Un viaggio tra poesia e sport in età contemporanea. Storie, aneddoti, letture e analisi dei testi relativi a una combinazione formidabile: quella tra imprese sportive e creazione poetica. "Lo stadio universale" è un podcast ideato e curato da Stefano Sa
I Mondiali di calcio del 1938 sono stati molto di più di un evento sportivo. Sull'Europa soffiavano già venti di guerra, e la stessa geografia calcistica, insieme a quella politica, ne fu stravolta. A quei Mondiali torna anche il Brasile, stavolta con una formazione ben più temibile di quella dei due campionati precedenti, quando era sempre stato eliminato al primo turno. Stavolta i sudamericani, nella prima partita, incontrano la Polonia. Il Brasile subisce ben quattro reti, ma ne segna cinque. Il protagonista della goleada carioca si chiama Leonidas, è insuperabile nell'area di rigore ed è conosciuto in patria come “Diamante nero”: nero, come la sua pelle. Non era così scontato che la maglia da centravanti dovesse andare sulle sue spalle. Soltanto cinquanta anni prima, in Brasile vigeva ancora la schiavitù. E i calciatori di pelle nera dovettero attendere a lungo prima di poter essere inclusi nelle squadre più importanti del paese. Molti studiosi hanno sottolineato come la nazionale di calcio del 1938 abbia contribuito a rendere la società brasiliana più patriottica, ma anche più aperta e orgogliosa della sua composizione multi-etnica. Accanto alle testimonianze giornalistiche e sociologiche di questo entusiasmo popolare, ne troviamo altre di natura letteraria. Una è quella di Gilka Machado. Oggi la ricordano in pochi. Ma tra il 1915 e il 1928 pubblicò alcune raccolte che fecero scandalo: sia per il rifiuto delle forme poetiche della tradizione, sia soprattutto per la tematica erotica, per la rivendicazione del corpo e del piacere femminile in una società assediata dal machismo. Rimasta vedova a soli 30 anni, Gilka Machado restò tutta la vita al di fuori degli ambienti letterari brasiliani. Le difficoltà della vita adulta diradarono le sue pubblicazioni e modificarono sensibilmente anche i temi delle sue ultime raccolte. L'ultima di esse composta integralmente di versi inediti s'intitola Sublimaçao ed esce nel 1938. Sono versi di ispirazione civile che raccontano la vita della classe operaia e delle donne afro-brasiliane, in una società che vive tutte le contraddizioni della modernizzazione avviata negli anni ‘20. L'esigenza di affermarsi, in questa raccolta, come una donna del suo tempo, le permette di tematizzare, con uno sguardo critico, anche l'identità nazionale, e, con essa, lo sport. Lo fa rendendo onore a quella nazionale impegnata oltreoceano a mostrare la gioia e la fantasia del calcio brasiliano. Rivendicando, addirittura, il potere di incanto e di pacificazione universale che appartiene al calcio brasiliano, più di ogni altra “opera d'arte o di scienza”. Ma senza perdere di vista l'impegno civile che caratterizza quella raccolta poetica. E infatti gli unici due calciatori menzionati nei suoi versi sono anche gli unici calciatori afro-brasiliani di quella nazionale: Leonidas e Domingos. Sono loro, e soltanto loro, a rappresentare il paese, a imprimere – come recitano i suoi versi – “nello sguardo dello straniero / quella realtà meravigliosa / che è l'uomo brasiliano”.
Ai Giochi Olimpici del 1920, tutti gli occhi erano puntati su quella che era considerata la nuova stella dell'atletica mondiale. Era nato a Turku, in Finlandia, 23 anni prima. Avrebbe quasi monopolizzato le gare di mezzo fondo di atletica per tutti gli anni Venti. E avrà l'onore, praticamente unico atleta al mondo, di essere invitato alla Casa Bianca da due diversi presidenti degli Stati Uniti: Calvin Coolidge negli anni Venti, Lyndon Johnson negli anni Sessanta. Il suo nome era Paavo Nurmi. Quasi coetaneo di Nurmi, in quegli anni in cui l'Europa era un unico grande cratere senza confini, era il poeta Kazimierz Wierzyński. Era nato da genitori polacchi di origine tedesca in una cittadina oggi in Ucraina, ma in quegli anni alle estreme propaggini orientali dell'Impero austro-ungarico. Quando scoppia la prima guerra mondiale, Wierzyński ha 20 anni: la trincea è il suo destino. Nel gennaio 1918 entra in contatto con l'Organizzazione militare polacca clandestina; nell'autunno di quell'anno, a guerra ormai conclusa, arriva a Varsavia e festeggia l'indipendenza della Polonia. Qui entra rapidamente nei più importanti circoli letterari della città ed è co-fondatore del gruppo di poesia sperimentale Skamander, di ispirazione simbolista. Gli anni successivi sono carichi di novità. Si stabilisce a Varsavia, dove pubblica le prime raccolte poetiche e diventa un personaggio centrale della vivace scena culturale della capitale polacca, che guarda all'Europa e in particolare ai modelli di Londra e Parigi. Nel luglio del 1926 accetta però un incarico apparentemente ben diverso da questo curriculum: la direzione del primo magazine sportivo del paese, il Przegląd Sportowy. Sotto la sua direzione, la rivista organizza il premio per il migliore personaggio sportivo polacco dell'anno: ancora oggi il più alto riconoscimento del paese nel campo dello sport. In quell'anno ad Amsterdam si svolgono le ottave Olimpiadi dell'era moderna. A quei Giochi venivano ancora assegnate medaglie alle migliori opere artistiche e letterarie. E tra i componimenti poetici, una giuria composta da undici critici letterari, tra cui l'italiano Giuseppe Prezzolini, decretò la vittoria per l'opera di un 34enne poeta polacco: Kazimierz Wierzyński, appunto. Che si affermò con una raccolta di quindici poesie composta l'anno precedente, e destinata fin dal principio all'esaltazione dei Giochi: si intitolava, infatti, Lauro olimpico. Sono versi che risentono degli anni in cui furono composti: lo slancio retorico appare oggi sovrabbondante, eccessivo. L'enfasi è talmente spiccata da apparire un artificio poetico perfettamente consapevole. Eppure l'effetto più moderno Wierzinski lo raggiunge non proponendo metafore iperboliche di atleti idealizzati, bensì soffermandosi sulle gesta di uomini sportivi in carne e ossa. Si tratta di uomini citati per nome all'interno dei suoi versi, uomini di cui oggi possiamo ricostruire biografie, vittorie e sconfitte con una buona precisione e le cui gesta, camminando sulla linea del tempo, hanno attraversato il Novecento per approdare su YouTube. Tra queste star dello sport mondiale non poteva mancare forse il più celebre atleta degli anni Venti in tutto il mondo: Paavo Nurmi, il finlandese volante, la furia del Baltico. Il poeta polacco dimostra di conoscerne bene le caratteristiche tecniche e anche alcuni aspetti biografici, rintracciabili nei versi a lui dedicati.
Nel 1902, in Inghilterra, una donna mostrò al mondo dello sport di poter infrangere le regole non scritte della discriminazione femminile. Il suo nome era Madge Syers-Cave, la prima campionessa di pattinaggio su ghiaccio al mondo. Nel febbraio 1902 si sarebbe disputata a Londra la settima edizione dei campionati mondiali di pattinaggio. L'uomo da battere si chiamava Ulrich Salchow, uno svedese che ha fatto la storia di questo sport, inventando un salto che tuttoggi è il secondo salto per quoziente di difficoltà. Ma era, appunto, un uomo: e uomini erano tutti coloro che fino a quel momento si erano iscritti a un campionato mondiale di pattinaggio. Ma Madge Syers-Cave verificò che nel regolamento non c'era nessuna clausola che specificasse il sesso dei partecipanti. E decise, così, di sfidare Salchow. Poche settimane prima della performance di Madge Syers-Cave ai mondiali di Londra, il 4 gennaio 1902 il “Times” aveva pubblicato i versi di uno dei più celebri scrittori inglesi di tutti i tempi, Rudyard Kipling. Dopo aver raggiunto il successo con il Libro della giungla, Kipling avrebbe ottenuto nel 1907 il premio Nobel per la letteratura. Ma nel 1902, all'età di 36 anni, era già un celebrato poeta e una delle voci più autorevoli dell'imperialismo britannico. Ed è in questa veste che propone al “Times” quei versi, che furono letti - ed effettivamente lo erano - come una caustica tirata contro gli sport. In questa poesia dedicata ai suoi connazionali, The Islanders(Gli isolani), Kipling definisce i giocatori di cricket “idioti vestiti di flanella”, e le prime star del football come “tonti inzaccherati di fango”. L'obiettivo di Kipling era chiaramente nazionalistico: mentre il paese era in guerra, era inaccettabile, dal suo punto di vista, permettere che gli sport distraessero dallo sforzo bellico i giovani sportivi, e trovava spregevole che con lo sport ci si potesse addirittura arricchire. Ma la storia è sempre fatta di paradossi. E quello di Kipling è che la sua poesia in assoluto più celebre sia oggi considerata come un inno allo sport. Viene citata continuamente da campioni e allenatori, e una delle frase ipotetiche che vi sono contenute è addirittura impressa presso uno dei templi dello sport mondiale, all'ingresso dei campi da tennis di Wimbledon: “Se riuscirai ad affrontare il successo e l'insuccesso trattando quei due impostori allo stesso modo”. È la poesia intitolata If, “Se”. All'interno della produzione poetica di Kipling troviamo un'altra testimonianza del suo rapporto con lo sport. Nell'estate del 1897, Kipling ospita un illustratore venticinquenne, William Nicholson, che sarebbe diventato famoso, anni dopo, come maestro di pittura di Winston Churchill. Ed è in questa occasione che Nicholson mostra a Kipling i suoi disegni realizzati per L'Almanacco di dodici sport, un calendario illustrato. Kipling si mostra interessato e inizia a scrivere versi di accompagnamento a ciascuna illustrazione. Uno sport per ognuno dei dodici mesi, e una poesia per ognuno degli sport. Si tratta di testi di natura giocosa, quasi di filastrocche, ma sempre con una forte vena ironica o irridente. Vi troviamo sport tradizionali, come il cricket, il pugilato, il tiro con l'arco, il golf. Altri considerati tali a quel tempo, come la caccia o il coursing, una competizione tra coppie di cani. Per il mese di dicembre, Nicholson aveva disegnato un'immagine di pattinatori sul ghiaccio. E Kipling accompagna con i suoi versi anche quel disegno.
Il 15 ottobre 1933, per la sesta giornata del campionato di calcio di Serie A, allo stadio di Trieste, inaugurato l'anno precedente e intitolato al Littorio del regime fascista, la squadra di casa ospita l'Ambrosiana-Inter di Giuseppe Meazza. L'inviato della “Stampa” scrive che “Un pubblico foltissimo stipava tutti gli spalti del bel campo della Triestina. Il terreno e l'atmosfera erano ideali”. È una partita di grande agonismo: i padroni di casa sono ancora imbattuti e reduci da un inizio di campionato eccezionale, con 2 vittorie e 3 pareggi, grazie ai quali si trovano al terzo posto in classifica. L'Ambrosiana è già in testa, è la grande favorita per la vittoria finale e intende mostrare a Trieste tutta la sua forza. Ad assistere a quella sfida così attesa, sugli spalti, c'è anche un uomo che si guarda intorno tra incredulità e sorpresa. È la prima volta che mette piede allo stadio della sua città, ed è affascinato dall'atmosfera di eccitazione che si respira tra i tifosi più che dalle giocate dei calciatori in mezzo al campo. Ed è probabile che anche tra i suoi concittadini ci sia chi non crede ai suoi occhi nel vedere lì, tra loro, quell'uomo che passa da anni le sue giornate circondato da polverosi volumi della sua libreria antiquaria di via San Nicolò. Quell'uomo era Umberto Saba. La Trieste di Saba non è solo una città, con le sue vie, il porto, il mare; ma è una comunità, un popolo. In quegli anni, iniziavano a espandersi in città l'atmosfera sportiva e l'orgoglio per la propria squadra di calcio, specialmente nei luoghi pubblici dove la gente commentava le partite. E il poeta oscillò sempre tra un'attrazione incondizionata per il semplice entusiasmo dei tanti umili protagonisti del suo Canzoniere e la consapevolezza di una diversità culturale e sociale nei loro confronti. Umberto Saba non seguiva il calcio. Ma si sentiva, ed era, un uomo del popolo. Lo rivendicava da anni nelle sue poesie, come "Il garzone con la carriola", del 1913: «Spalanchi le finestre o scendi tu / tra la folla: vedrai che basta poco / a rallegrarti». E a rallegrarlo poteva essere appunto un ragazzo con la carriola che canta a gran voce e corre veloce in discesa, facendo «fracasso»: oppure un animale, o ancora «un gioco». Ecco, molti anni dopo Saba si ritrova quasi per caso a cercare di comprendere, in prima persona, questo gioco che rallegra ogni lunedì il suo socio Carlo, quando l'Unione Triestina conquista la vittoria. Quelle due ore trascorse allo stadio lasceranno al poeta un'emozione profonda, che si tradurrà poi nella composizione di alcuni dei versi più memorabili della letteratura italiana. La prima apparizione a stampa di questi versi avviene il 22 novembre 1933 sul quotidiano “La gazzetta del popolo”, assieme a un'altra celebre poesia dedicata al calcio, "Squadra paesana". Si tratta del primo nucleo di quelle che diventeranno le “Cinque poesie per il gioco del calcio”, un vero e proprio «evento poetico» nella storia della letteratura italiana, considerando il ruolo di questo sport nella produzione in versi di molti altri poeti del Novecento. E sono oggi tra le poesie più citate, anche nelle antologie scolastiche, del poeta triestino.
Il 20 maggio 1928 lo Stadio Sardinero di Santander era sferzato dal vento. In un giorno normale vi si potevano ascoltare le onde del mare, a poche centinaia di metri da lì. Ma quel 20 maggio, sugli spalti, c'erano quindicimila spettatori in attesa della partita dell'anno. La finale di Coppa del Re, a quel tempo l'unico torneo nazionale di calcio in Spagna. La Liga spagnola, uno dei campionati di calcio oggi più seguiti del mondo, sarebbe nata soltanto l'anno seguente. Lo Stadio di Santander era stato scelto come campo neutro per la finale, che si giocava come da tradizione in una gara unica. I tifosi del Real Sociedad avevano dovuto viaggiare per duecento chilometri, da San Sebastian, per seguire la loro squadra, che aveva vinto la Coppa per l'unica volta venti anni prima. Ben più strada avevano dovuto fare i tifosi dell'altra squadra finalista, fin da quegli anni ben più abituata ai trionfi: i blaugrana del Barcellona. Uno dei più famosi poeti spagnoli era stato sugli spalti del Sardinero di Santander quel 20 maggio 1928. E ci ha lasciato dei versi che hanno reso quella partita immortale. Si chiamava Rafael Alberti. Quei versi di Alberti comparvero su un giornale locale di Santander pochi giorni dopo la partita, prima di essere pubblicati, due anni dopo, nella sua raccolta Cal y canto. La data del match è del resto conservata nell'epigrafe della poesia, insieme alla dedica a José Samitier, detto el mago, il capitano del Barcellona di quegli anni. Si tratta di una delle prime poesie dedicate al calcio, un tema decisamente insolito negli ambienti letterari di quel tempo. Ma ciò che rende davvero unici questi versi è l'aver reso immortale non solo una partita di calcio, ma un calciatore in particolare tra i ventidue in campo. E non un calciatore qualunque, ma il portiere di una delle due squadre: un ruolo destinato ad avere, nell'immaginario collettivo e specialmente in quello degli scrittori e poeti del Novecento, una fortuna particolare. Il portiere è quello del Barcellona, ed era nato in Ungheria con il nome Ferenc Platko. Dopo il trasferimento in Austria diventerà poi Franz Platko, e infine resterà nella storia come Francisco Platko. Era insomma un uomo che legava, al paese in cui viveva, non solo la sua sorte, ma il suo stesso nome. E con il nome spagnolo conquisterà i suoi più grandi successi: prima da giocatore, nel Barcellona, e poi da allenatore, dopo aver attraversato l'oceano ed essere approdato a Santiago del Cile, sulla panchina del Colo Colo. È a lui che Rafael Alberti dedica un'Ode a Platko. L'eroe di un pomeriggio in una partita di calcio diventa, grazie al tocco lirico di un grande poeta, un eroe immortale della letteratura spagnola.
C'è un altro elemento che rende memorabili le Olimpiadi di Stoccolma 1912. Per la prima volta, vennero disputati concorsi olimpici anche per categorie artistiche: architettura, pittura, scultura, musica, letteratura. Una tradizione che si affermò per circa quarant'anni, fino alle Olimpiadi di Londra del 1948. Le opere in competizione raramente hanno superato il giudizio della critica nei decenni successivi; attraverso di esse, però, possediamo testimonianze straordinarie sulla relazione tra arti e sport nella prima metà del Novecento. Ne è un esempio la medaglia d'oro per la migliore opera letteraria assegnata ai Giochi di Stoccolma. Una Ode allo sport, ufficialmente composta da due poeti ignoti alle cronache letterarie, il francese Georges Hohrod e il tedesco Martin Eschbach. Il premio assegnato a quest'opera era perfettamente in linea con lo spirito olimpico: due esponenti di paesi nemici sul versante geopolitico componevano insieme un inno che celebrava, attraverso lo sport, giustizia, progresso e pace tra le nazioni. A distanza di tempo, tuttavia, si verrà a sapere che i nomi di Hohrod e Eschbach altro non erano che uno pseudonimo. Dietro di essi si nascondeva lo stesso fondatore dei Giochi, il barone de Coubertin, che poté così anch'egli portare a casa una medaglia olimpica. Nella primavera del 1912 De Coubertin inviò al Comitato organizzatore delle Olimpiadi, in Svezia, l'elenco delle opere vincitrici di ognuna delle sezioni. E sappiamo che alcuni vincitori avevano una conoscenza personale con De Coubertin: i due architetti svizzeri vincitori nella loro categoria, ad esempio, erano stati recensiti positivamente dal barone già nel 1911. Anche lo scultore Georges Dubois, che vinse la medaglia d'argento, aveva partecipato a un incontro sportivo-letterario (era infatti anche uno schermidore) alla presenza di De Coubertin nel 1906. Il connubio tra sport e arte era certamente ben visto da De Coubertin, ed è forse questa la ragione per cui, nella stessa categoria della scultura, fu premiato l'americano Walter Winans. Che a Stoccolma, in quelle Olimpiadi, si recò anche per partecipare a un'altra competizione olimpica, che oggi per fortuna sarebbe impensabile: quella del “tiro al cervo”. Le medaglie dei concorsi artistici vennero inviate ai vincitori per posta. Non ci fu dunque nessuna cerimonia di premiazione, nessun podio, nessun inno. De Coubertin chiese tuttavia al comitato olimpico organizzatore di allestire una mostra per le opere di pittura e scultura partecipanti. Gli svedesi, malgrado la loro riluttanza ad accettare quei concorsi artistici come discipline olimpiche, accettarono: il medaglione dello scultore canadese Tait McKenzie, raffigurante tre atleti nudi che saltano un ostacolo, piacque a tal punto che fu collocato su un muro dello Stadio Olimpico di Stoccolma, e lì si trova ancora oggi. Non ha avuto la stessa fortuna l'Ode allo Sport di Georges Horhod e Martin Eschbach, alias Pierre De Coubertin. Composta originariamente in tre lingue, tedesco, francese e inglese, questa composizione viene oggi menzionata solo in testi sulla storia dei giochi olimpici moderni. Del resto, si tratta di versi altisonanti e con un'abbondante dose di solennità che li rende ben lontani dal gusto poetico contemporaneo.
Sulla prima pagina del primo numero della Gazzetta dello Sport, il 3 aprile 1896, c'erano soltanto notizie di ciclismo. Ed è lo stesso giornale, tredici anni dopo, a organizzare la prima edizione del Giro d'Italia, che parte il 13 maggio 1909 in piena notte da piazzale Loreto a Milano. In quel primo decennio del secolo, in Italia, il ciclismo è certamente lo sport nazionale. Quella prima edizione del Giro d'Italia toccò Bologna, Chieti, Napoli, Roma, Firenze, Genova e Torino. Ma in Italia, anche nei più piccoli borghi, le corse ciclistiche occupavano tutti i periodi dell'anno. Per gareggiare bastavano una bicicletta, tanta forza nelle gambe e spirito competitivo. Sul traguardo, un intero paese in festa attendeva con entusiasmo l'arrivo del vincitore. E in mezzo a loro, qualcuno sentiva vibrare le corde della poesia. All'inizio del 1909, Dino Campana ha 23 anni ed è da poco rientrato dal suo leggendario viaggio in Argentina. Torna nel suo paese natale, Marradi, nel cuore della Romagna toscana. Ma viene presto sopraffatto dallo shock del ritorno nel suo piccolo borgo, avendo negli occhi ancora la vastità delle pampas, e la libertà di un viaggio in perfetta solitudine. L'8 aprile di quell'anno dà in escandescenze per le strade di Marradi: i carabinieri lo fermano, lo portano in caserma e redigono un verbale di arresto nei confronti di - è scritto davvero così - “il matto furioso Campana Dino”. Il giorno dopo, il sindaco del paese ne ordina il ricovero a Firenze, in manicomio, per qualche settimana. Seguono mesi di viaggi, di fughe improvvise e di continui ritorni. Campana è però probabilmente in paese il giorno dell'arrivo di una corsa ciclistica, la Firenze-Marradi, 90 kilometri dal Ponte Rosso di Firenze attraverso i colli del Mugello. La corsa è organizzata dal Ciclo Club Appenninico, una delle prime società ciclistiche di quel territorio, fondata da un droghiere di Borgo San Lorenzo. Ed è forse ispirandosi a questa corsa che Campana scrive i suoi primi versi su un gruppo di ciclisti in gara. I loro corpi atletici, la loro velocità, il pubblico che li festeggia sono avvolti in un vortice di immagini, con una forte tensione espressionistica. Non è “vertiginoso” soltanto il silenzio. Tutta questa poesia è una vertigine. Fin dal primo verso il corridore si lancia in fuga, lungo una discesa. Adesso può volare giù, verso il traguardo: la ricerca del successo gli rende il “cuore insaziato”. È uscito dal “turbine” del gruppo di corridori, e ancora nell'ultimo verso resterà in fuga, rincorso da una “turba” di ciclisti che si muove in lunga fila. Il fuggitivo corre concentrato, e nella sua testa c'è spazio solo per un “vertiginoso silenzio”. Ma tutto intorno una gran folla di gente, sotto le rupi della montagna, gli urla il suo sostegno in un'”onda di grido fremente”. Il ciclista è fisicamente ben dotato, ha un'eccitazione baldanzosa, “gagliarda d'ebbrezze”; eppure si scorge, ben nascosta, la paura della sconfitta, un'inquietudine evocata dalla “rocciosa catastrofe ardente” e dalla ripetizione del termine “turba”. In questi versi c'è tutto lo spirito travolgente dei pionieri del ciclismo di quegli anni; ma c'è anche quel nucleo di velocità, audacia e sacrificio che ancora oggi si conserva - nonostante tutto - nelle gare in bicicletta. Quella corsa ciclistica Firenze-Marradi dell'estate del 1909, a cui Campana si era forse ispirato per i suoi versi, era stata vinta da Domenico Vanni. Ma Vanni non ha legato il suo nome soltanto a quella gara ciclistica. A 32 anni diventa il primo socialista a essere eletto nel consiglio provinciale di Firenze, e per questo viene aggredito dai fascisti. Va in esilio a Parigi, ma durante la guerra torna a Marradi e diventa un partigiano attivo nel Mugello. Vanni fu un “sovversivo per la libertà”, come è stato definito nella sua biografia. Sovversivo come fu, in un modo tutto suo, anche il suo concittadino più illustre, Dino Campana.
Nel 1896, ad Atene, il ventunenne Thomas Burke, studente dell'Università di Princeton, vince la medaglia d'oro sui 100 metri piani alle prime Olimpiadi dell'era moderna. È, quella, l'epoca dei pionieri dello sport. Negli stessi anni, matura e si spegne la stella di un poeta. Forse il più grande poeta americano di tutti i tempi. Walt Whitman. "Il corridore" è una sua poesia di soli quattro versi, ma potentissimi nella loro modernità. Questo Corridore, infatti, è «allenato», e quindi già per questo assai più vicino all'atleta professionista che non al dilettante che corre per diletto; ha «gambe muscolose» che indicano una preparazione atletica degna di chi è pronto a partecipare a manifestazioni agonistiche; ha un abbigliamento leggero e funzionale, quanto basta a mostrare l'energia che sviluppa il suo corpo; nei dettagli della sua postura si colgono i suggerimenti di un allenatore che vuole spingerlo a migliorare i suoi risultati. Già all'epoca di Whitman lo sport era una passione centrale nella vita e nella società americana. Nel 1858, infatti, il grande poeta americano pubblica sotto pseudonimo, su un periodico newyorchese, quelli che lui chiama “Consigli per una sana e robusta costituzione”: qualcosa di molto simile alle rubriche per la cura del corpo maschile che da qualche anno troviamo in edicola. Sono brevi articoli sulla bellezza maschile, conditi da consigli di vario tipo sull'alimentazione o sul tipo di esercizi fisici da praticare. “Non c'è ambizione più nobile - scrive Whitman -, nonché più lautamente ricompensata, di quella che sa farsi carico di regole, norme, rinunce e abitudini quotidiane avendo di mira la salute e la bellezza del corpo, vale a dire la perfezione virile”. Insomma, per dirla ancora con le parole di Whitman, “Se c'è una cosa che è sacra, questa è il corpo umano”. Sono gli stessi anni in cui Whitman è al lavoro su una nuova sezione della sua raccolta poetica, Foglie d'erba: e l'esaltazione del corpo maschile, in quei versi, diventa totale. Vi troviamo, infatti, un inno all'amore omosessuale che per quei tempi è qualcosa di decisamente rivoluzionario. Ma l'omosessualità di Whitman non è soltanto attrazione fisica. È qualcosa di molto di più: è una visione del mondo. E sempre in questa sezione troviamo un'altra definizione che ci riguarda da vicino. Quella di “cameratismo atletico”: che indicava per lui una vera fratellanza tra uomini, anzi “la futura fratellanza mondiale”, in quanto elemento che è alla base della democrazia. Bisogna invece attendere il 1867 per la prima pubblicazione dei versi del suo Corridore. Thomas Burke non è ancora nato. Ma in quei versi possiamo già immaginarci il suo fisico ben allenato. La sua impresa, tuttavia, per compiersi, aveva bisogno di un altro piccolo dettaglio. Una innovazione, introdotta dagli Stati Uniti in Europa giusto in occasione di quei Giochi Olimpici. La posizione di partenza rannicchiata, la "all four", tutti e quattro gli arti per terra, per garantire equilibrio e spinta immediata. In finale, sarà quella posizione di partenza a garantire la vittoria di Thomas Burke. Taglierà il traguardo in 12 secondi netti, due decimi più veloce del tedesco Fritz Hoffmann. Thomas Burke resterà nella storia anche per un altro motivo: appena un anno dopo i Giochi di Atene, sarà tra i fondatori della maratona di Boston, uno degli appuntamenti sportivi più importanti del mondo. Legando dunque per sempre il suo nome a quello dei pionieri dell'atletica mondiale.