura del “naturalismo”. Non sarà la natura-Forma, la natura-Idea, la natura-paterna (come insegna Platone, l'Idea, la Forma a dispetto della grammatica, appartengono all'ordine simbolico del Padre).
“Ero ancora un piccolo feto nel ventre di mia madre quando le persone paurose cominciarono a chiedere di me: tutti i figli partoriti da mamma fino a quel momento erano di traverso ed erano venuti al mondo morti. Non appena mamma si rese conto di aspettare un bambino, quel bambino che un giorno sarei stato io, disse a coloro che abitavano con lei: “Ora porto di nuovo in grembo un feto che non diventerà una persona”. Chi parla è Aua, lo sciamano della tribù degli Iglulingmiut di Iglulik.
Nella primavera del 2020 e nell'inverno del 2021 alcuni paesi e città d'Italia sono stati attraversati da animali che di solito vivono altrove: cervi con maestosi palchi di corna, lupi in branco che fiutavano l'aria, codazzi di oche che si guardavano intorno come fossero in gita scolastica. L'arresto delle attività umane, dovuto alla pandemia da Covid19, ha invitato la fauna selvatica ad avvicinarsi alle zone urbane e così, con scatti fotografici silenziati per non impaurirli, questo ritorno del grande rimosso della nostra civiltà – la vita animale – è stato spiato e immortalato.
La scena ospita un dramma minuto. Una voce sussurra e noi rimaniamo in ascolto, in attesa di una rivelazione che non arriverà.
Da secoli, la parola “tela” è sinonimo di “quadro”, tanto è radicato nella storia dell'arte il suo uso come supporto di dipinti di formato vario, di diversa destinazione. Accade insomma che quello che non si vede – la base materiale – serva a dare un nome anche all'immagine che la ricopre.
L'opera di Parmiggiani ci permette di distinguere due forme del sentimento religioso. La prima forma definisce il sentimento religioso come una fuga dal mondo, aspirazione a un mondo al di là del mondo, a un mondo trascendente il mondo, più vero del mondo in cui noi viviamo, a un “mondo dietro al mondo”, come direbbe Nietzsche.
Questo ex voto qualcuno lo ha fatto, una mano di uomo lo ha tracciato, ed è arrivato fino a noi, a porci le sue domande. È arrivato su una tavola di grandi dimensioni, olio su tela, ha attraversato più di tre decenni, è arrivato tutto blu emerso dal nero, trafitto e gocciolante di fiammelle e argentei bagliori. Malgrado la nostra incredulità, si sente chiaro il boato che lo ha germinato, assumendo la forma di mandorla di luce spiccata dal cuore. Cosa ci mostra?