Tutto quello che è successo dopo alcuni dei più noti casi di cronaca nera italiana. Una storia ogni mese, il primo del mese. Un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi.
Il racconto di questo episodio di Altre Indagini parte da Metanopoli, il quartiere alle porte di Milano sognato e costruito da Enrico Mattei negli anni Cinquanta per i dipendenti della sua azienda, l'Eni, l'azienda energetica (l'acronimo sta per Ente nazionale idrocarburi) di cui era diventato presidente. E termina poco lontano, nella campagna di Bascapè, un paese della provincia di Pavia, dove nel tardo pomeriggio del 27 ottobre 1962 cade l'aereo che trasporta Enrico Mattei. È un incidente, viene dichiarato dopo le prime sbrigative indagini. È un omicidio, decreta alla fine di una seconda indagine il sostituto procuratore Vincenzo Calia, che non riesce però ad arrivare a un indagato: le prove sono state cancellate e non sono più recuperabili. Quella raccontata da Stefano Nazzi e Giulia Balducci è una storia in cui compaiono la mafia, quella italiana e quella italo americana, e le grandi aziende petrolifere americane e inglesi (le cosiddette “sette sorelle”). Compaiono ex partigiani ed ex fascisti. E i dirigenti dell'Eni, prima stretti alleati di Mattei e che dopo iniziarono a contrastarlo. E poi Tommaso Buscetta, uno dei primi e forse il più famoso collaboratore di giustizia di Cosa Nostra. E c'entra anche la sparizione di un giornalista palermitano, Mauro De Mauro, scomparso il 16 settembre 1970 mentre si stava occupando proprio dell'incidente di Bascapè. Al momento della sua morte Enrico Mattei è l'italiano più famoso all'estero: è presidente di un'azienda importantissima e molto potente, ha fondato un quartiere che è praticamente una cittadina, Metanopoli, e un giornale, il Giorno. Grazie a lui arrivano in Italia le stazioni di servizio per come le conosciamo e i motel. Mattei compare su tutte le riviste, fotografato con la moglie, la ballerina austriaca Greta Paulas. Contemporaneamente gli vengono attribuite, con molta fantasia, storie con molte donne famose. Ma Enrico Mattei è anche quello che finanzia i partiti con fondi neri (sono sue le parole «per me i partiti sono come taxi: ci salgo, li pago e poi scendo»), applica metodi discutibili per costruire gasdotti in breve tempo ed elabora strategie piuttosto creative per assicurarsi un accordo per il petrolio iraniano. Anche quella di Enrico Mattei è una delle grandi vicende della storia italiana, che Altre Indagini racconta con gli stessi approcci e rigori applicati alle storie di cronaca nera di Indagini. Le storie di Altre Indagini sono disponibili sul sito e sull'app del Post per le persone abbonate: un modo per ringraziarle per la loro partecipazione al progetto del Post, che fa sì che il Post possa continuare a fare il suo giornalismo in modo gratuito per tutte e tutti. Se vuoi ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
La sera del 28 maggio 2023 un uomo di 30 anni si presenta alla stazione dei carabinieri di Senago, in provincia di Milano. Denuncia la scomparsa della sua compagna, incinta di sette mesi. La donna, di 29 anni, si chiama Giulia Tramontano. In realtà quando viene presentata la denuncia di scomparsa è già morta. L'uomo è Alessandro Impagnatiello, verrà arrestato pochi giorni dopo con l'accusa di averla uccisa. Le indagini si concentrarono su alcune ricerche fatte su Internet da Alessandro Impagnatiello, già a partire dai mesi precedenti, sulla ricostruzione di messaggi WhatsApp e su chi realmente avesse mandato quei messaggi, sui filmati di una videocamera privata di sorveglianza. E soprattutto sulla ricostruzione, grazie alle testimonianze di un'altra ragazza, di cosa era avvenuto nel periodo precedente al delitto. Determinante nel corso del processo fu stabilire in primo luogo se Alessandro Impagnatiello fosse capace di intendere e di volere, se soffrisse quindi di patologie tali da determinarne l'incapacità, ma soprattutto se ci fosse stata o meno premeditazione. L'aggravante della premeditazione comporta un aumento della pena. Su questo punto, e sulla differenza tra premeditazione e preordinazione, l'accusa e la difesa hanno dato interpretazioni diverse. In primo grado i giudici hanno condannato Alessandro Impagnatiello all'ergastolo, riconoscendo le aggravanti della premeditazione e della crudeltà. Hanno spiegato nelle motivazioni della sentenza come e perché sono arrivati a questa decisione. Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
La sera del 28 maggio 2023 un uomo di 30 anni si presenta alla stazione dei carabinieri di Senago, in provincia di Milano. Denuncia la scomparsa della sua compagna, incinta di sette mesi. La donna, di 29 anni, si chiama Giulia Tramontano. In realtà quando viene presentata la denuncia di scomparsa è già morta. L'uomo è Alessandro Impagnatiello, verrà arrestato pochi giorni dopo con l'accusa di averla uccisa. Le indagini si concentrarono su alcune ricerche fatte su Internet da Alessandro Impagnatiello, già a partire dai mesi precedenti, sulla ricostruzione di messaggi WhatsApp e su chi realmente avesse mandato quei messaggi, sui filmati di una videocamera privata di sorveglianza. E soprattutto sulla ricostruzione, grazie alle testimonianze di un'altra ragazza, di cosa era avvenuto nel periodo precedente al delitto. Determinante nel corso del processo fu stabilire in primo luogo se Alessandro Impagnatiello fosse capace di intendere e di volere, se soffrisse quindi di patologie tali da determinarne l'incapacità, ma soprattutto se ci fosse stata o meno premeditazione. L'aggravante della premeditazione comporta un aumento della pena. Su questo punto, e sulla differenza tra premeditazione e preordinazione, l'accusa e la difesa hanno dato interpretazioni diverse. In primo grado i giudici hanno condannato Alessandro Impagnatiello all'ergastolo, riconoscendo le aggravanti della premeditazione e della crudeltà. Hanno spiegato nelle motivazioni della sentenza come e perché sono arrivati a questa decisione. Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Il 26 giugno 1984, intorno alle sei del mattino, Francesco D'Alessio, 40 anni, venne ucciso con due colpi di pistola in un appartamento del centro di Milano. A sparare fu una ragazza americana, Terry Broome, 26 anni, arrivata a Milano con l'obiettivo di lavorare come modella. Sui giornali il delitto venne definito “l'omicidio della Milano bene”. Poi si iniziò a parlare del delitto nella “Milano da bere”, riprendendo uno slogan pubblicitario di successo molto citato negli anni Ottanta. Terry Broome ammise la sua responsabilità, le indagini in questo senso non furono certo difficili. Ma l'attenzione per ciò che era successo contribuì a trasformare il processo in una sorta di indagine sociologica sulla Milano di quegli anni. Si discusse molto dei comportamenti della vittima nei confronti di quella che sarebbe diventata poi la sua assassina e di come e se questi comportamenti potessero prefigurare un'attenuante, e in particolare “l'aver agito in stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui”. Ma si parlò anche molto di alcol e di droghe illegali, nello specifico la cocaina, di uso, abuso e dipendenza e di come quest'ultima influisca sulla capacità di intendere e di volere. Fu un processo seguitissimo, con il pubblico che manifestò più volte simpatia e comprensione nei confronti dell'accusata. I giornali americani scrissero che in realtà a essere processato era un certo stile di vita. Disse il padre di D'Alessio: «Sembra che qui a essere processata sia la vittima, colui che è stato ucciso». Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Il 26 giugno 1984, intorno alle sei del mattino, Francesco D'Alessio, 40 anni, venne ucciso con due colpi di pistola in un appartamento del centro di Milano. A sparare fu una ragazza americana, Terry Broome, 26 anni, arrivata a Milano con l'obiettivo di lavorare come modella. Sui giornali il delitto venne definito “l'omicidio della Milano bene”. Poi si iniziò a parlare del delitto nella “Milano da bere”, riprendendo uno slogan pubblicitario di successo molto citato negli anni Ottanta. Terry Broome ammise la sua responsabilità, le indagini in questo senso non furono certo difficili. Ma l'attenzione per ciò che era successo contribuì a trasformare il processo in una sorta di indagine sociologica sulla Milano di quegli anni. Si discusse molto dei comportamenti della vittima nei confronti di quella che sarebbe diventata poi la sua assassina e di come e se questi comportamenti potessero prefigurare un'attenuante, e in particolare “l'aver agito in stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui”. Ma si parlò anche molto di alcol e di droghe illegali, nello specifico la cocaina, di uso, abuso e dipendenza e di come quest'ultima influisca sulla capacità di intendere e di volere. Fu un processo seguitissimo, con il pubblico che manifestò più volte simpatia e comprensione nei confronti dell'accusata. I giornali americani scrissero che in realtà a essere processato era un certo stile di vita. Disse il padre di D'Alessio: «Sembra che qui a essere processata sia la vittima, colui che è stato ucciso». Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
La mattina del 2 settembre 1980 due giornalisti italiani, Italo Toni e Graziella De Palo, scomparvero a Beirut, in Libano. Erano partiti per documentare la guerra che da cinque anni era scoppiata nel paese e per cercare informazioni sul traffico di armi che avveniva in quegli anni tra Italia e Medio Oriente. Quando scomparvero si trovavano nella zona ovest della città, controllata dalle formazioni palestinesi, mentre Beirut est era sotto il controllo delle forze falangiste cristiano-maronite. Toni e De Palo erano partiti per il Libano dopo essersi accordati con l'Olp, l'organizzazione che riuniva tutte le forze palestinesi. Le indagini sulla scomparsa dei due giornalisti furono lente e difficili, affidate al servizio segreto militare italiano, il Sismi, che tentò di sviare le attenzioni proprio dalla possibile responsabilità palestinese. L'obiettivo era probabilmente proteggere il cosiddetto lodo Moro, l'accordo segreto di non belligeranza tra Italia e Olp. Ci sono state molte ipotesi negli anni, tra queste che Graziella De Palo e Italo Toni avessero scoperto qualcosa proprio sul traffico di armi che dall'Italia arrivavano in Libano e poi in parte tornavano in Italia, alle formazioni terroriste. Indagò anche la procura di Roma, ma sulla vicenda venne poi apposto il segreto di stato. Di ciò che accadde a Graziella De Palo e Italo Toni non si è mai saputo nulla con certezza. Sono passati più di 44 anni. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Il 31 gennaio 1969 a Viareggio scomparve un bambino di 12 anni, Ermanno Lavorini. Lo stesso giorno alla famiglia arrivò una richiesta di riscatto di 15 milioni di lire. Poi non ci fu più alcun messaggio da parte dei sequestratori. Il corpo di Ermanno Lavorini venne ritrovato il 9 marzo 1969 sepolto sotto 40 centimetri di sabbia sula spiaggia di Marina di Vecchiano. Le indagini si concentrarono su presunti frequentatori omosessuali della Pineta di Ponente, a Viareggio. I media aderirono senza esitazioni a questa ipotesi accanendosi contro quelli che allora venivano chiamati capovolti e anormali. Due ragazzi, sentititi dai carabinieri fecero una serie di nomi di persone, poi risultate assolutamente estranee alla vicenda, cambiando però numerose volte la loro versione. Le vite di alcune persone, indicate dalla stampa come colpevoli, come mostri, furono stravolte. Un uomo, Adolfo Meciani, che con quella storia non c'entrava assolutamente nulla, si suicidò in cella, nel carcere di Pisa. Solo mesi più tardi, grazie anche al lavoro di un giornalista, Marco Nozza del quotidiano Il Giorno, venne individuata la pista che poi, anche a livello processuale, si rivelò quella vera. La Pineta di Ponente e i presunti cosiddetti festini tra omosessuali non c'entravano nulla. A tentare di rapire Ermanno Lavorini e poi a ucciderlo erano stati tre ragazzi, tra cui i due che avevano fatto le dichiarazioni ai magistrati, aderenti al Fronte giovanile monarchico e al Movimento sociale italiano. Il rapimento di Ermanno Lavorini sarebbe servito, nelle intenzioni, a finanziare attività eversive per contrastare l'avanzare dei movimenti giovanili di sinistra. La verità processuale arrivò sei anni dopo la morte di Ermanno Lavorini quando la vita di persone totalmente estranee alla vicenda era già stata distrutta. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Il 31 gennaio 1969 a Viareggio scomparve un bambino di 12 anni, Ermanno Lavorini. Lo stesso giorno alla famiglia arrivò una richiesta di riscatto di 15 milioni di lire. Poi non ci fu più alcun messaggio da parte dei sequestratori. Il corpo di Ermanno Lavorini venne ritrovato il 9 marzo 1969 sepolto sotto 40 centimetri di sabbia sula spiaggia di Marina di Vecchiano. Le indagini si concentrarono su presunti frequentatori omosessuali della Pineta di Ponente, a Viareggio. I media aderirono senza esitazioni a questa ipotesi accanendosi contro quelli che allora venivano chiamati capovolti e anormali. Due ragazzi, sentititi dai carabinieri fecero una serie di nomi di persone, poi risultate assolutamente estranee alla vicenda, cambiando però numerose volte la loro versione. Le vite di alcune persone, indicate dalla stampa come colpevoli, come mostri, furono stravolte. Un uomo, Adolfo Meciani, che con quella storia non c'entrava assolutamente nulla, si suicidò in cella, nel carcere di Pisa. Solo mesi più tardi, grazie anche al lavoro di un giornalista, Marco Nozza del quotidiano Il Giorno, venne individuata la pista che poi, anche a livello processuale, si rivelò quella vera. La Pineta di Ponente e i presunti cosiddetti festini tra omosessuali non c'entravano nulla. A tentare di rapire Ermanno Lavorini e poi a ucciderlo erano stati tre ragazzi, tra cui i due che avevano fatto le dichiarazioni ai magistrati, aderenti al Fronte giovanile monarchico e al Movimento sociale italiano. Il rapimento di Ermanno Lavorini sarebbe servito, nelle intenzioni, a finanziare attività eversive per contrastare l'avanzare dei movimenti giovanili di sinistra. La verità processuale arrivò sei anni dopo la morte di Ermanno Lavorini quando la vita di persone totalmente estranee alla vicenda era già stata distrutta. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Gisella Orrù, 16 anni, scomparve a Carbonia, in Sardegna, la sera del 28 giugno 1989. Nonostante la denuncia di scomparsa non furono avviate ricerche da parte di polizia e carabinieri. Il suo corpo venne ritrovato il 7 luglio in fondo a un sifone collegato alla condotta idrica, nella campagna di San Giovanni Suergiu. Era stata assassinata con una stilettata al cuore, l'autopsia rivelò i segni di una brutale violenza sessuale. Anche come avvenne realmente il ritrovamento non è mai stato del tutto chiarito. Tutta l'indagine fu accompagnata da telefonate anonime, soprattutto da parte di una donna. Incredibilmente i nastri di quelle telefonate furono persi o forse sovrascritti. In seguito ad alcune di quelle telefonate furono arrestate quattro persone: una di loro, Salvatore Pirosu, amico della famiglia Orrù, ammise di essere stato presente la sera del delitto ma disse di non aver partecipato all'omicidio. Accusò le altre tre persone e in particolare un uomo, Licurgo Floris. Le dichiarazioni di Pirosu furono però spesso contraddittorie, piene di "non ricordo", con importanti particolari inverosimili. L'arma delitto non venne mai trovata e i risultati dell'autopsia si scontrarono con la sua ricostruzione. La famiglia di Gisella Orrù è sempre stata convinta, così come lo sono giornalisti che seguirono la vicenda, che Pirosu coprisse altri nomi, personaggi di Carbonia che avevano sequestrato o attirato con l'inganno Gisella Orrù così come avevano già fatto altre volte, secondo questa ipotesi, con altre ragazze. Salvatore Pirosu e Licurgo Floris furono condannati rispettivamente a 24 e 30 anni di reclusione. Floris si è ucciso in carcere nel 2007 dopo 14 anni di detenzione. Si era sempre dichiarato innocente. Salvatore Pirosu dopo la sua liberazione è invece scomparso. A Carbonia, e in generale in Sardegna, tutti ricordano l'omicidio di Gisella Orrù. Molti sono tuttora convinti che tanti aspetti di quella vicenda non siano stati in realtà scoperti. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Gisella Orrù, 16 anni, scomparve a Carbonia, in Sardegna, la sera del 28 giugno 1989. Nonostante la denuncia di scomparsa non furono avviate ricerche da parte di polizia e carabinieri. Il suo corpo venne ritrovato il 7 luglio in fondo a un sifone collegato alla condotta idrica, nella campagna di San Giovanni Suergiu. Era stata assassinata con una stilettata al cuore, l'autopsia rivelò i segni di una brutale violenza sessuale. Anche come avvenne realmente il ritrovamento non è mai stato del tutto chiarito. Tutta l'indagine fu accompagnata da telefonate anonime, soprattutto da parte di una donna. Incredibilmente i nastri di quelle telefonate furono persi o forse sovrascritti. In seguito ad alcune di quelle telefonate furono arrestate quattro persone: una di loro, Salvatore Pirosu, amico della famiglia Orrù, ammise di essere stato presente la sera del delitto ma disse di non aver partecipato all'omicidio. Accusò le altre tre persone e in particolare un uomo, Licurgo Floris. Le dichiarazioni di Pirosu furono però spesso contraddittorie, piene di "non ricordo", con importanti particolari inverosimili. L'arma delitto non venne mai trovata e i risultati dell'autopsia si scontrarono con la sua ricostruzione. La famiglia di Gisella Orrù è sempre stata convinta, così come lo sono giornalisti che seguirono la vicenda, che Pirosu coprisse altri nomi, personaggi di Carbonia che avevano sequestrato o attirato con l'inganno Gisella Orrù così come avevano già fatto altre volte, secondo questa ipotesi, con altre ragazze. Salvatore Pirosu e Licurgo Floris furono condannati rispettivamente a 24 e 30 anni di reclusione. Floris si è ucciso in carcere nel 2007 dopo 14 anni di detenzione. Si era sempre dichiarato innocente. Salvatore Pirosu dopo la sua liberazione è invece scomparso. A Carbonia, e in generale in Sardegna, tutti ricordano l'omicidio di Gisella Orrù. Molti sono tuttora convinti che tanti aspetti di quella vicenda non siano stati in realtà scoperti. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Se hai già un abbonamento, puoi regalare il Post: significa regalare i podcast, le newsletter e tutto il sito senza pubblicità. Per un anno intero. Il Post lo facciamo insieme, e più siamo meglio è. Il 12 dicembre 1969 alle 16:37 una bomba esplose all'interno della Banca nazionale dell'agricoltura, in piazza Fontana, a Milano. Un uomo aveva posizionato una valigetta contenente l'ordigno sotto il grande tavolo al centro del salone. Morirono 13 persone, altre tre nei giorni successivi. Un uomo morì un anno dopo, per le conseguenze di quell'esplosione. Fu l'inizio di quella che poi venne chiamata strategia della tensione. Lo stesso giorno altri ordigni esplosero a Roma mentre a Milano fu rinvenuto un ordigno inesploso in una banca di piazza della Scala. Già poche ore dopo l'esplosione la polizia eseguì molti fermi di persone appartenenti all'area anarchica, in particolare militanti del circolo milanese Ponte della Ghisolfa. Tra i fermati, trattenuto in questura per oltre 70 ore senza che ci fosse alcun provvedimento da parte dei magistrati, ci fu il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli. La sera del 15 dicembre, Pinelli precipitò dal quarto piano della questura, dalla finestra dell'ufficio dove lo stavano interrogando. Ci furono anni di processi, nell'ultima sentenza fu scritto che Pinelli era precipitato per quello che venne definito «un malore attivo».Lo stesso giorno della morte di Pinelli, il 15 dicembre, fu arrestato un altro anarchico, Pietro Valpreda. Fu indicato da subito come l'uomo che aveva messo la bomba. I giornali lo descrissero, senza che venisse avanzato nessun dubbio, come “il mostro”. Contro di lui c'era la testimonianza di un tassista, Cornelio Rolandi, che disse di averlo caricato in piazza Beccaria, a poco più di 200 metri dalla banca nazionale dell'agricoltura, e di averlo lasciato in una via anch'essa molto vicina al luogo dell'attentato. Secondo questa ricostruzione l'attentatore avrebbe quindi preso un taxi per non percorre a piedi meno di cinque minuti di strada. Il confronto tra Valpreda e il tassista avvenne in maniera grottesca e falsata.Solo nel 1972, a tre anni dalla strage, emersero gli elementi che portarono a individuare come presunti autori dell'attentato di piazza Fontana un gruppo di neofascisti padovani e in particolare Franco Freda e Giovanni Ventura. Emerse anche la figura di Guido Giannettini, giornalista, neonazista, e agente del servizio segreto militare: secondo gli inquirenti veneti aveva svolto il compito di collegamento tra i neofascisti e i servizi segreti, ma vennero assolti al termine di un lungo processo. Anni più tardi un giudice milanese, Guido Salvini, riaprì le indagini e individuò come responsabili della strage gli appartenenti alla cellula veneta del movimento fascista Ordine Nuovo, tra questi anche Franco Freda e Giovanni Ventura che non poterono essere processati in base al principio del ne bis in idem: non può essere processato chi è già stato condannato o assolto per lo stesso fatto.La sentenza finale stabilì però che pur non essendoci prove sufficienti a condannare gli autori materiali dell'attentato, la strage del 12 dicembre 1969 in piazza Fontana era stata programmata e attuata dai neofascisti di OrdineNuovo, e le indagini depistate dei servizi segreti e di altri apparati dello Stato. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
La sera del 6 giugno 2000 a Chiavenna, in provincia di Sondrio, venne assassinata una suora, Maria Laura Mainetti. Fu colpita violentemente alla testa più volte, con una pietra, e poi accoltellata. Dopo meno di un mese vennero arrestate e incriminate tre ragazze, due di 17 anni e una di 16. Confessarono velocemente. Fu difficile cercare di comprendere il movente, capire perché tre adolescenti fossero diventate assassine. Sia nel corso delle indagini sia nei processi che seguirono si parlò di satanismo, in particolare di satanismo giovanile, o acido, inteso come massima forma di trasgressione. Furono le tre ragazze a parlare di sedute spiritiche, fascinazione, patti di sangue, riti improvvisati, feroci e grotteschi. Ma parlarono soprattutto di noia, di mancanza di progetti, di ricerca a ogni costo di emozioni, anche le più distruttive e violente. I processi alle tre ragazze di Chiavenna furono seguitissimi e la conclusione provocò notevoli polemiche. La giustizia minorile ha presupposti, modalità e anche entità delle pene diverse dalla Giustizia ordinaria. Al centro delle polemiche furono soprattutto le perizie psichiatriche a cui furono sottoposte le tre indagate. Mentre per gli adulti la capacità di intendere e di volere è presunta, e al limite va dimostrato che non ci sia stata, per la Giustizia minorile avviene di fatto il contrario: la capacità di intendere e di volere va preventivamente dimostrata. Ed è su questo che si incentrarono i processi, con risultati molto diversi tra primo e secondo grado. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
La sera del 6 giugno 2000 a Chiavenna, in provincia di Sondrio, venne assassinata una suora, Maria Laura Mainetti. Fu colpita violentemente alla testa più volte, con una pietra, e poi accoltellata. Dopo meno di un mese vennero arrestate e incriminate tre ragazze, due di 17 anni e una di 16. Confessarono velocemente. Fu difficile cercare di comprendere il movente, capire perché tre adolescenti fossero diventate assassine. Sia nel corso delle indagini sia nei processi che seguirono si parlò di satanismo, in particolare di satanismo giovanile, o acido, inteso come massima forma di trasgressione. Furono le tre ragazze a parlare di sedute spiritiche, fascinazione, patti di sangue, riti improvvisati, feroci e grotteschi. Ma parlarono soprattutto di noia, di mancanza di progetti, di ricerca a ogni costo di emozioni, anche le più distruttive e violente. I processi alle tre ragazze di Chiavenna furono seguitissimi e la conclusione provocò notevoli polemiche. La giustizia minorile ha presupposti, modalità e anche entità delle pene diverse dalla Giustizia ordinaria. Al centro delle polemiche furono soprattutto le perizie psichiatriche a cui furono sottoposte le tre indagate. Mentre per gli adulti la capacità di intendere e di volere è presunta, e al limite va dimostrato che non ci sia stata, per la Giustizia minorile avviene di fatto il contrario: la capacità di intendere e di volere va preventivamente dimostrata. Ed è su questo che si incentrarono i processi, con risultati molto diversi tra primo e secondo grado. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Il 6 maggio 1996 a Chiavari, in provincia di Genova, fu assassinata una ragazza, Nada Cella. Aveva 24 anni. Fu uccisa nello studio di commercialista dove lavorava da cinque anni. Ai soccorritori fu comunicato che si era trattato di un incidente, il luogo dove era avvenuto il delitto non fu preservato, la scena del crimine fu irrimediabilmente contaminata, addirittura furono pulite con straccio e spazzolone le macchie di sangue trovate sul pianerottolo e sulle scale. L'arma del delitto non è mai stata trovata. L'omicidio di Nada Cella presentava molte caratteristiche in comune con quello di Simonetta Cesaroni, avvenuto in via Poma, a Roma, sei anni prima. Le indagini a Chiavari si concentrarono sul datore di lavoro della ragazza, il commercialista Marco Soracco, ma l'inchiesta non portò a nulla. Altre piste, e soprattutto una, furono sottovalutate o non considerate. L'omicidio di Nada Cella divenne così un cold case, un caso freddo, irrisolto. Solo nel 2021 l'inchiesta è stata ufficialmente riaperta. È stato chiesto il rinvio a giudizio di una donna, già indagata nel 1996, ma la richiesta è stata respinta dalla giudice per le indagini preliminari. Contro quella decisione la pubblico ministero che ha condotto la nuova indagine ha presentato appello. Il caso dell'omicidio di Nada Cella è ancora, ufficialmente, aperto. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Il 6 maggio 1996 a Chiavari, in provincia di Genova, fu assassinata una ragazza, Nada Cella. Aveva 24 anni. Fu uccisa nello studio di commercialista dove lavorava da cinque anni. Ai soccorritori fu comunicato che si era trattato di un incidente, il luogo dove era avvenuto il delitto non fu preservato, la scena del crimine fu irrimediabilmente contaminata, addirittura furono pulite con straccio e spazzolone le macchie di sangue trovate sul pianerottolo e sulle scale. L'arma del delitto non è mai stata trovata. L'omicidio di Nada Cella presentava molte caratteristiche in comune con quello di Simonetta Cesaroni, avvenuto in via Poma, a Roma, sei anni prima. Le indagini a Chiavari si concentrarono sul datore di lavoro della ragazza, il commercialista Marco Soracco, ma l'inchiesta non portò a nulla. Altre piste, e soprattutto una, furono sottovalutate o non considerate. L'omicidio di Nada Cella divenne così un cold case, un caso freddo, irrisolto. Solo nel 2021 l'inchiesta è stata ufficialmente riaperta. È stato chiesto il rinvio a giudizio di una donna, già indagata nel 1996, ma la richiesta è stata respinta dalla giudice per le indagini preliminari. Contro quella decisione la pubblico ministero che ha condotto la nuova indagine ha presentato appello. Il caso dell'omicidio di Nada Cella è ancora, ufficialmente, aperto. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Il 17 ottobre 1980 due ragazzi scomparvero a Giarre, in provincia di Catania: in città li chiamavano “gli ziti”, i fidanzati. Erano Giorgio Agatino Giammona, di 25 anni, e Antonio Galatola, di 15. I loro corpi vennero ritrovati il 31 ottobre in una zona, la Vigna del Principe, che era stata perlustrata nei giorni precedenti senza risultati. I giornali parlarono inizialmente di un doppio suicidio con il veleno. Dall'autopsia emerse che invece erano entrambi morti per colpi di pistola alla testa. Si parlò allora di omicidio-suicidio: il più grande, Giorgio Agatino Giammona, che in città era definito "puppu cu bullu", e cioè omosessuale patentato, aveva, secondo le cronache, ucciso Antonio Galatola per poi spararsi. La pistola venne però ritrovata distante dai corpi, parzialmente interrata. Dovette essere esclusa quindi anche l'ipotesi dell'omicidio-suicidio. Il giorno dei funerali, separati per volere delle famiglie, ci fu una confessione: Ciccio Messina, tredicenne, nipote di Galatola, disse di aver sparato ai due ragazzi e che erano stati loro stessi a chiedergli di farlo. Poi Messina ritrattò, disse che era stato obbligato a confessare ma le indagini vennero comunque dichiarate chiuse. Anche se lo stesso magistrato a cui per primo era stato assegnato il caso aveva molti dubbi sulla sua ricostruzione. Ciccio Messina aveva meno di 14 anni e quindi non era imputabile. Quel delitto provocò una forte reazione del movimento per i diritti delle coppie omosessuali e proprio dopo i fatti di Giarre nacque, in Sicilia, l'Arcigay che divenne più tardi movimento nazionale. In città, invece, di Giorgio Agatino Giammona e di Antonio Galatola non si parlò più. Solo recentemente è emersa fortemente una nuova ipotesi. Quello dei due ragazzi sarebbe stato un delitto omofobo ma anche d'onore. Qualcuno, all'interno delle due famiglie, non sopportava che Giorgio e Antonio si comportassero come una coppia, addirittura andando in giro mano nella mano, gettando così disonore sulle famiglie stesse. E Ciccio Messina sarebbe stato solo il capro espiatorio da sacrificare, perché non processabile. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Tra il 1992 e il 1993 due delitti crearono in Italia forte emozione e paura. Avvennero in Umbria, nella zona di Foligno. Il 4 ottobre 1992 venne assassinato un bambino di quattro anni, Simone Allegretti; il 7 agosto 1993 un tredicenne, Lorenzo Paolucci. Dopo il primo delitto l'assassino inviò lettere alla polizia, sfidandola e annunciando che avrebbe ucciso ancora. Si firmava autodefinendosi “il mostro”. Le indagini furono difficili, non c'erano tracce, né prove, nessuno aveva visto nulla. Dopo il primo omicidio un ragazzo della provincia di Milano si autoaccusò: diede indicazioni realistiche su ciò che aveva fatto. Per 15 giorni le indagini si fermarono fino a che si capì che quel ragazzo si era inventato tutto. L'aveva fatto, disse, per attirare l'attenzione della ex fidanzata. Il vero assassino fu preso dopo il secondo delitto. Lasciò questa volta numerose tracce che portarono fino a lui. Si chiamava Luigi Chiatti, quando lo fermarono disse: «Io sono un bravo boy scout». Confessò quasi subito ma soprattutto, durante gli interrogatori, mise sé stesso al centro di tutto, parlando della sua vita (aveva trascorso i primi sette anni in un istituto per l'infanzia ed era stato adottato poi da una famiglia di Foligno), e dei suoi problemi, quasi giustificando e banalizzando ciò che aveva fatto. Aveva un piano, rapire dei bambini e vivere con loro per sette anni. Senza mai scendere nei particolari dei due delitti, la storia degli omicidi di Foligno racconta di come segnali evidenti presenti nei comportamenti di Luigi Chiatti vennero ignorati, di come si svolsero le perizie psichiatriche e di come, al centro dei processi, ci furono proprio quelle perizie, molto contrastanti, sulla sua capacità di intendere e di volere. Luigi Chiatti ha finito di scontare la sua pena nel 2015 ma da allora è stato trasferito in una rems, una residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza. I giudici non gli hanno mai concesso di tornare libero: viene ancora oggi giudicato “socialmente pericoloso”. Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Tra il 1992 e il 1993 due delitti crearono in Italia forte emozione e paura. Avvennero in Umbria, nella zona di Foligno. Il 4 ottobre 1992 venne assassinato un bambino di quattro anni, Simone Allegretti; il 7 agosto 1993 un tredicenne, Lorenzo Paolucci. Dopo il primo delitto l'assassino inviò lettere alla polizia, sfidandola e annunciando che avrebbe ucciso ancora. Si firmava autodefinendosi “il mostro”. Le indagini furono difficili, non c'erano tracce, né prove, nessuno aveva visto nulla. Dopo il primo omicidio un ragazzo della provincia di Milano si autoaccusò: diede indicazioni realistiche su ciò che aveva fatto. Per 15 giorni le indagini si fermarono fino a che si capì che quel ragazzo si era inventato tutto. L'aveva fatto, disse, per attirare l'attenzione della ex fidanzata. Il vero assassino fu preso dopo il secondo delitto. Lasciò questa volta numerose tracce che portarono fino a lui. Si chiamava Luigi Chiatti, quando lo fermarono disse: «Io sono un bravo boy scout». Confessò quasi subito ma soprattutto, durante gli interrogatori, mise sé stesso al centro di tutto, parlando della sua vita (aveva trascorso i primi sette anni in un istituto per l'infanzia ed era stato adottato poi da una famiglia di Foligno), e dei suoi problemi, quasi giustificando e banalizzando ciò che aveva fatto. Aveva un piano, rapire dei bambini e vivere con loro per sette anni. Senza mai scendere nei particolari dei due delitti, la storia degli omicidi di Foligno racconta di come segnali evidenti presenti nei comportamenti di Luigi Chiatti vennero ignorati, di come si svolsero le perizie psichiatriche e di come, al centro dei processi, ci furono proprio quelle perizie, molto contrastanti, sulla sua capacità di intendere e di volere. Luigi Chiatti ha finito di scontare la sua pena nel 2015 ma da allora è stato trasferito in una rems, una residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza. I giudici non gli hanno mai concesso di tornare libero: viene ancora oggi giudicato “socialmente pericoloso”. Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Il 9 maggio 1997 poco dopo le 11:40 Marta Russo, studentessa ventiduenne, venne colpita alla testa da un proiettile mentre camminava all'interno dell'università La Sapienza, di Roma, dove studiava Giurisprudenza. Morì cinque giorni dopo. Le due nuove puntate di Indagini raccontano che cosa avvenne nei giorni e nelle settimane successive a quel delitto: la ricerca di chi aveva sparato, da dove e perché. L'arma del delitto non venne trovata e non fu individuato il movente. La ricostruzione della traiettoria del proiettile fu estremamente complessa: era impossibile stabilire l'esatta posizione della testa della ragazza quando fu colpita. Si ricorse a una ricostruzione in 3D realizzata nei laboratori della polizia scientifica. La perizia chiamata Stub individuò particelle apparentemente riconducibili agli elementi di innesco di uno sparo sul davanzale di una finestra dell'istituto di Filosofia del Diritto. Quelle perizie furono però di fatto cancellate dal processo per decisione della Corte di Cassazione. Ma soprattutto Indagini racconta il percorso cronologico delle testimonianze mutevoli che portarono all'arresto di due assistenti dell'istituto, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Quelle testimonianze, di tre persone, furono molto contestate durante il processo e suscitarono forti polemiche per i metodi usati durante gli interrogatori. Scattone e Ferraro, che si sono sempre dichiarati innocenti, furono condannati per omicidio colposo e per favoreggiamento. L'arma del delitto non è mai stata trovata, il movente mai individuato. Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Il 9 maggio 1997 poco dopo le 11:40 Marta Russo, studentessa ventiduenne, venne colpita alla testa da un proiettile mentre camminava all'interno dell'università La Sapienza, di Roma, dove studiava Giurisprudenza. Morì cinque giorni dopo. Le due nuove puntate di Indagini raccontano che cosa avvenne nei giorni e nelle settimane successive a quel delitto: la ricerca di chi aveva sparato, da dove e perché. L'arma del delitto non venne trovata e non fu individuato il movente. La ricostruzione della traiettoria del proiettile fu estremamente complessa: era impossibile stabilire l'esatta posizione della testa della ragazza quando fu colpita. Si ricorse a una ricostruzione in 3D realizzata nei laboratori della polizia scientifica. La perizia chiamata Stub individuò particelle apparentemente riconducibili agli elementi di innesco di uno sparo sul davanzale di una finestra dell'istituto di Filosofia del Diritto. Quelle perizie furono però di fatto cancellate dal processo per decisione della Corte di Cassazione. Ma soprattutto Indagini racconta il percorso cronologico delle testimonianze mutevoli che portarono all'arresto di due assistenti dell'istituto, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Quelle testimonianze, di tre persone, furono molto contestate durante il processo e suscitarono forti polemiche per i metodi usati durante gli interrogatori. Scattone e Ferraro, che si sono sempre dichiarati innocenti, furono condannati per omicidio colposo e per favoreggiamento. L'arma del delitto non è mai stata trovata, il movente mai individuato. Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Il 6 maggio 1994 l'emittente televisiva americana Abc mandò in onda un'intervista a un cittadino tedesco che, negli anni della Seconda Guerra Mondiale, era stato a Roma capitano della Gestapo, la polizia delle SS. Quell'uomo si chiamava Erich Priebke, viveva in Argentina dal 1948, a San Carlos de Bariloche, ai piedi delle Ande. L'intervista fu ripresa dai telegiornali italiani: un procuratore militare, Antonino Intelisano, richiamò dagli archivi il fascicolo che riguardava quell'ex ufficiale nazista scoprendo che su di lui pendeva un mandato d'arresto per l'uccisione, il 24 marzo 1944, di 335 cittadini italiani, assassinati nelle cave di pozzolana, conosciute come Fosse Ardeatine. Dopo una difficile controversia con la giustizia argentina, Priebke fu estradato in Italia. Seguì un processo davanti al tribunale militare in cui si discusse a lungo attorno alla frase “Ho solo eseguito gli ordini” con cui Priebke, come prima di lui avevano fatto altri ex criminali di guerra nazisti, cercò di giustificare le proprie azioni. Ma nel dibattito che accompagnò quel processo ci fu anche il tentativo di addossare la colpa di ciò che avvenne alle fosse ardeatine ai partigiani che il giorno prima aveva attaccato una colonna di SS del battaglione Bozen in servizio nel centro di Roma. Furono riproposte narrazioni false attorno a quegli avvenimenti. In quel processo si parlò di interrogatori e torture avvenute nella sede delle SS a Roma, in via Tasso, di legittimità delle rappresaglie in tempo di guerra, di catene di comando. Priebke affermò in dichiarazioni e interviste che i campi di sterminio non fossero mai esistiti e che i 335 uomini uccisi alle Fosse Ardeatine fossero in larga parte “terroristi”. I processi si conclusero, dopo lunghe e controverse vicende, con la condanna all'ergastolo di Priebke. L'ex capitano della gestapo morì a Roma nel 2012. È sepolto in un luogo segreto in una tomba senza nome. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Il 6 maggio 1971, a Genova, scomparve una ragazza di 13 anni, Milena Sutter. Apparteneva a una famiglia di noti imprenditori svizzeri trasferitasi da anni in Italia. Frequentava la scuola svizzera: quel giorno uscì dalle lezioni nel pomeriggio, come accadeva ogni giorno, ma non arrivò mai a casa. La famiglia pensò subito a un sequestro di persona. Il padre della ragazza era sesto nella classifica dei contribuenti della città. In Italia, proprio in quegli anni, si stava sviluppando la pratica criminale dei sequestri di persona a scopo di estorsione: saranno centinaia negli ani seguenti. Nel solo 1977, l'anno peggiore, i sequestri furono 75, più di uno alla settimana. La telefonata con la richiesta di riscatto arrivò il giorno successivo alla scomparsa. Una voce registrata chiese 50 milioni di lire per rilasciare la ragazza. In quel momento Milena Sutter, così stabilì il processo, era già morta. Il suo corpo venne ritrovato in mare il 20 maggio, nella baia di Priaruggia. Attorno alla vita le era stata legata una cintura da sub con pesi da un chilo. Lo stesso giorno venne arrestato un venticinquenne, Lorenzo Bozano, che passò alle cronache come “il biondino della spider rossa”. Nei pressi della villa dei Sutter e vicino alla scuola svizzera era stata notata infatti una Alfa Romeo Giulietta spider rossa con molte ammaccature. L'auto venne individuata e venne individuato anche il proprietario, Bozano, appunto, riconosciuto da alcuni testimoni come il ragazzo che spesso si aggirava intorno alla villa dove viveva la famiglia della ragazza, in viale Mosto. Contro fi lui furono raccolti molti indizi, alcuni estremamente importanti, ma non ci fu mai la cosiddetta “prova regina”. Il caso Sutter suscitò molta emozione, il processo fu seguitissimo, da più parti si tornò a parlare di pena di morte in Italia. Bozano, che si è sempre dichiarato innocente, fu assolto in primo grado e poi condannato all'ergastolo nel processo d'appello, condanna confermata dalla Corte di Cassazione. Fu come detto, un processo indiziario, con moltissimi indizi convergenti ma senza una prova definitiva e con alcune domande che, anche a distanza di anni, non hanno mai avuto una risposta. Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Il 6 maggio 1971, a Genova, scomparve una ragazza di 13 anni, Milena Sutter. Apparteneva a una famiglia di noti imprenditori svizzeri trasferitasi da anni in Italia. Frequentava la scuola svizzera: quel giorno uscì dalle lezioni nel pomeriggio, come accadeva ogni giorno, ma non arrivò mai a casa. La famiglia pensò subito a un sequestro di persona. Il padre della ragazza era sesto nella classifica dei contribuenti della città. In Italia, proprio in quegli anni, si stava sviluppando la pratica criminale dei sequestri di persona a scopo di estorsione: saranno centinaia negli ani seguenti. Nel solo 1977, l'anno peggiore, i sequestri furono 75, più di uno alla settimana. La telefonata con la richiesta di riscatto arrivò il giorno successivo alla scomparsa. Una voce registrata chiese 50 milioni di lire per rilasciare la ragazza. In quel momento Milena Sutter, così stabilì il processo, era già morta. Il suo corpo venne ritrovato in mare il 20 maggio, nella baia di Priaruggia. Attorno alla vita le era stata legata una cintura da sub con pesi da un chilo. Lo stesso giorno venne arrestato un venticinquenne, Lorenzo Bozano, che passò alle cronache come “il biondino della spider rossa”. Nei pressi della villa dei Sutter e vicino alla scuola svizzera era stata notata infatti una Alfa Romeo Giulietta spider rossa con molte ammaccature. L'auto venne individuata e venne individuato anche il proprietario, Bozano, appunto, riconosciuto da alcuni testimoni come il ragazzo che spesso si aggirava intorno alla villa dove viveva la famiglia della ragazza, in viale Mosto. Contro fi lui furono raccolti molti indizi, alcuni estremamente importanti, ma non ci fu mai la cosiddetta “prova regina”. Il caso Sutter suscitò molta emozione, il processo fu seguitissimo, da più parti si tornò a parlare di pena di morte in Italia. Bozano, che si è sempre dichiarato innocente, fu assolto in primo grado e poi condannato all'ergastolo nel processo d'appello, condanna confermata dalla Corte di Cassazione. Fu come detto, un processo indiziario, con moltissimi indizi convergenti ma senza una prova definitiva e con alcune domande che, anche a distanza di anni, non hanno mai avuto una risposta. Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Il 28 dicembre 2014, a Milano, un ragazzo, Pietro Barbini, venne aggredito da una persona che gli gettò addosso dell'acido. Fu colpito al viso, al torace e alle mani. La ragazza che lo aggredì non era sola. Un suo complice venne fermato subito e poi arrestato. La ragazza fu fermata qualche ora dopo e pochi giorni più tardi fu individuato un terzo complice. Da quell'aggressione gli inquirenti risalirono ad altre, avvenute nei mesi precedenti, sempre a Milano. Questa è la storia di quella che i giornali chiamarono la "coppia dell'acido", una definizione che però non è corretta: a compiere quelle aggressioni furono tre persone, una coppia, Martina Levato e Alexander Boettcher, e un loro complice, Andrea Magnani. Due delle persone aggredite riportarono lesioni estremamente gravi e sono state sottoposte ad anni di interventi e cure. Un altro subì un tentativo di evirazione. In un caso gli aggressori sbagliarono persona e aggredirono con l'acido un ragazzo che non conoscevano, perché la coppia aveva deciso che la ragazza dovesse essere purificata da tutte le relazioni precedenti e che coloro che avevano avuto rapporti con lei dovessero essere in qualche modo cancellati, o almeno dovesse esserne cancellata l'identità. Vitriolage, si chiama tecnicamente così l'aggressione con l'acido, una pratica criminale molto diffusa in alcuni paesi mediorientali ma che conta numerose vittime anche in Italia. Questa è anche la storia di processi in cui fu difficile stabilire le singole responsabilità e se esisteva, tra gli aggressori, chi aveva avuto un ruolo di guida, di ispiratore. Ci furono perizie psichiatriche che si conclusero stabilendo la loro capacità di intendere e di volere. Ed è la storia, lunga, di come e perché venne decisa dal tribunale per i minorenni l'adozione del bambino della coppia, nato poche settimane dopo gli arresti. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Il 28 dicembre 2014, a Milano, un ragazzo, Pietro Barbini, venne aggredito da una persona che gli gettò addosso dell'acido. Fu colpito al viso, al torace e alle mani. La ragazza che lo aggredì non era sola. Un suo complice venne fermato subito e poi arrestato. La ragazza fu fermata qualche ora dopo e pochi giorni più tardi fu individuato un terzo complice. Da quell'aggressione gli inquirenti risalirono ad altre, avvenute nei mesi precedenti, sempre a Milano. Questa è la storia di quella che i giornali chiamarono la "coppia dell'acido", una definizione che però non è corretta: a compiere quelle aggressioni furono tre persone, una coppia, Martina Levato e Alexander Boettcher, e un loro complice, Andrea Magnani. Due delle persone aggredite riportarono lesioni estremamente gravi e sono state sottoposte ad anni di interventi e cure. Un altro subì un tentativo di evirazione. In un caso gli aggressori sbagliarono persona e aggredirono con l'acido un ragazzo che non conoscevano, perché la coppia aveva deciso che la ragazza dovesse essere purificata da tutte le relazioni precedenti e che coloro che avevano avuto rapporti con lei dovessero essere in qualche modo cancellati, o almeno dovesse esserne cancellata l'identità. Vitriolage, si chiama tecnicamente così l'aggressione con l'acido, una pratica criminale molto diffusa in alcuni paesi mediorientali ma che conta numerose vittime anche in Italia. Questa è anche la storia di processi in cui fu difficile stabilire le singole responsabilità e se esisteva, tra gli aggressori, chi aveva avuto un ruolo di guida, di ispiratore. Ci furono perizie psichiatriche che si conclusero stabilendo la loro capacità di intendere e di volere. Ed è la storia, lunga, di come e perché venne decisa dal tribunale per i minorenni l'adozione del bambino della coppia, nato poche settimane dopo gli arresti. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. In piazza della Loggia, a Brescia, la bomba esplose alle 10.12. Alle 11.45 qualcuno diede ordine ai vigili del fuoco di ripulire l'asfalto con gli idranti. Le tracce dell'esplosivo e altri possibili reperti furono trascinati dall'acqua nei tombini. Un magistrato, qualche anno, dopo, disse che quell'ordine fu il primo depistaggio messo in atto in questa vicenda. Era il 12 maggio 1974. Quella mattina in piazza era in corso una manifestazione antifascista indetta contro i numerosi atti terroristici neri che avevano colpito la provincia nelle settimane precedenti. L'esplosione uccise sei persone, altre due morirono in ospedale nei giorni seguenti. I feriti furono oltre 100. Qualche ora dopo lo scoppio della bomba nell'ospedale cittadino arrivò la telefonata di un uomo che disse di essere un dirigente del ministero dell'Interno. Diede disposizione che tutti i reperti trovati sugli indumenti delle vittime venissero radunati e consegnati a una persona che sarebbe arrivata in ospedale di lì a poco. Quella persona arrivò, prese in consegna le buste dei reperti che poi scomparvero. Fu il secondo depistaggio. La storia delle indagini sulla strage di Brescia del 1974 è stata accompagnata, come è avvenuto per altre stragi compiute in Italia, da coperture, complicità, interventi dei servizi segreti. Fu chiara subito l'origine neofascista di quell'attentato ma le indagini si indirizzarono verso piccoli fascistelli locali, spesso ragazzini, e delinquenti comuni. Eppure, si scoprì solo anni più tardi che capi del Sid, l'allora Servizio informazioni difesa, il servizio segreto militare, sapevano molto di quella bomba, addirittura erano probabilmente a conoscenza prima di ciò che sarebbe avvenuto in piazza della Loggia. Quarant'anni più tardi per quell'attentato furono condannati due esponenti veneti dell'organizzazione neofascista Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, quest'ultimo, oltre che militante neofascista, anche informatore stipendiato dai servizi segreti. Furono giovani magistrati a scoprire che quell'attentato era stato deciso, organizzato e realizzato dalla cellula veneta del gruppo terroristico, lo stesso coinvolto nella strage di piazza Fontana, del 1969, a Milano. Gli stessi magistrati scoprirono il ruolo avuto da servizi segreti e funzionari dello Stato in quella vicenda. Le indagini su ciò che avvenne a Brescia il 18 maggio 1974 continuano ancora oggi. Due persone, che oggi vivono all'estero, sono state rinviate a giudizio per aver avuto un ruolo in quell'attentato. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Nel tardo pomeriggio del 2 luglio 1983 due bambine, Nunzia Munizzi e Barbara Sellini, di dieci e sette anni, scomparvero nel rione Incis del quartiere di Ponticelli, a Napoli. Vennero ritrovate la mattina dopo. Erano state assassinate e i loro corpi bruciati. Di quel duplice omicidio, terribile, sarebbe doloroso e inutile ricordare i molti particolari. Ma è importante ripercorrere cosa avvenne dopo, le indagini veloci e condotte con una ovvia, forte pressione mediatica e dell'opinione pubblica, i processi, le tante ritrattazioni e incongruenze dei testimoni, le perizie scientifiche mai effettuate. Per quel delitto vennero condannati all'ergastolo tre ragazzi ventenni, anche loro abitanti del rione Incis di Ponticelli. Si sono sempre dichiarati innocenti e molti altri sono sempre stati convinti della loro estraneità ai fatti. Nel 2022 anche la commissione antimafia ha svolto un'inchiesta, concludendo che tanti elementi suscitavano pesanti dubbi e che si sarebbe dovuto continuare a indagare. I tre di Ponticelli, come vennero definiti, oggi sono liberi, dopo aver trascorso 26 anni in carcere. Continuano a chiedere la revisione del processo, affermando che in realtà il vero assassino di Nunzia Munizzi e Barbara Sellini non sia mai stato preso. Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Nel tardo pomeriggio del 2 luglio 1983 due bambine, Nunzia Munizzi e Barbara Sellini, di dieci e sette anni, scomparvero nel rione Incis del quartiere di Ponticelli, a Napoli. Vennero ritrovate la mattina dopo. Erano state assassinate e i loro corpi bruciati. Di quel duplice omicidio, terribile, sarebbe doloroso e inutile ricordare i molti particolari. Ma è importante ripercorrere cosa avvenne dopo, le indagini veloci e condotte con una ovvia, forte pressione mediatica e dell'opinione pubblica, i processi, le tante ritrattazioni e incongruenze dei testimoni, le perizie scientifiche mai effettuate. Per quel delitto vennero condannati all'ergastolo tre ragazzi ventenni, anche loro abitanti del rione Incis di Ponticelli. Si sono sempre dichiarati innocenti e molti altri sono sempre stati convinti della loro estraneità ai fatti. Nel 2022 anche la commissione antimafia ha svolto un'inchiesta, concludendo che tanti elementi suscitavano pesanti dubbi e che si sarebbe dovuto continuare a indagare. I tre di Ponticelli, come vennero definiti, oggi sono liberi, dopo aver trascorso 26 anni in carcere. Continuano a chiedere la revisione del processo, affermando che in realtà il vero assassino di Nunzia Munizzi e Barbara Sellini non sia mai stato preso. Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Sono aperte le iscrizioni alle “10 lezioni sui podcast” del Post, dieci incontri online per chi vuole capire meglio come funzionano i podcast, dall'idea alla pubblicazione. Due volte a settimana, in diretta, insieme a Stefano Nazzi, Francesco Costa e altri autori e producer. Ci si può iscrivere fino al 27 maggio. Trovi altre informazioni a questo link o scrivendo a scuola@ilpost.it Il 10 luglio 1991 intorno alle nove del mattino, Alberica Filo della Torre venne assassinata all'interno della sua villa, nel quartiere romano dell'Olgiata. In casa in quel momento c'erano i figli bambini della donna e alcune persone che lavoravano nella villa. Il delitto suscitò un enorme interesse da parte dei media. Alberica Filo della Torre era di origini nobili, l'omicidio era avvenuto all'interno di un complesso, quello dell'Olgiata, considerato esclusivo e abitato da persone estremamente facoltose. I giornali parlarono di delitto «tra i sangue blu». Le indagini appurarono da subito che il marito della donna, Pietro Mattei, aveva un alibi riscontrabile e solido. Nonostante questo le illazioni sulla stampa furono continue e durarono molti anni. Così come furono lunghe e spesso apparirono caotiche le indagini. Ci furono vari sospettati ma senza che ci fosse mai un riscontro concreto. La vicenda, tre anni dopo il delitto, si incrociò con un'altra indagine, quella sul cosiddetto scandalo dei fondi neri del Sisde, il servizio segreto italiano. Ma anche quella pista si rivelò poi inconsistente. Più volte si parlò di archiviazione dell'indagine ma Pietro Mattei, e con lui i suoi figli, si opposero sempre insistendo anzi sul proseguimento e sull'ampliamento dell'indagine che, grazie a nuove tecniche di investigazione scientifica, avrebbero potuto individuare nuovi elementi importanti. La soluzione del caso arrivò però solo 19 anni dopo il delitto. Ed era sempre stata presente tra i reperti acquisiti in fase d'indagine. La registrazione di un'intercettazione telefonica che conteneva elementi fondamentali per l'individuazione del colpevole non era mai stata, inspiegabilmente, ascoltata. E alcune tracce biologiche lasciate sul luogo del delitto erano state prima ignorate e poi analizzate solo superficialmente. Quelle tracce rappresentarono una conferma a ciò che era contenuto nell'intercettazione telefonica. A distanza di anni dal delitto Pietro Mattei e i suoi figli accusarono chi aveva condotto le indagini di macroscopici errori. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Sono aperte le iscrizioni alle “10 lezioni sui podcast” del Post, dieci incontri online per chi vuole capire meglio come funzionano i podcast, dall'idea alla pubblicazione. Due volte a settimana, in diretta, insieme a Stefano Nazzi, Francesco Costa e altri autori e producer. Ci si può iscrivere fino al 27 maggio. Trovi altre informazioni a questo link o scrivendo a scuola@ilpost.it Il 10 luglio 1991 intorno alle nove del mattino, Alberica Filo della Torre venne assassinata all'interno della sua villa, nel quartiere romano dell'Olgiata. In casa in quel momento c'erano i figli bambini della donna e alcune persone che lavoravano nella villa. Il delitto suscitò un enorme interesse da parte dei media. Alberica Filo della Torre era di origini nobili, l'omicidio era avvenuto all'interno di un complesso, quello dell'Olgiata, considerato esclusivo e abitato da persone estremamente facoltose. I giornali parlarono di delitto «tra i sangue blu». Le indagini appurarono da subito che il marito della donna, Pietro Mattei, aveva un alibi riscontrabile e solido. Nonostante questo le illazioni sulla stampa furono continue e durarono molti anni. Così come furono lunghe e spesso apparirono caotiche le indagini. Ci furono vari sospettati ma senza che ci fosse mai un riscontro concreto. La vicenda, tre anni dopo il delitto, si incrociò con un'altra indagine, quella sul cosiddetto scandalo dei fondi neri del Sisde, il servizio segreto italiano. Ma anche quella pista si rivelò poi inconsistente. Più volte si parlò di archiviazione dell'indagine ma Pietro Mattei, e con lui i suoi figli, si opposero sempre insistendo anzi sul proseguimento e sull'ampliamento dell'indagine che, grazie a nuove tecniche di investigazione scientifica, avrebbero potuto individuare nuovi elementi importanti. La soluzione del caso arrivò però solo 19 anni dopo il delitto. Ed era sempre stata presente tra i reperti acquisiti in fase d'indagine. La registrazione di un'intercettazione telefonica che conteneva elementi fondamentali per l'individuazione del colpevole non era mai stata, inspiegabilmente, ascoltata. E alcune tracce biologiche lasciate sul luogo del delitto erano state prima ignorate e poi analizzate solo superficialmente. Quelle tracce rappresentarono una conferma a ciò che era contenuto nell'intercettazione telefonica. A distanza di anni dal delitto Pietro Mattei e i suoi figli accusarono chi aveva condotto le indagini di macroscopici errori. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Il 18 marzo 1978 due ragazzi di 18 anni, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, furono assassinati in via Mancinelli, a Milano. Era un sabato, poco prima delle venti. Vennero uccisi con otto colpi di pistola, tutti andati a segno. Iniziò quella sera una storia lunga, con indagini condotte da otto magistrati diversi, spesso impegnati anche in altre inchieste e quindi costretti a dedicarsi alla vicenda solo parzialmente. Indagini fatte inizialmente male, con perizie approssimative e a volte incomplete, testimonianze non raccolte, elementi tralasciati. È la storia di un immediato e maldestro tentativo di depistaggio. Di reperti incomprensibilmente distrutti, di un collegamento tra Milano, un'altra città lombarda, Cremona, e Roma, perché dagli ambienti dell'estrema destra romana, secondo le ipotesi investigative, sarebbero arrivati gli esecutori dell'omicidio.L'omicidio avvenne in giorni che furono tra i più angoscianti nella storia d'Italia dalla fine della II guerra mondiale. Il 16 marzo, due giorni prima dei fatti di Milano, a Roma era infatti stato sequestrato dalle Brigate Rosse il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro.Ciò che accadde alle 20 del 18 marzo 1978 in via Mancinelli è anche la storia di una città, di una generazione, di un funerale a cui parteciparono molte decine di migliaia di persone con un coinvolgimento emotivo che tanti non avevano mai visto né provato. Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci erano due ragazzi di sinistra ma non militavano in nessun gruppo, non erano due leader, non erano conosciuti. Frequentavano il centro sociale Leoncavallo ma anche lì non erano due leader, due in vista. Erano, come dissero le decine di migliaia di ragazzi che parteciparono al funerale, «due come noi, esattamente come noi».Negli anni molti elementi sono emersi, anche grazie a collaboratori di giustizia appartenenti al terrorismo nero. Non c'è mai stata, però, una conclusione giudiziaria della vicenda. Ora, a distanza di tanto tempo, la procura di Milano ha ripreso il filo di quella vicenda aprendo un fascicolo conoscitivo, senza cioè indagati e ipotesi di reato. L'obiettivo è capire se esistono elementi per riaprire ufficialmente le indagini. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Emanuela Orlandi uscì di casa tra le 15.30 e le 16 del 22 giugno 1983. Abitava entro le mura vaticane, suo padre era commesso presso il Palazzo Apostolico. Quel giorno ebbe lezioni, come faceva tre volte alla settimana, all' Istituto Ludovico Da Victoria, associato al Pontificio istituto di musica sacra, in piazza Sant'Apollinare, nel centro di Roma. Uscì dall'istituto poco prima delle 19, assieme alle sue compagne e ai compagni di corso. Poi nessuno la vide più, almeno ufficialmente. La storia della scomparsa di Emanuela Orlandi è uno dei casi di cronaca più famosi d'Italia, forse il più intricato, tra i più raccontati. Ma è anche molto altro. È anche la storia di depistaggi, testimonianze spesso inattendibili, silenzi e reticenze da parte del Vaticano, piste seguite e rivelatesi poi dopo anni assolutamente inconsistenti. È anche la storia di come molti di coloro che sono comparsi in questa storia hanno approfittato della scomparsa di una ragazza di 15 anni, per fini politici, per sviare le indagini o semplicemente, come scrisse una delle magistrate che indagò, per conquistare un quarto d'ora di celebrità. A distanza ormai di 41 anni dal giorno in cui Emanuela Orlandi scomparve, si può tentare di ripercorrere la vicenda sottolineando gli aspetti più incongrui, le notizie che in realtà non erano notizie, le testimonianze più improbabili, le reticenze di chi probabilmente qualcosa sapeva ma non comunicò mai nulla alla procura incaricata delle indagini, quella romana. Ricostruendo anni di rivelazioni improbabili, ricerche infruttuose, segnalazioni false, tutto mischiato ormai in un grade contenitore nel quale è difficile anche solo orientarsi. Ben sapendo che troppe volte è stata usata la parola verità, ma quelle verità ancora è nascosta da qualche parte. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Emanuela Orlandi uscì di casa tra le 15.30 e le 16 del 22 giugno 1983. Abitava entro le mura vaticane, suo padre era commesso presso il Palazzo Apostolico. Quel giorno ebbe lezioni, come faceva tre volte alla settimana, all' Istituto Ludovico Da Victoria, associato al Pontificio istituto di musica sacra, in piazza Sant'Apollinare, nel centro di Roma. Uscì dall'istituto poco prima delle 19, assieme alle sue compagne e ai compagni di corso. Poi nessuno la vide più, almeno ufficialmente. La storia della scomparsa di Emanuela Orlandi è uno dei casi di cronaca più famosi d'Italia, forse il più intricato, tra i più raccontati. Ma è anche molto altro. È anche la storia di depistaggi, testimonianze spesso inattendibili, silenzi e reticenze da parte del Vaticano, piste seguite e rivelatesi poi dopo anni assolutamente inconsistenti. È anche la storia di come molti di coloro che sono comparsi in questa storia hanno approfittato della scomparsa di una ragazza di 15 anni, per fini politici, per sviare le indagini o semplicemente, come scrisse una delle magistrate che indagò, per conquistare un quarto d'ora di celebrità. A distanza ormai di 41 anni dal giorno in cui Emanuela Orlandi scomparve, si può tentare di ripercorrere la vicenda sottolineando gli aspetti più incongrui, le notizie che in realtà non erano notizie, le testimonianze più improbabili, le reticenze di chi probabilmente qualcosa sapeva ma non comunicò mai nulla alla procura incaricata delle indagini, quella romana. Ricostruendo anni di rivelazioni improbabili, ricerche infruttuose, segnalazioni false, tutto mischiato ormai in un grade contenitore nel quale è difficile anche solo orientarsi. Ben sapendo che troppe volte è stata usata la parola verità, ma quelle verità ancora è nascosta da qualche parte. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Tra l'ottobre del 1997 e l'aprile del 1998 Donato Bilancia uccise 17 persone. Assassinò nove uomini e otto donne, tra la Liguria e il Piemonte. Per molti mesi quei delitti non vennero messi in relazione, indagarono quattro procure diverse. Nonostante alcune indicazioni e una perizia balistica che collegava i primi tre delitti, le indagini proseguirono in direzioni diverse. Nessuno allora pensava che potesse esistere in Italia un assassino seriale con quelle caratteristiche. Uccise prima per vendetta, poi per sviare le indagini, infine per il puro piacere di farlo. Lo arrestarono grazie a un grave errore che commise ma che fu scoperto solo per un colpo di fortuna. Quando gli inquirenti lo interrogarono per la prima volta erano decisi a contestargli sette omicidi, lui ne confessò 17 rivelando anche che la morte di un uomo, catalogata come morte naturale era stata in realtà un ‘omicidio e che era stato lui a commetterlo. Bilancia fu sottoposto a numerose perizie psichiatriche e dichiarato capace di intendere e di volere al momento dei fatti. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Tra l'ottobre del 1997 e l'aprile del 1998 Donato Bilancia uccise 17 persone. Assassinò nove uomini e otto donne, tra la Liguria e il Piemonte. Per molti mesi quei delitti non vennero messi in relazione, indagarono quattro procure diverse. Nonostante alcune indicazioni e una perizia balistica che collegava i primi tre delitti, le indagini proseguirono in direzioni diverse. Nessuno allora pensava che potesse esistere in Italia un assassino seriale con quelle caratteristiche. Uccise prima per vendetta, poi per sviare le indagini, infine per il puro piacere di farlo. Lo arrestarono grazie a un grave errore che commise ma che fu scoperto solo per un colpo di fortuna. Quando gli inquirenti lo interrogarono per la prima volta erano decisi a contestargli sette omicidi, lui ne confessò 17 rivelando anche che la morte di un uomo, catalogata come morte naturale era stata in realtà un ‘omicidio e che era stato lui a commetterlo. Bilancia fu sottoposto a numerose perizie psichiatriche e dichiarato capace di intendere e di volere al momento dei fatti. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Quella del terremoto in Irpinia è una puntata speciale per le persone abbonate. Se vuoi ascoltarla puoi abbonarti qui. Il 23 novembre 1980 un forte terremoto colpì la Campania centrale e la Basilicata centro settentrionale. Erano le 19.52, durò 90 secondi. Il sisma ebbe conseguenze durissime soprattutto in Irpinia. Per molte ore non si riuscì a individuare l'esatto epicentro, i soccorsi tardarono, molti comuni restarono isolati per ore, alcuni per giorni. E quando gli aiuti iniziarono ad arrivare mancavano le attrezzature, addirittura i paletti per le tende, le scorte d'acqua. Le due puntate di Altre Indagini partono da quella sera ma raccontano soprattutto ciò che accadde dopo: la paralisi del sistema di protezione civile, denunciata in diretta televisiva anche dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, la mancanza di coordinamento. Ma anche l'enorme supporto dei volontari giunti da tutta Italia che in molti casi sopperirono alla mancanza delle istituzioni. E poi il dopo: gli sperperi e le ruberie durante la ricostruzione, la presenza della camorra e i patti con i politici, i capannoni industriali costruiti e poi abbandonati, le ville con piscina edificate dove in realtà i progetti prevedevano stalle per animali, le strade costate trenta volte di più di quanto si sarebbe dovuto spendere. Indagini è un podcast del Post, scritto e raccontato da Stefano Nazzi Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Il 28 settembre 2002 una ragazza di 14 anni, Desirèe Piovanelli, scomparve, a Leno, in provincia di Brescia. Il giorno dopo il fratello ricevette un sms: «Non preoccupatevi per me, sono con Tony, voglio stare con lui». Tony era un ragazzo di Cremona che Desirée Piovanelli aveva conosciuto durante un raduno di Testimoni di Geova, di cui le rispettive famiglie facevano parte. Quel ragazzo però con la scomparsa di Desirée non c'entrava assolutamente nulla. Il messaggio era stato inviato con una scheda telefonica prepagata, acquistata ad agosto in un campeggio di Jesolo. È grazie a quella scheda telefonica che i carabinieri risalirono al nome di un ragazzo di 16 anni, vicino di casa della famiglia Piovanelli, e poi ad altri due, un sedicenne e un quindicenne. Raccontarono cosa era successo: avevano attirato Desirèe Piovanelli in una cascina diroccata, chiamata Cascina Ermengarda, e lì l'avevano uccisa. Per loro quella ragazza era un'ossessione, di cui parlavano sempre e che avevano tentato invano di frequentare. Non erano però soli quel giorno. Con loro c'era un adulto, un uomo che li aveva aiutati e incitati. L'omicidio di Desirèe Piovanelli fu compiuto da quello che i media, e molti criminologi, chiamano “branco”, un gruppo di ragazzi che si esaltano a vicenda arrivando a compiere atti che, da soli, probabilmente non commetterebbero. Ed è la storia di un adulto che invece di fermare quei ragazzi assunse il ruolo di leader del gruppo. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Il 28 settembre 2002 una ragazza di 14 anni, Desirèe Piovanelli, scomparve, a Leno, in provincia di Brescia. Il giorno dopo il fratello ricevette un sms: «Non preoccupatevi per me, sono con Tony, voglio stare con lui». Tony era un ragazzo di Cremona che Desirée Piovanelli aveva conosciuto durante un raduno di Testimoni di Geova, di cui le rispettive famiglie facevano parte. Quel ragazzo però con la scomparsa di Desirée non c'entrava assolutamente nulla. Il messaggio era stato inviato con una scheda telefonica prepagata, acquistata ad agosto in un campeggio di Jesolo. È grazie a quella scheda telefonica che i carabinieri risalirono al nome di un ragazzo di 16 anni, vicino di casa della famiglia Piovanelli, e poi ad altri due, un sedicenne e un quindicenne. Raccontarono cosa era successo: avevano attirato Desirèe Piovanelli in una cascina diroccata, chiamata Cascina Ermengarda, e lì l'avevano uccisa. Per loro quella ragazza era un'ossessione, di cui parlavano sempre e che avevano tentato invano di frequentare. Non erano però soli quel giorno. Con loro c'era un adulto, un uomo che li aveva aiutati e incitati. L'omicidio di Desirèe Piovanelli fu compiuto da quello che i media, e molti criminologi, chiamano “branco”, un gruppo di ragazzi che si esaltano a vicenda arrivando a compiere atti che, da soli, probabilmente non commetterebbero. Ed è la storia di un adulto che invece di fermare quei ragazzi assunse il ruolo di leader del gruppo. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. La sera del 2 marzo 2006, alle 19.45, due uomini entrarono in una casa di Casalbaroncolo, una cascina ristrutturata e isolata alla periferia di Parma. Avevano il volto coperto ed erano armati di una pistola e di un coltello. Legarono tre persone, Paola Pellinghelli, il marito Paolo Onofri e il loro figlio di sette anni, Sebastiano. Se ne andarono portando con loro il figlio più piccolo della coppia, Tommaso, di 17 mesi. Non venne chiesto nessun riscatto, gli investigatori lo definirono da subito un sequestro anomalo. Le indagini si concentrarono molto presto su alcuni muratori che avevano effettuato i lavori di ristrutturazione della cascina. Furono però le perizie scientifiche a dare agli investigatori un elemento decisivo: sul nastro adesivo utilizzato per legare i membri della famiglia era stata lasciata un'impronta nitida. Corrispondeva a quella di un pregiudicato, Salvatore Raimondi. Intercettando il suo telefono venne scoperto un collegamento con un uomo, anch'esso pregiudicato, che aveva partecipato ai lavori nella casa degli Onofri: Mario Alessi. Raimondi, fermato e interrogato, ammise di aver partecipato al sequestro e disse che il bambino era stato ucciso dal suo complice immediatamente dopo il sequestro. Alessi addossò invece la responsabilità a Raimondi. Per il sequestro e l'omicidio furono condannati Raimondi, Alessi e Antonella Conserva, la moglie di Alessi. Non è mai stato del tutto chiarito quale fosse il reale obiettivo dei tre. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. La sera del 2 marzo 2006, alle 19.45, due uomini entrarono in una casa di Casalbaroncolo, una cascina ristrutturata e isolata alla periferia di Parma. Avevano il volto coperto ed erano armati di una pistola e di un coltello. Legarono tre persone, Paola Pellinghelli, il marito Paolo Onofri e il loro figlio di sette anni, Sebastiano. Se ne andarono portando con loro il figlio più piccolo della coppia, Tommaso, di 17 mesi. Non venne chiesto nessun riscatto, gli investigatori lo definirono da subito un sequestro anomalo. Le indagini si concentrarono molto presto su alcuni muratori che avevano effettuato i lavori di ristrutturazione della cascina. Furono però le perizie scientifiche a dare agli investigatori un elemento decisivo: sul nastro adesivo utilizzato per legare i membri della famiglia era stata lasciata un'impronta nitida. Corrispondeva a quella di un pregiudicato, Salvatore Raimondi. Intercettando il suo telefono venne scoperto un collegamento con un uomo, anch'esso pregiudicato, che aveva partecipato ai lavori nella casa degli Onofri: Mario Alessi. Raimondi, fermato e interrogato, ammise di aver partecipato al sequestro e disse che il bambino era stato ucciso dal suo complice immediatamente dopo il sequestro. Alessi addossò invece la responsabilità a Raimondi. Per il sequestro e l'omicidio furono condannati Raimondi, Alessi e Antonella Conserva, la moglie di Alessi. Non è mai stato del tutto chiarito quale fosse il reale obiettivo dei tre. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Il 23 dicembre 1984 alle 19.08 una bomba esplose sul treno Rapido 904, da Napoli a Milano mentre percorreva la Grande Galleria dell'Appennino, tra le stazioni di Vernio, in Toscana, e San Benedetto San Val di Sambro, in Emilia-Romagna. Morirono 15 persone. Un'altra persona morì mesi dopo per le lesioni riportate. I feriti furono più di 250. Quella notte i soccorsi furono molto difficili perché la bomba era stata fatta esplodere mentre il treno si trovava a metà della galleria e l'esplosione aveva fatto saltare le linee elettriche. Fu chiamata la strage di Natale. Le indagini vennero affidate alla procura di Firenze perché secondo le testimonianze la bomba era stata piazzata sul treno da un uomo salito alla stazione di Santa Maria Novella. Fu il procuratore Pier Luigi Vigna a occuparsi dell'inchiesta. Le indagini coinvolsero Cosa Nostra, la mafia siciliana, la camorra napoletana, un politico, futuro deputato della Repubblica, i servizi segreti, elementi legati alla destra eversiva. Fu una strage ideata, secondo quello che scoprì Vigna, dalla mafia con l'aiuto di vari altri gruppi criminali che si unirono per distogliere l'attenzione da indagini che in quel periodo si stavano svolgendo. A Palermo le testimonianze del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta avevano condotto la procura a chiedere centinaia di arresti. Anche a Napoli la camorra era stata colpita da indagini e arresti. E parte dei vertici dei servizi segreti erano stati coinvolti nella scoperta degli elenchi della loggia massonica Propaganda 2, la P2, guidata da Licio Gelli. L'obiettivo di chi compì quella strage era quello di riportare l'attenzione della magistratura al terrorismo distogliendo l'attenzione dalle organizzazioni criminali e dalle attività dei cosiddetti servizi segreti deviati. L'esplosivo usato per far esplodere la carrozza nove del Rapido 904, il Semtex H, fu lo stesso utilizzato otto anni dopo per uccidere, a Palermo, in via D'Amelio, Paolo Borsellino e la sua scorta. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices
Ogni due mesi c'è Altre Indagini: altre storie di Stefano Nazzi per le persone abbonate al Post. Per ascoltare Altre Indagini, abbonati al Post. Nella notte tra 13 e 14 gennaio 2012 Roberta Ragusa scomparve dalla sua casa di Gello, frazione di San Giuliano Terme, in provincia di Pisa. Il marito, Antonio Logli, disse che la mattina del 14 si era svegliato alle 6.30 e si era accorto dell'assenza della moglie. Gli abiti erano in casa, e così portafogli, soldi, carte di credito, documenti. Secondo l'uomo, Roberta Ragusa si era allontanata con indosso un pigiama rosa e le pantofole. Quella notte, nella zona, il termometro aveva sfiorato gli zero gradi. Per settimane vennero effettuate ricerche in tutta la zona con le unità cinofile, ci furono molte segnalazioni ma mai nessun riscontro. Anche molti presunti veggenti contattarono i carabinieri affermando di sapere che cosa fosse accaduto alla donna. Due mesi dopo la scomparsa della moglie, Antonio Logli venne indagato. Gli inquirenti erano convinti che non si trattasse di allontanamento volontario ma che la donna fosse stata assassinata. Il marito era sospettato per una serie di comportamenti giudicati anomali e perché aveva ingenuamente mentito in merito alla relazione che aveva con una donna da otto anni. L'ipotesi degli investigatori era che ci fosse stata una lite dopo che Roberta Ragusa aveva scoperto della relazione del marito. Fu un caso molto seguito dai media: una troupe televisiva si introdusse nella scuola dove studiava la figlia dodicenne di Ragusa e Logli per poterla filmare. Otto mesi dopo il fatto un testimone disse di aver visto quella notte Antonio Logli vicino a casa sua sul ciglio della strada e poco dopo un uomo e una donna litigare: l'uomo aveva poi spinto a forza la donna nell'auto. Non seppe però dire se si trattasse con certezza di Ragusa e Logli. Logli, di cui fu chiesto il rinvio a giudizio, fu prosciolto ma, dopo un ricorso in cassazione presentato dalla procura della repubblica di Pisa, venne condannato a vent'anni di reclusione. La sentenza venne confermata nel processo d'appello e poi dalla Corte di cassazione. Fu un processo indiziario, basato di fatto solo su una testimonianza. E fu un processo anomalo, per omicidio, senza che mai fosse stato trovato il corpo della vittima. Antonio Logli si è sempre dichiarato innocente, i suoi due figli gli hanno sempre creduto e continuano a sostenerlo. Learn more about your ad choices. Visit megaphone.fm/adchoices