Un percorso a ritroso nel tempo dentro abitazioni fatiscenti e palazzi sontuosi, per raccontare chi erano i grandi toscani del passato come Vasari, Modigliani, Michelangelo e tanti altri. Brani tratti dal libro Riscoprire le dimore illustri della Toscana
Una casa che è un po' la summa di quel che si potrebbe descrivere come memoria e celebrazione dell'immenso artista e un po' come mezzo per ammirare le ricche collezioni di arte della famiglia Buonarroti. Al primo piano la Galleria è un vero e proprio tributo pittorico al genio creatore della Cappella Sistina: qui infatti il nipote fece decorare le pareti con dipinti di artisti barocchi fra cui Artemisia Gentileschi, il Passignano, Matteo Rosselli. Nella sala detta ‘della notte e del dì', ancora un profluvio di dipinti che riempiono pareti e soffitto, oltre a ritratti del sommo artista di cui segnalo quello di Cristofano Allori e la testa bronzea opera di Daniele da Volterra. Ma è nella stanza della Madonna della Scala e battaglia dei Centauri che si respira profumo di Michelangelo: in questa stanza vi sono i due rilievi giovanili del grande artista. Continuando si passa per la sala dove sono esposti alcuni ritratti di Michelangelo, per poi giungere alla sala dei disegni di Michelangelo, tra cui una Madonna con Bambino, un Nudo di schiena e uno Studio di fortificazione. Per concludere il giro in casa Buonarroti, l'ultima sala è dedicata a quanto nell'Ottocento si fece per celebrare il sommo artista, da busti a stemmi. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Destinato col suo genio ad esercitare un influsso di vastissima portata, Michelangelo Buonarroti nasce all'alba di lunedì 6 marzo 1475 a Caprese nei pressi di Arezzo. Lo nota subito Lorenzo il Magnifico, che lo prende sotto la sua protezione e a 17 anni è già un artista affermato, ma l'orizzonte politico si oscura e lascia Firenze: comincia la vita errante dell'artista rinascimentale. Torna a Roma per servire il papa in persona, Giulio II Della Rovere, vecchio e formidabile pontefice dall'anima guerriera, di cui si diceva che avesse gettato nel Tevere le chiavi di San Pietro per tenere solo la spada di San Paolo. Il collerico Giulio II lo fa impazzire: sale sui ponteggi e lo minaccia col suo bastone infuriandosi per un lavoro che non aveva mai fine. Le ultime opere monumentali, il Giudizio Universale, la cupola di San Pietro e Piazza Campidoglio, partono nel 1534 per terminare nel 1557 ma ha quasi sessant'anni, è stanco e ossessionato da pensieri di morte. Eppure incontra la donna della sua vita, Vittoria Colonna, l'unica capace di spezzare il cerchio della sua solitudine spirituale non con un vero amore ma con una profonda amicizia. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Il tempo si è fermato all'Albergaccio, ovvero la villa dove Machiavelli scrisse l'opera che gli diede celebrità, il Principe, nel 1512 durante l'esilio causato dal ritorno dei Medici. È lui stesso che descrive questo incantevole luogo in una delle lettere che scrisse all'amico Francesco Vettori datata 10 dicembre 1513: gli descrive come passava le sue giornate qui, ovvero occupandosi delle sue proprietà che oltre alla villa comprendevano vari poderi coltivati a uliveto e vigne, divertendosi all'osteria a giocare a tric e trac con lo stesso oste e un macellaio. Ma racconta anche che la notte la passava in biblioteca a leggere e studiare i classici. Entrando nella villa si respira un'atmosfera di altri tempi, perché è arredata con austeri ed elegantissimi mobili originali dell'epoca, con oggetti che rimandano a un altro modo di vivere. Incredibili, suggestive e affascinanti sono le cantine con botti di rovere francese per il Chianti, tra volte in mattoni a vista e grate da cui si possono vedere lo splendido giardino e i campi coltivati. La villa ora è diventata un ristorante dove si possono gustare i piatti tipici della cucina toscana e dove si produce anche il Chianti.
È mercoledì 3 maggio 1469 quando a Firenze nasce, da nobile ma decaduta famiglia, Niccolò Machiavelli, fra i più importanti personaggi dell'intera letteratura italiana e non solo di quella rinascimentale. In una lettera del marzo 1498 scrive una critica serrata all'azione politica di Girolamo Savonarola, discutibile in sé ma condotta con una risolutezza di giudizio e di stile che già preannunciano il futuro scrittore. Nell'assolvere le sue missioni si trovò nei punti nevralgici della politica fiorentina, italiana ed europea del tempo. Nel forzato esilio compose le sue opere più grandi: i Discorsi sopra la Prima Deca di Tito Livio e il Principe, al quale è in gran parte affidata la sua gloria. Con questi scritti Niccolò fondava una nuova scienza autonoma, la politica, distinguendola decisamente dalla morale e dalla religiosità. Lui partiva dallo studio dell'uomo e della realtà, cercando di trarre leggi universali che regolano la vita degli stati. Nel Principe proponeva agli italiani una generosa e appassionata utopia: la fondazione di uno stato unitario che la liberasse dalle invasioni straniere, dallo strazio e dall'avvilimento presente. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
È dal 1965 che la casa dove nacque Dante Alighieri divenne un museo in quell'edificio a tre piani per volontà del comune di Firenze. Al primo piano, nella prima sala, vari cimeli e pannelli illustrativi illustrano l'Arte dei Medici e degli Speziali. La seconda stanza è dedicata alla politica, un argomento che nella vita del poeta è di fondamentale importanza, mentre nella terza sala l'argomento è l'economia che si viveva nella Firenze medievale. L'ultima sala del primo piano è dedicata alla battaglia di Campaldino, a cui Dante partecipò, combattuta tra i Ghibellini di Arezzo e i Guelfi di Firenze, esemplificata da uno straordinario diorama, e importante perché da quel giorno la Toscana divenne dominio guelfo. Al secondo piano invece troviamo la prima sala dedicata all'esilio di Dante, con libri di storia fiorentina e la riproduzione del libro detto ‘del chiodo', dove vi fu scritta la pena inflitta al poeta. Poi c'è la camera da letto, riprodotta sulla base delle camere da letto nobiliari, con i cassoni da corredo che erano un tipico mobilio medievale e nella stanza successiva si può vedere un video sulle illustrazioni della Divina Commedia realizzate da Gustav Doré. Il terzo piano, con la prima sala nella loggia molto suggestiva, presenta alcune delle edizioni originali della Divina Commedia. Editoriale Programma – Alessandra Artale
È un periodo tra maggio e giugno 1265 che Dante Alighieri, il ghibellin fuggiasco, nasce da famiglia guelfa a Firenze: di sicuro c'è la data del suo battesimo, il 27 marzo del 1266, un Sabato Santo. In giovinezza passò un'adolescenza elegante e ‘cortese', ma compì anche studi severi, manifestando fin d'allora quella passione per la cultura e la conquista della verità che rimase uno degli interessi dominanti della sua vita. Le rime più importanti di questo periodo le scrisse per Beatrice Portinari, che il poeta amò fin da piccolo e, quando la bella fanciulla morì nel 1290, iniziò per Dante un periodo di angoscia profonda e di crisi spirituale. Questo non gli impedì, nel 1285 di sposare Gemma Donati, dopo che il matrimonio fu concordato quando Dante aveva appena dodici anni. Non fu un'unione felice, nonostante i quattro figli nati, e lui non scrisse mai neanche un verso dedicato alla moglie, così come lei non fu al suo fianco durante l'esilio di lui. È il 1292 quando inizia a scrivere la Vita Nova, opera composta di prosa e poesia in una specie di viaggio a ritroso nella sua vita, da quando incontra Beatrice a nove anni, fino a quando la rivede anni dopo. Fra loro non ci sarà altro che un “dolcissimo saluto”. Intanto continua a scrivere il suo capolavoro, la Divina Commedia, iniziato nel 1300, l'opera più grande della letteratura universale. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
L'amore per la sua città Malaparte lo visse per tutta la vita e lo rese immortale nel libro uscito nel 1956, Maledetti toscani, e i luoghi simbolo della vita di Malaparte sono spalmati per tutta la città di Prato. Dalla casa dove nacque si vede lo Spazzavento, in un rincorrersi di vita e morte alquanto suggestivo. E vediamo piazza Duomo, che lo stesso poeta descrive come “la più ariosa e chiara, forse di tutta la Toscana”. Qui fu protagonista di un celebre episodio accaduto quando si inaugurò la statua a Gaetano Magnolfi, personaggio illustre di Prato, benefattore e filantropo che cambiò il volto della città con numerose opere di beneficenza, tra cui l'ospizio, l'asilo e un orfanotrofio tecnologico dove i ragazzi potevano imparare un mestiere. A Curzio non piacque per nulla e scrisse un articolo per invitare i suoi concittadini a buttarla giù, dopo che lui l'aveva già legata con pesanti funi. Incontrò per strada lo scultore che l'aveva realizzata, Oreste Chilleri, che lo voleva prendere a bastonate, ma Curzio scappò. Per arrivare infine al suo mausoleo, in cima allo Spaccavento. Fu lui stesso a voler essere sepolto qui: “… e vorrei avere la tomba lassù, in vetta allo Spazzavento, per sollevare il capo ogni tanto e sputare nella fredda gora del tramontano”. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Narciso, istrione, egocentrico, emblematico, cinico, voltagabbana: molti sono gli epiteti con cui è stato definito Curzio Malaparte, scrittore, giornalista, poeta, soldato, ma soprattutto era un pratese, anche se girò tanto per l'Italia. “Io son di Prato, m'accontento d'essere di Prato, e se non fossi nato pratese vorrei non essere venuto al mondo. E dico questo non perché son pratese, e voglia lisciar la bazza ai miei pratesi, ma perché penso che il solo difetto dei toscani sia quello di non essere tutti pratesi”: eccola la sua dichiarazione di amore incondizionato per la città natale. Fascista prima e comunista dopo, Malaparte era anche un adorabile tombeur de femmes, amato e adorato dalle donne che per lui arrivavano anche al suicidio. Ma fu anche spesso in carcere per le sue idee politiche, perché, contrariamente dalle donne, dagli uomini era odiato più della peste. Nasce a Prato in via Magnolfi 56, con il vero nome di Kurt Erich Suckert il 9 giugno del 1898. Cambierà il suo cognome nel 1925 dopo aver letto un libretto in cui si parlava dei Bonaparte che, secondo l'autore di quel libello, nel Medio Evo si sarebbero chiamati Malaparte e che cambiarono cognome solo per concessione papale. Curzio in una famosa battuta disse a Benito Mussolini: “Ho scelto Malaparte perché Bonaparte è finito male, a me invece andrà certamente meglio”. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
È Giorgio Vasari stesso che scrive della casa da lui acquistata nel 1541 “principiata in Arezzo, con un sito per fare orti bellissimi nel borgo di San Vito, nella migliore aria della città”. E la casa è risultata poi essere un vero gioiello, da lui affrescata in tutte le stanze e successivamente dotata di ulteriori quadri, oltre a quelli che lui collezionò per tutta la vita, per rendere meglio l'idea del contesto artistico e culturale in cui visse. Quella del Vasari è una di quelle dimore dove si sente in ogni stanza lo spirito dell'uomo e dell'artista, dove ti immagini davvero di incontrarlo mentre sbuca da una porta o esce da una stanza. È il miracolo dell'arte. Un luogo veramente magico con la bellezza che spunta da ogni muro, da ogni quadro, da ogni porta e da ogni stanza. Inoltre, la casa, dal 1911 proprietà dello Stato italiano, è la sede dell'Archivio Vasariano, altro scrigno di cultura e di arte, di importanza fondamentale per lo studio e la ricerca sul Cinquecento e sul Rinascimento. Nell'archivio si trovano documenti di grande valore storico, dai ricordi dello stesso Vasari agli appunti relativi ai suoi lavori, dai documenti amministrativi relativi alla casa alla sua corrispondenza con personaggi illustri, tra cui da segnalare le diciassette lettere autografe di Michelangelo indirizzate ‘al caro amico Giorgio Vasari'. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Il primo, il più importante e più celebre storico dell'arte italiana nacque ad Arezzo il 30 luglio. Nella sua città conobbe il pittore detto Rosso Fiorentino. Poi va a Firenze, dove conosce Michelangelo, che influenzò tutta la sua vita. Ma l'opera più importante della sua esistenza è certamente la pubblicazione del suo capolavoro letterario: Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architetti. Con le sue Vite Vasari inventa la storia dell'arte e i suoi volumi sono ancora oggi l'unica fonte attendibile per le notizie biografiche dei vari artisti, che lui, meticoloso fino all'eccesso, affronta con dovizia di particolari e il suo giudizio è stato sempre tenuto in grande considerazione dagli storici dell'arte moderni, anche dai più grandi e importanti. Vasari divide la storia dell'arte in tre periodi, passando per i vari pittori da Cimabue a Michelangelo, dall'abbandono del Medioevo all'ingresso nell'età moderna tramite il recupero dell'antico sino ad arrivare alla piena maturità dell'arte con Michelangelo, da lui considerato un vertice insuperabile, tanto che dopo di lui, afferma Vasari, non si potrà creare nulla di veramente nuovo. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
A Monterchi, a pochi chilometri da Sansepolcro, è visitabile questo piccolo museo che conserva una delle opere più importanti di Piero: l'affresco con la Madonna del Parto. È un affresco carico di storia, anche incredibile per certi aspetti. Realizzato fra il 1450 e il 1465 per la chiesa di Santa Maria di Momentana o in Silvis, è tradizionalmente legato alla visita che Piero fece in quel borgo che aveva visto nascere sua madre. Lo dipinse sopra un affresco trecentesco di autore ignoto, che recentemente si è scoperto rappresentasse la Madonna del latte, sulla parete di fondo di una cappella, che nel 1785 fu inglobata nel nuovo cimitero cittadino. Staccato dalla parete originaria, è ora qui esposto. Anche questo dipinto, uno dei momenti più alti della pittura italiana, è ricco di misteri come tante altre opere del grande artista. Misteri che partono dalla scelta del luogo ove fu affrescato, che probabilmente nell'antichità era destinato ai riti legati alla fecondità, e per la committenza ancora oggi sconosciuta. Un'immagine diversa da tutte le altre della Madonna, che si può ben definire unica nel suo genere, certamente nata dalla creatività dello stesso pittore. La Madonna è rappresentata in stato di gravidanza, con indosso il classico abito azzurro da cui si apre una fessura che lascia intravedere l'abito bianco sottostante, simbolo di purezza. Lei accarezza il piccolo dentro di sé, come se volesse ostentare il miracolo della nascita di Cristo. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Il più importante, geniale, colto e creativo artista del Quattrocento italiano nacque a Sansepolcro il 12 settembre presumibilmente nel 1416, dal calzolaio e conciapelli Benedetto de' Franceschi e dalla nobildonna Romagna di Perino da Monterchi, ma già ai suoi tempi era denominato ‘della Francesca'. L'ambiente fiorentino determina la sua personalità, attraendolo con la fiabesca cromia degli ultimi gotici, con la gentile e stupefatta illuminazione del Beato Angelico e con la nuova scienza prospettica propugnata da Filippo Brunelleschi e resa sostanza pittorica vitale da Masaccio. Questi impulsi trovano in Piero immediata fusione, che lui esprime subito con singolare sicurezza. Il suo è un mondo nel quale ogni immagine si inserisce nello spazio secondo il calcolo più rigoroso, come nel Battesimo di Cristo, San Sigismondo e il Malatesta, la Flagellazione di Cristo, la Madonna della Misericordia. Con il concorso della luce cattura persone e paesi in un estatico, imperturbabile nitore apparentemente senza emozioni, come nel Sogno di Costantino, nella Madonna del parto e nella Madonna di Senigallia. Gli ultimi anni della sua vita furono resi amari dalla perdita della vista. Piero muore a Sansepolcro il 12 ottobre 1492, il giorno della scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo, e lì fu sepolto nella cappella di San Leonardo nella Basilica di San Giovanni Evangelista. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Il palazzo dove presumibilmente nacque e visse Pia è proprio nel cuore della vita politica di Siena e fa parte della contrada della Civetta, definita il ‘nido dei nobili'. L'edificio, su cui è infissa una lastra marmorea con i versi danteschi che parlano di Pia, è rimasto praticamente uguale a come era quando fu costruito. La facciata è in pietra grigia e ruvida e i due piani molto distanziati fra loro divisi da un cordolo e due file di bifore francesizzanti sormontate da archetti acuti affascinarono John Ruskin durante il suo soggiorno a Siena. Il messaggio di ricchezza e potere lo si deve ai leoni alla porta che reggono i globi, sotto lo stemma nobiliare della famiglia. Lo scrittore francese André Suarès nel 1929 scriveva così del palazzo: “Il Palazzo Tolomei è unico. Niente è bello come il suo portamento snello e il suo slancio selvaggio. Più che l'orgoglio, la distanza e la solitudine gli riempiono i polmoni… Ha un solo piano, tra una base enorme e un cornicione che vola. È l'unico di questa tipologia, a Siena e in tutta Italia… E tutto il resto, fino al bordo sporgente del primo piano, è un muro spoglio, d'un vuoto grandioso e d'una sublime solitudine”. Fu restaurato nel 1971 dalla Cassa di Risparmio di Firenze che ne ha fatto la sua sede senese. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Al di là delle notizie storiche che giungendo da così tanti secoli fa non hanno in sé molte verità, la storia di Pia de' Tolomei rimarrà per sempre immortale nei brevissimi versi che Dante le dedicò: “Ricordati di me, che son la Pia, Siena mi fé, disfecemi Maremma: salsi colui che ‘nnanellata pria disposando m'avea con la sua gemma”. Pia si rivolge a Dante nel V canto del Purgatorio dall'Antipurgatorio, dove il poeta mette i morti per forza e i peccatori fino all'ultima ora, e dalle sue parole emergono raffinatezza e delicatezza, tanto che la poverina non porta rancore al marito che causò la sua morte ma vuole solo che ci si ricordi di lei per avere preghiere. Se non fosse una vicenda medievale, sembrerebbe una notizia di cronaca nera dei giorni nostri. Pia apparteneva alla prestigiosa e nobile casata dei Tolomei di Siena e suo marito, Nello d'Inghiramo dei Pannocchieschi, era signore di un'importante famiglia maremmana, podestà di Volterra e Lucca e capitano della Taglia guelfa nel 1284. Costui, sembra questa la versione più aderente alla realtà, la fece prima segregare e poi la fece scaraventare giù, o forse la scaraventò lui stesso, da un balcone del castello della Pietra in Maremma, a Gavorrano, per sbarazzarsi così della moglie e convolare nuovamente a nozze con un'altra donna, Margherita, che faceva parte della potentissima famiglia degli Aldobrandeschi. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
La villa è conosciuta come ‘il rifugio di Venere' e mai nome fu più adatto, perché Paolina era davvero come Venere, al di là dell'immortale e marmoreo ritratto che le fece Canova: lei amava l'amore, sotto ogni punto di vista. I lavori edili terminarono nel 1822 e qui Paolina visse gli ultimi anni della sua vita, fra il tormento e l'estasi con il suo nuovo amore, il musicista Giovanni Pacini, che abitava proprio a Viareggio. Nata per diventare un vero e proprio salotto mondano ma anche un ‘amabile ritiro', secondo le parole della stessa Paolina, la villa ha un'architettura piuttosto semplice, armonizzata nel paesaggio, fra la pineta e il mare. Nella villa Paolina volle e riuscì a portare tutta l'eleganza di una dimora parigina, con il lusso neoclassico che rende ogni ambiente raffinato e charmant. Parati di seta e veli leggeri si illuminano con il bagliore delle candele: così Paolina crea lo spazio perfetto per l'ultimo suo amore. Stanze magiche che hanno lo stesso fil rouge: la ricerca costante della bellezza, che era la caratteristica principale di Paolina, un narcisismo a volte esagerato che la aiutò nelle varie vicende della sua vita, da quando era una piccola isolana nata in Corsica fino ad essere una principessa di cui parlava tutta Europa. E non mancano stanze con affreschi di scene tratte dall'Orlando furioso, con Angelica e Medoro che si abbracciano nel pieno del loro amore. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
L'amatissima sorella minore di Napoleone, nasce ad Ajaccio il 20 ottobre 1780. Fin dalla più tenera età è bellissima e altrettanto viziata e già durante l'infanzia si scorge il suo carattere forte. È tra il 1805 e il 1808, quando Paolina aveva 25 anni, che Antonio Canova la ritrae nelle vesti di Venere. Una scultura in marmo bianco che troneggia ancora a villa Borghese a Roma e che suscitò non poco scandalo, visto che lei è nuda, tanto che il marito Camillo fece sì che la statua fosse riposta in una stanza non visibile agli ospiti in modo che nessuno potesse più ammirarla. Con lo scandalo nasce anche il mito di Paolina, che lei non fece altro che aumentare anche per la risposta che diede quando le chiesero come era stato posare senza nulla addosso davanti a Canova: ‘tutto bene, l'ambiente era riscaldato'. Dopo lunghe trattative con il Vaticano, come si legge nei documenti dell'archivio pietrino, si separa dal principe Borghese, ma rimane a villa Sciarra vicino a Porta Pia, anche se passa molto tempo in Versilia, dove vive la sua storia d'amore con il musicista Giovani Pacini nella villa di Viareggio. Sono anni tormentati. Lei scrive al suo giovane amante infinite lettere e lui, spesso, non le risponde neppure. Sfinita, Paolina cerca di riavvicinarsi al suo ex marito. E lui, che ancora l'amava nonostante vivesse con un'altra donna, riprende in casa, non a Roma ma a palazzo Salviati a Firenze, il fantasma di quella che era stata la donna più bella e ammirata d'Europa. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Fu il successo ottenuto con Manon Lescaut che segnò la svolta nella vita di Puccini. Da quel momento infatti la fortuna e la floridezza economica gli permisero di fare praticamente ciò che voleva, come comprare questa villa nel 1899. Lui abitava già a Torre del Lago, in una modesta casa affittata dal conte Grottanelli, fino a che si trasferì qui nel 1900 per starci fino al 1922, quando lasciò la villa perché infastidito dalla costruzione di un impianto per l'estrazione della torba e andò ad abitare a Orbetello in una vecchia torre di avvistamento. Gli costò l'astronomica somma di 35.000 lire ma lui era felice e poco dopo acquistò da Lancia anche una Trikappa e una Lambda. Molti gli aneddoti e le curiosità sulle sue automobili: dalla Trikappa, prima vettura di serie di lusso con un motore a 8 cilindri che raggiungeva i 130 chilometri all'ora con cui organizzò un viaggio attraverso l'Europa con gli amici, alla Lambda, un mostro di tecnologia fornito di ammortizzatori idraulici, sospensioni anteriori indipendenti, freni sulle quattro ruote e vano portabagagli. Torre del Lago gli era nel cuore, tanto da fargli dire di essere “affetto da torrelaghite acuta”. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
È in questa casa lucchese che Giacomo Puccini nasce il 22 dicembre del 1858, sesto di nove figli. A Lucca i Puccini, per cinque generazioni, sono stati presenti nell'attività musicale e il padre, morto quando Giacomo aveva appena cinque anni, era organista e maestro del coro nel Duomo. Va da sé che la sua vita era già segnata ancor prima di nascere. Puccini lascia Lucca e dal 1880 al 1883 studia al Conservatorio di Milano. In quegli anni partecipa alla vita di bohème milanese, tardo riflesso della Scapigliatura, un movimento di intellettuali. La Bohème, la cui prima fu sempre al Regio nel 1896, la sua opera più famosa, racconta di una vicenda che può ben riferirsi alla Milano della Scapigliatura, degli studenti squattrinati e delle dissipazioni sentimentali con sartine e fioraie, che Puccini aveva personalmente conosciuto. L'opera, di cui l'aria più famosa è Che gelida manina, consacrò il nome di Puccini sul piano internazionale e gli procurò una solida ricchezza. Entrare dentro la sua dimora, è come entrare dentro la vita stessa di Puccini, tra i suoi affetti e le sue passioni. Per capire poi che tipo d'uomo fosse Giacomo, basta guardare gli eleganti abiti che si ritrovano nel suo spogliatoio, da un cappotto in cashmere a una sciarpa in seta. Già, perché Puccini oltre a comporre straordinaria musica, era anche un latin lover, così almeno lui stesso si definiva: “Un potente cacciatore di uccelli selvatici, libretti d'opera e belle donne”. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Qui Giuseppe Mazzini visse l'ultimo periodo della sua vita, nel palazzo Nathan-Rosselli, ospite della signora Janet Natham, moglie di un ricco banchiere ebreo che gli diede ospitalità in tutti i suoi palazzi quando era in esilio. E anche in questa casa, che era in via della Maddalena e oggi via Mazzini, visse sotto il falso nome di un commerciante inglese, Giorgio Brown. Tra le chicche della biblioteca, la collezione completa del giornale Giovine Italia. Inoltre, l'archivio mazziniano conserva oltre a tutte le opere dello statista rivoluzionario, anche i suoi manoscritti e circa 90.000 fra lettere e documenti originali con il carteggio fra Mazzini e personaggi illustri della sua epoca come Friedrich Nietzsche, John Stuart Mill o Charles Dickens che finanziò la scuola mazziniana di Londra. Tra gli oggetti più significativi che si trovano nel suggestivo palazzo il suo zibaldone (ossia il diario quotidiano), la minuscola rubrica con gli indirizzi di patrioti e patriote veneti e siciliani che guai se l'avesse scoperta la polizia. La maschera funeraria in gesso dimostra che la sofferenza degli ultimi tempi fosse davvero terribile e insopportabile e sembra paradossale che il medico che lo visitava quotidianamente non fosse a conoscenza della sua identità. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Apostolo del Risorgimento italiano, Giuseppe Mazzini nacque a Genova il 22 giugno del 1805, crescendo in un ambiente familiare influenzato da orientamenti giansenisti e democratici. Arrestato nel 1830 per la sua attività cospirativa, fu portato nella fortezza di Savona e al processo fu assolto per insufficienza di prove ma scelse l'esilio e così partì per Ginevra e Marsiglia, dove rimase in casa di Giuditta Bellerio, vedova di Giovanni Sidoli, un altro carbonaro, che sarà l'unica donna veramente amata da Mazzini. Istituì la Giovine Italia, con un programma unitario e repubblicano fondato su una concezione religiosa della libertà, fondando anche il giornale politico omonimo insieme alla sua Giuditta. Svolse attività di propaganda tra i lavoratori in nome di un associazionismo mistico e unitario, assai lontano dal socialismo marxista. Nel 1870 tentò una sollevazione repubblicana in Sicilia ma, scoperto, fu arrestato mentre stava per sbarcare a Palermo e rinchiuso a Gaeta. Liberato per amnistia, trascorse i suoi ultimi anni a Pisa in casa di un antenato dei fratelli Rosselli, sotto il falso nome del dottor Giorgio Brown. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Eccola la sua dimora, dove nacque il piccolo Amedeo, detto anche Dedo, il soprannome con cui lo chiamavano in famiglia da bambino. Già il parto sembrava annunciare le maledizioni che la vita gli avrebbe riservato: infatti, proprio in quel 12 luglio, mentre la madre Eugenia Garsin, che faceva parte della borghesia ebraica molto presente a Livorno, ha le doglie, giunge un ufficiale giudiziario per il pignoramento degli averi di famiglia ma, secondo una legge dell'epoca, il letto di chi stava per partorire era in qualche modo sacro e non si poteva toccare nulla di quel che vi stava sopra. Così, ci gettano sopra tutto quel che si poteva farci stare al fine di salvarlo dal pignoramento. Inizia così, in una giornata frenetica e terribile, la vita di Amedeo. Già negli anni in cui qui viveva Modigliani, la casa era un salotto culturale poiché la madre vi aveva organizzato una scuola di cultura generale, frequentata dai rampolli della borghesia livornese. E ora la casa di Amedeo è diventata un archivio con i documenti relativi alla vita della famiglia Modigliani e anche un museo, con il salone centrale destinato a ospitare i lavori di artisti contemporanei come Mimmo Rotella, Enrico Baj, Pietro Cascella e altri. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Nell'assonanza fonetica con il soprannome francese di Modì, Amedeo Modigliani incarna la figura dell'artista maudit, maledetto, costantemente alla ricerca di una irraggiungibile forma espressiva soddisfacente. Figlio di un toscano di origini ebree e di una francese, nacque a Livorno il 12 luglio 1894 e dopo una formazione nelle accademie di Firenze e Venezia, avvolto dai fumi di droghe e alcol, nel 1906 si trasferisce a Montparnasse a Parigi, dove capisce subito che tutta l'arte moderna nasce da Cèzanne, ma nei suoi confronti ha un limite idealistico: per Modì alla chiara intelligenza della verità non si giunge con l'intelletto ma col sentimento. Nei personaggi di Modì l'aplombe non è perfetto: pencolano un po' a destra o un po' a sinistra, eppure la loro caratterizzazione è viva, inequivocabile. Portato per natura a non legarsi a correnti o avanguardie, non fa scuola: resterà sempre un grande isolato. Muore a Parigi il 24 gennaio 1920, a soli trentasei anni, seguito il giorno dopo dalla moglie Jeanne che, disperata, si lancia dal terzo piano di casa. Modì e Jeanne sono sepolti nel cimitero monumentale parigino del Père-Lachaise. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Andiamo a visitare il museo a lui dedicato ospitato all'ingresso del parco di Villa Maria, una bella costruzione ottocentesca che custodisce autografi, spartiti, foto e oggetti appartenuti al maestro donati dai suoi eredi. Si potranno capire le passioni del maestro, oltre alla musica ovviamente. Mascagni amava vestirsi elegantemente e faceva, come si direbbe oggi, ‘tendenza', tanto che il suo look era copiato da molti, in special modo il suo vezzo di non farsi crescere né barba né baffi. Al di là dell'immagine che dava di sé, Pietro amava giocare a biliardo – e nelle sue abitazioni non mancava mai il tavolo verde – in particolar modo con la figlia, con cui giocava quotidianamente. Non solo. Era famoso per la sua passione per lo scopone e per il non trovare un compagno degno di lui, neanche l'amata figlia. Tanto che la poverina raccontò che un giorno, accusata di aver giocato un due invece che un tre, il padre le gridò che ‘non era degna di essere sua figlia'. E ancora l'amore per i sigari, toscani chiaramente, che si vedono sia nei ritratti sia nelle fotografie, e il collezionismo, quasi maniacale, che oscillava tra le penne e i cerini, tra bacchette da direttore d'orchestra e assegni, tra bocchini per sigarette e cravatte, tra bastoni da passeggio e strumenti musicali, e ancora lettere dal contenuto o dagli indirizzi bizzarri. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
È l'alba del 7 dicembre 1863 quando Pietro Mascagni viene al mondo in una casa di Piazza delle Erbe a Livorno, oggi Piazza Cavallotti, che, demolita, ha lasciato spazio a un altro edificio dove però una lapide marmorea ricorda il gran giorno della nascita. Il 17 maggio 1890 al teatro Costanzi di Roma arriva il grande successo con Cavalleria rusticana. Impossibile non ricordare l'urlo della popolana che chiude l'opera gridando “hanno ammazzato compare Turiddu!” o poco prima il brindisi che annuncia la catastrofe “Viva il vino spumeggiante | nel bicchiere scintillante | come il riso dell'amante | mito infonde il giubilo!”. La nascita di questo atto unico è piuttosto curiosa: nel 1888 l'editore Sonzogno istituì un concorso aperto a tutti i giovani compositori italiani che non erano ancora abbastanza noti per far rappresentare una loro opera. Mascagni, venuto a conoscenza di questo concorso a due mesi dalla chiusura delle iscrizioni, chiese al suo amico Giovanni Targioni-Tozzetti di scrivere il libretto. Lui e il suo collega Guido Menasci scelsero come base la novella omonima di Giovanni Verga. L'aspetto particolare di questa vicenda è che i due lavorarono all'opera con Mascagni quasi esclusivamente per corrispondenza. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
È un piccolo museo in cui si respira davvero l'aria della poesia, quella che piaceva a Giosuè, intimamente legata alla natura. Odori, suoni, animali, alberi e fiori, contadini e casolari ritornano prepotentemente nei pannelli dedicati ai momenti importanti e alle sue poesie più celebri. Un pannello divertente è quello delle caricature che i vignettisti satirici gli fecero polemizzando sui cambiamenti di idee politiche durante il corso della vita e ironizzando sulla sua passione per la buona cucina. E poi, ecco il Carducci romantico, ovvero le lettere di alcune delle amanti del poeta che certamente non era un tipo proprio fedele. Una è la dichiarazione d'amore scrittagli da Carolina Cristofori Piva, milanese detta Lina, con cui si incontrò a un caffè a Bologna nel 1872 per rimanere legato a lei dieci anni. La moglie scoprì la tresca perché lui inavvertitamente lasciò sulla sua scrivania le lettere d'amore di Lina, che morirà di tisi nel 1880 e sulla quale Carducci vegliò tutta la notte insieme al di lei marito. L'altra avventura galante di Carducci è raccontata dalle lettere di Annie Vivanti, poetessa mezza londinese, che durò solo alcuni mesi, nell'arco del 1890. Lei aveva vent'anni, lui cinquantacinque. Amavano andare a cavallo insieme e lui le regalò anche un puledro. L'ultima volta che si videro fu nel 1903. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale
Era la sera del 27 luglio del 1835 quando il piccolo Giosuè nacque a Valdicastello, in Versilia, a poca distanza da Castagneto, dove rimase solo per pochi anni. Il padre Michele, medico condotto, il 25 ottobre del 1838 si deve stabilire a Bolgheri, in Maremma, poiché perseguitato per le sue idee liberali e carbonare. È qui che Giosuè visse l'infanzia e la prima adolescenza solitaria, in un intimo contatto con una natura deserta e scabra e tuttavia vigorosa. Sentiva nel paesaggio muto, riaffiorare la memoria delle antiche civiltà, che riviveva fondendole con l'indefinito sognare dell'adolescenza. Sono gli anni in cui matura il suo sentimento della vita: un istintivo amore e desiderio di comunione con la natura, che nel contempo reca in sé il senso della morte. E già fin d'allora Giosuè cercava di superare questo contrasto con l'ideale di un'esistenza magnanima, animata dall'amore della patria, della libertà e della giustizia: un ideale che si era formato ascoltando la voce dei suoi poeti, Alfieri soprattutto, e Foscolo. Anche se giovanissimo, il ragazzo prometteva bene. Nel 1860, Terenzio Mamiani, ministro della Pubblica Istruzione, lo nominò professore di letteratura italiana all'Università di Bologna, e in questa città, amata come una seconda patria, Carducci visse fino alla morte, qui pubblicò le sue poesie migliori e i suoi più importanti scritti critici e compì le sue fondamentali esperienze politiche e culturali. ©Editoriale Programma – Alessandra Artale