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Ne avevamo scritto qualche giorno fa: che ci fa il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri in Commissione antimafia? Fa il Gasparri, ovviamente. Così ha preso carta e penna per scrivere al ministro alla Giustizia Carlo Nordio un atto di sindacato ispettivo con cui chiede di punire il magistrato Nino Di Matteo, colpevole di avere risposto all'intervista del giornalista e scrittore Saverio Lodato nel libro “Il colpo di spugna” commentando la sentenza della Cassazione sul processo trattativa Stato-mafia, sollevando le criticità e illogicità presenti nelle motivazioni con cui i supremi giudici hanno assolto tutti gli imputati del processo. Gasparri ha scritto al Guardasigilli per sapere “quali iniziative intenda assumere per verificare l'eventuale sussistenza di responsabilità disciplinari e a tutela della magistratura, della Corte di cassazione e dei suoi componenti” e per “verificare l'eventuale sussistenza di reati derivanti dalle esternazioni contenute nel citato libro”. L'ex ministro di Berlusconi, citando nella sua interrogazione svariati passaggi del libro, riportando poi la sua interpretazione, arriva a ritenere che il magistrato è autore di “gravi affermazioni e pericolose insinuazioni lesive del prestigio della suprema Corte di cassazione”. È il modello di giustizia che sogna certa destra dove i dubbi e le opinioni dei magistrati sono sempre diffamatorie. Eppure se un magistrato dovesse trattenersi dall'avanzare accuse in giro, pensateci bene, non ci sarebbe nemmeno un magistrato. Come sognano i vari Gasparri, quelli che disconoscono la sentenza di condanna di Dell'Utri ma pasteggiano sulla manipolazione delle sentenze che gli tornano utili. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.
A cura di Daniele Biacchessi Non utilizza mezzi termini Nino Di Matteo per 30 anni in trincea antimafia e in procinto di tornare alla Direzione nazionale antimafia dopo l'esperienza al Csm, Il magistrato sostiene che centinaia di mafiosi, tra cui i fratelli Graviano, Madonia, Bagarella coltivano ancora la speranza di potere uscire dal carcere. Morti Riina, Provenzano, finita la corsa di Matteo Messina Denaro, quella generazione di criminali tra i 55 e i 65 anni rappresenta il gruppo di arrestati nel periodo immediatamente successivo alle stragi quando le indagini hanno potuto contare sulla grande spinta delle collaborazioni e importantissimi processi hanno portato a centinaia di ergastoli. Moltissimi di loro hanno trascorso in cella più o meno 30 anni e dunque potrebbero godere di alcuni benefici.Questi irriducibili non si rassegnano all'idea di morire in carcere. Ha ragione Di Matteo, perché le tensioni nella maggioranza e più in generale nelle istituzioni si concentrano proprio sull'ergastolo ostativo che resta da sempre il centro dei rapporti tra mafia e Stato, come confermano le carte giudiziarie. Del resto, Cosa nostra non ha mai smesso quella che è una sua peculiarità: cioè quella di cercare di condizionare l'attività legislativa e politica. E lo Stato in passato ha dato la sensazione di avere accettato il piano dell'interlocuzione. Diciamo che oggi sarebbe molto importante evitare anche solo di dare l'impressione di essere disponibili a trattare quello che è e deve rimanere esclusivo del potere legislativo e politico. Un segnale di debolezza da parte dello Stato sarebbe interpretato dai mafiosi in carcere come una disponibilità a riprendere la trattativa che, come afferma Salvatore Baiardo, l'uomo che ha coperto la latitanza ai fratelli Graviano, non è mai finita.
A cura di Daniele Biacchessi Non utilizza mezzi termini Nino Di Matteo per 30 anni in trincea antimafia e in procinto di tornare alla Direzione nazionale antimafia dopo l'esperienza al Csm, Il magistrato sostiene che centinaia di mafiosi, tra cui i fratelli Graviano, Madonia, Bagarella coltivano ancora la speranza di potere uscire dal carcere. Morti Riina, Provenzano, finita la corsa di Matteo Messina Denaro, quella generazione di criminali tra i 55 e i 65 anni rappresenta il gruppo di arrestati nel periodo immediatamente successivo alle stragi quando le indagini hanno potuto contare sulla grande spinta delle collaborazioni e importantissimi processi hanno portato a centinaia di ergastoli. Moltissimi di loro hanno trascorso in cella più o meno 30 anni e dunque potrebbero godere di alcuni benefici.Questi irriducibili non si rassegnano all'idea di morire in carcere. Ha ragione Di Matteo, perché le tensioni nella maggioranza e più in generale nelle istituzioni si concentrano proprio sull'ergastolo ostativo che resta da sempre il centro dei rapporti tra mafia e Stato, come confermano le carte giudiziarie. Del resto, Cosa nostra non ha mai smesso quella che è una sua peculiarità: cioè quella di cercare di condizionare l'attività legislativa e politica. E lo Stato in passato ha dato la sensazione di avere accettato il piano dell'interlocuzione. Diciamo che oggi sarebbe molto importante evitare anche solo di dare l'impressione di essere disponibili a trattare quello che è e deve rimanere esclusivo del potere legislativo e politico. Un segnale di debolezza da parte dello Stato sarebbe interpretato dai mafiosi in carcere come una disponibilità a riprendere la trattativa che, come afferma Salvatore Baiardo, l'uomo che ha coperto la latitanza ai fratelli Graviano, non è mai finita.
Vi proponiamo l'ascolto dell'intervista di Corrado Formigli al Dott. Nino Di Matteo sui diversi temi che riguardano la giustizia italiana e la debolezza della magistratura dopo il caso "Palamara": "C'è una parte del potere politico che vuole approfittare di questo momento di debolezza della magistratura per avviare un regolamento di conti contro quella parte della magistratura che si è dimostrata volenterosa di controllare l'esercizio del potere ed applicare il principio per cui la legge è uguale per tutti"
Vi proponiamo l'ascolto dell'intervista al magistrato Nino Di Matteo su quanto stia accadendo all'interno della Magistratura dopo la pubblicazione dei verbali dell'avv Amara: “Piero Amara non l’ho mai conosciuto, ne avevo sentito parlare soltanto dalle cronache. Io ho pensato subito a un tentativo di condizionamento dell’attività del dottor Ardita al Csm […] Il 18 febbraio ricevuto un plico con parte del verbale di Amara sulla presunta loggia Ungheria. Mi è subito risultato chiaro che l’accusa contro Ardita era falsa, una bufala. I dettagli su di lui, contenuti nel verbale, sono facilmente smentibili […] Noi facciamo i magistrati e dobbiamo essere i primi a rispettare le regole. Io ho sempre formalizzato, ho sempre scritto. Quello che mi fa specie è che non sia stata formalizzata la circolazione dei verbali […] Morra è venuto al Csm solo per parlare di questioni relative alla legislazione antimafia. Davigo l’ho conosciuto quando sono stato eletto […] Da tutti i processi emerge un dato: è sempre più probabile che insieme a Cosa Nostra abbiano partecipato alla campagna stragista tra il 92 e il 94 anche elementi esterni a Cosa Nostra. Sia nella ideazione che nella realizzazione. Il lavoro che è stato fatto non è inutile: sono state acquisite verità parziali ma importanti. Ora servirebbe lo sforzo di tutti per colmare le lacune […] In questo momento di grande difficoltà della magistratura ci può essere una parte della politica e del potere in generale, trasversale ai vari schieramenti, che può anche tentare di approfittare del momento per regolare i conti e fare delle riforme, magari spacciate come riforme che possono accelerare l'andamento dei processi o garantire un maggiore controllo sulla omogeneità dell'esercizio dell'azione penale, ma che in realtà vogliono rendere il pm collaterale e servente rispetto al potere politico".
«Dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ancora mi aspetto una presa di distanze da quelle parole di Filippo Graviano, intercettate dal Gom. Mentre a me e al magistrato Nino Di Matteo dava dei rompiscatole, lo lodava dicendo: “Fa il suo lavoro”. E siccome non parliamo di un criminale qualsiasi ma dello stratega politico della mafia le sue parole hanno un peso ben preciso. Quindi non basta fare telefonate private di circostanza. Bisogna prendere una posizione pubblica. Ancora la aspetto». Lo ha detto il conduttore della trasmissione "Non è l'Arena", Massimo Giletti, in un'intervista al "Corriere della Sera". Giletti, che da due settimane è sotto scorta per le minacce a lui indirizzate dal boss Filippo Graviano, ha detto di essere rimasto deluso anche da Marco Travaglio, il quale ha definito "Non è l'Arena" «un covo di mitomani». «E siccome ho avuto ospiti come Catello Maresca, Di Matteo, Sebastiano Ardita, Luigi de Magistris, Antonio Ingroia e Sandra Amurri, mi sconforta. Proprio perché Il Fatto Quotidiano è il giornale simbolo dell’Antimafia», ha osservato Giletti.
Resta viva la polemica sulla scarcerazione per l'emergenza covid tra gli altri di 376 tra mafiosi e trafficanti di droga. Innescata dalle dichiarazioni dell'ex pm Nino Di Matteo, ora al Csm, il ministro Bonafede ha annunciato, per le mutate condizioni sanitarie, il rientro a breve in carcere dei detenuti sottoposti al regime del 41 bis. Ne parliamo con Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia.Ospite della seconda parte, il ministro per gli affari regionali e le autonomie Francesco Boccia. Rapporti con le Regioni, deroghe alla Fase 2 e l'attualità politica i temi in primo piano. Per la parte sanitaria il punto sui contagi e sulle misure efficaci di prevenzione e controllo dell'infezione con Pierluigi Lopalco, ordinario di Igiene all'Università di Pisa e responsabile del coordinamento regionale emergenze epidemiologiche dell'Agenzia regionale strategica per la salute e il sociale della Regione Puglia.
«Ogni ipotesi o illazione emersa nel dibattito politico di questi giorni è del tutto campata in aria perché, come risulta anche dalla ricostruzione temporale dei fatti, le dichiarazioni di alcuni boss erano già note al Ministero dal 9 giugno 2018 e, quindi, ben prima di ogni interlocuzione da me avuta con il diretto interessato». Lo ha detto al question time alla Camera il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sulla mancata nomina di Nino Di Matteo a capo del Dap nel 2018. «Tanto premesso, la linea d’azione che ho seguito come Ministro della Giustizia è stata, è, e sarà sempre improntata alla massima determinazione nella lotta alle mafie: basta semplicemente scorrere ogni parola di ogni legge che ho portato all’approvazione in questi due anni, dalla legge cosiddetta Spazzacorrotti fino all’ultimo decreto legge che impone il coinvolgimento della Direzione Nazionale e delle Direzioni Distrettuali Antimafia sulle richieste di scarcerazione», ha assicurato Bonafede.
Con Vito Crimi, capo politico pro tempore del M5S, il punto sull'attività del Governo e sulla Fase 2 e sulle tensioni nel Movimento dopo lo scontro tra il ministro Bonafede ed il magistrato Nino Di Matteo, sulla nomina mancata di quest'ultimo, nel 2018, a capo del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria). Il primo settore a fermarsi e l'ultimo a ripartire, è questa la condizione dell'intero comparto turistico. Preoccupa soprattutto il futuro, nessuno è in grado di poter dire se ed a quali condizioni si potranno fare le vacanze, e dunque la sopravvivenza di migliaia di imprese ad uno stop così prolungato.Ne parliamo con Giorgio Palmucci, presidente Enit (Ente nazionale del turismo) e Dario Nardella, sindaco di Firenze.
«Non entro nel merito delle nuove dichiarazioni di Giuseppe Graviano. È certo, però, che anche nella sentenza definitiva di condanna del senatore Marcello Dell’Utri sono stati ricostruiti rapporti stabili e duraturi tra Berlusconi e Cosa nostra». Queste le parole di Nino Di Matteo, il pm che insieme ai colleghi della procura di Palermo ha ordinato alla Dia d’intercettare in carcere il boss mafioso Giuseppe Graviano. «Sembra che in questo Paese certe cose non possano nemmeno essere ricordate e che chi si ostina a farlo sia destinato, come è capitato a me ed ai miei colleghi, per queste indagini, ad essere additato come un visionario fanatico,» ha aggiunto Di Matteo.
«Non credo che la strage di via D’Amelio sia solo di mafia. Il depistaggio cominciò con la scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino. E le indagini sul diario del magistrato partirono già il 20 luglio del 1992, il giorno dopo l’attentato». È quanto l'ex pm del pool che a Caltanissetta indagò sulla strage di via D’Amelio, Nino Di Matteo, il quale ha deposto come testimone nel processo per il depistaggio delle indagini sull’omicidio di Paolo Borsellino, in corso a Caltanissetta. «Siccome l’ipotesi era che soggetti legati ai servizi avessero partecipato alla strage di via D’Amelio, avrei respinto di certo un eventuale loro tentativo di contribuire all’indagine. Noi non ci siamo fatti aiutare dai Servizi, li abbiamo indagati,» ha affermato Di Matteo con riferimento all’ipotesi di un aiuto esterno arrivato in quegli anni da parte dell’intelligence.
"Tutti erano convinti e tutti speravano in una sentenza assolutoria che finalmente potesse spazzare via anni e anni di inchieste. È una verità che era ed è troppo scomoda per essere ricordata. Mentre saltavano in aria i nostri giudici, una parte dello Stato cercava Totò Riina e i suoi successori per capire cosa volessero per fermare quest’escalation di violenza". Lo ha detto l’ex pm di Palermo, Nino Di Matteo, in un dibattito a Milano durante la presentazione del libro “Il Patto sporco”, edito da Chiarelettere. "Delle stragi sappiamo tanto ma non sappiamo ancora tutto. Tutti dovrebbero fare uno sforzo decisivo per capire se assieme agli uomini di cosa nostra nelle stragi ebbero un ruolo soggetti non mafiosi, come io ritengo che sia molto probabile. La politica ha dimenticato. La grande stampa ha dimenticato," ha affermato Di Matteo.
"Nel 1974 venne stipulato un patto tra le più importanti famiglie mafiose palermitane e l’allora imprenditore Berlusconi". Così Nino Di Matteo, neoeletto consigliere del Csm, intervistato da Lucia Annunziata a "Mezz’ora in Più", su Rai Tre. "Dell’Utri è stato condannato come intermediario di quel patto che ha visto protagonista anche l’allora imprenditore Berlusconi," ha sottolineato il pm. Di Matteo ha anche parlato dei suoi rapporti con il M5S: "Io nella mia carriera e nelle mie esternazioni sono stato sempre indipendente né organico né collaterale rispetto a nessuno. Se non erro i 5 Stelle sono al governo dal 2018 e a me non è stato attribuito nessun incarico, quindi le voci di cui si è sempre parlato sono smentite dalla realtà," ha detto.
Ecco le notizie più importanti della settimana selezionate da "Ascolta la Notizia". Sul fronte internazionale continua l'assalto militare turco in Siria. Sotto assedio la zona a nord del Paese occupata dalla popolazione curda che combatte l'Isis.La comunità internazionale ha espresso preoccupazione. "La Turchia funge da filtro per circa 3 milioni di profughi in arrivo da Siria e Iraq. Se Ankara apre il rubinetto dei profughi, l’effetto sull’Europa sarebbe molto molto forte”, ha detto il deputato 5 stelle, Pino Cabras, in un'intervista a Silenzi e Falsità.Timore che trova conferma nelle dichiarazioni di Recep Tayyip Erdoğan che minaccia l'Europa: "Vi manderemo 3,6 milioni di rifugiati se Bruxelles definirà come una invasione l'operazione militare lanciata nella Siria nordorientale".Il presidente turco continua a circoscrivere quella di Ankara un'operazione fonte di pace, il cui unico obiettivo è di eliminare il terrorismo.Nel frattempo, però, l'occupazione "pacifica" di Ankara ha già causato diverse vittime e sono 60mila circa gli sfollati in fuga.Iniziano a farsi sentire le reazioni dei Paesi europei che ritengono ingiustificata l'invasione della Turchia in Siria.Tra gli altri anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che ha convocato l'ambasciatore turco in Italia. "Chiediamo al governo turco di cessare immediatamente l'offensiva", ha spiegato Di Maio. "Come governo pensiamo che sia inaccettabile, la condanniamo. Rischia di compromettere la lotta al terrorismo. L'unica strada da seguire è quella delle Nazioni Unite". Passiamo alla politica italianaUn pilastro fondamentale per la lotta alle mafie in Italia è stato messo in discussione: l'ergastolo ostativo, il carcere a vita che non prevede benefici né sconti di pena. Si tratta di una delle tante intuizioni del magistrato Giovanni Falcone, ma secondo la Corte di Strasburgo il 41 BIS viola i diritti umani. Per questo ha invitato l'Italia a fare una riforma. Il Bel Paese ha presentato ricorso contro la sentenza del 13 giugno 2019, ma la CEDU lo ha respinto il 7 ottobre scorso."Il MoVimento 5 Stelle non condivide in alcun modo la decisione presa dalla Corte", si legge sul Blog delle Stelle.Forte è stata anche la reazione del presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra. "Oggi siamo stati sconfitti su un fronte importantissimo", ha detto durante una diretta su Facebook. "Cari giudici e giuristi di tutta Europa e del mondo se voi sapeste che cosa significa la lotta alla mafia forse uno scrupolo in più prima di emettere sentenze di tal fatto lo avreste", ha continuato il presidente della Commissione Antimafia. "Si è offesa la memoria di uomini come Falcone, Borsellino, Carlo Alberto Dalla Chiesa". Secondo Morra, l'azione di contrasto alle mafie deve essere il primo obiettivo di qualsiasi seria azione di governo. Parliamo ora di giustizia Dopo lo scandalo delle nomine al Consiglio superiore della magistratura, Antonio D'Amato e Nino Di Matteo sono stati eletti come nuovi consiglieri. D'Amato ha ottenuto 1460 voti ed è il nuovo procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere, mentre Di Matteo, magistrato che ha indagato sulla Trattativa Stato-mafia, con 1184 preferenze è sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia.I due hanno prevalso su 16 candidati in tutto. E, sono i successori di Luigi Spina e Antonio Lepre, dimessi perché coinvolti nell'inchiesta su Luca Palamara condotta dalla procura di Perugia. Dopo la pubblicazione delle intercettazioni, registrate la notte del 9 maggio scorso nel cellulare di Palamara, si sono dimessi in tutto 5 magistrati coinvolti nella faccenda. I primi due sono stati sostituiti da Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, eletti in primavera. A dicembre si to
«L’appartenenza a una cordata è l’unico mezzo per fare carriera e avere tutela quando si è attaccati e isolati, e questo è un criterio molto vicino alla mentalità e al metodo mafioso». Così il pm Nino Di Matteo, nel discorso per lanciare la propria candidatura alle elezioni suppletive per il Consiglio superiore della magistratura, ha definito la «degenerazione del correntismo». Di Matteo ha spiegato che «negli ultimi 15 anni la magistratura è cambiata, pervasa da un cancro che ne sta invadendo il corpo, i cui sintomi sono la burocratizzazione, la gerarchizzazione degli uffici, il collateralismo politico». Nel «momento più buio della magistratura ho sentito il bisogno e la voglia di mettere la mia umiltà e il mio coraggio per dare una spallata a questo sistema,» ha concluso Di Matteo.
Diventa un caso l’intervista sui mandanti occulti della strage Falcone rilasciata a La7 da Nino Di Matteo, il pm palermitano che ha istruito il processo "Trattativa", oggi sostituto della Direzione nazionale antimafia. Dopo la puntata di "Atlantide" andata in onda sabato 18, il procuratore capo Federico Cafiero de Raho ha deciso la rimozione del magistrato dal neonato pool stragi, che da due mesi indaga sulle "entità esterne nei delitti eccellenti di mafia". Provvedimento immediatamente esecutivo, da martedì 28 maggio. (da Repubblica del 26 maggio 2019, cronaca di palermo). Su questa vicenda, dai contorni poco chiari, Roberto Vacca ha intervistato Aaron Pettinari, caporedattore di Antimafia 2000. (Nella foto Nino Di Matteo intervistato da Andrea Purgatori su La7) L'articolo Sfogliando il giornale: PM Di Matteo espulso dal pool su “stragi e mandanti esterni alla mafia” proviene da Radio Voce della Speranza.
23 maggio 2019: la memoria delle vittime delle stragi di Capaci e via D'Amelio e la storia “scabrosa e inquietante” (Roberto Scarpinato, pg di Palermo) dei processi, dalla trattativa stato-mafia al Borsellino-quater alla ‘ndrangheta stragista. Scarpinato invita a mettere da parte la “retorica di stato” che racconta le stragi come la vendetta mafiosa contro i giudici Falcone e Borsellino per il maxiprocesso degli anni ‘80. Va sostituita con una “storia per nulla semplice e rassicurante, anzi scabrosa e inquietante” come dimostra “la pluralità di risultanze probatorie che si vanno accumulando nei processi”. A Memos oggi riprendiamo il filo del racconto di Roberto Scarpinato (FQ online) e del cronista Saverio Lodato (antimafiaduemila.com), riproponiamo la nostra intervista a Nino Di Matteo del novembre scorso e torniamo su quanto accaduto questa mattina a Palermo, tra celebrazioni ufficiali (Vito Lo Monaco, Centro Pio La Torre) e non (Claudio Fava, commissione antimafia siciliana).
23 maggio 2019: la memoria delle vittime delle stragi di Capaci e via D’Amelio e la storia “scabrosa e inquietante” (Roberto Scarpinato, pg di Palermo) dei processi, dalla trattativa stato-mafia al Borsellino-quater alla ‘ndrangheta stragista. Scarpinato invita a mettere da parte la “retorica di stato” che racconta le stragi come la vendetta mafiosa contro i giudici Falcone e Borsellino per il maxiprocesso degli anni ‘80. Va sostituita con una “storia per nulla semplice e rassicurante, anzi scabrosa e inquietante” come dimostra “la pluralità di risultanze probatorie che si vanno accumulando nei processi”. A Memos oggi riprendiamo il filo del racconto di Roberto Scarpinato (FQ online) e del cronista Saverio Lodato (antimafiaduemila.com), riproponiamo la nostra intervista a Nino Di Matteo del novembre scorso e torniamo su quanto accaduto questa mattina a Palermo, tra celebrazioni ufficiali (Vito Lo Monaco, Centro Pio La Torre) e non (Claudio Fava, commissione antimafia siciliana).
23 maggio 2019: la memoria delle vittime delle stragi di Capaci e via D’Amelio e la storia “scabrosa e inquietante” (Roberto Scarpinato, pg di Palermo) dei processi, dalla trattativa stato-mafia al Borsellino-quater alla ‘ndrangheta stragista. Scarpinato invita a mettere da parte la “retorica di stato” che racconta le stragi come la vendetta mafiosa contro i giudici Falcone e Borsellino per il maxiprocesso degli anni ‘80. Va sostituita con una “storia per nulla semplice e rassicurante, anzi scabrosa e inquietante” come dimostra “la pluralità di risultanze probatorie che si vanno accumulando nei processi”. A Memos oggi riprendiamo il filo del racconto di Roberto Scarpinato (FQ online) e del cronista Saverio Lodato (antimafiaduemila.com), riproponiamo la nostra intervista a Nino Di Matteo del novembre scorso e torniamo su quanto accaduto questa mattina a Palermo, tra celebrazioni ufficiali (Vito Lo Monaco, Centro Pio La Torre) e non (Claudio Fava, commissione antimafia siciliana).
Nino Di Matteo, ospite oggi a Memos, è stato uno dei pubblici ministeri del processo sulla trattativa Stato-mafia. Oggi è sostituto procuratore alla direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Per rompere il muro di silenzio sulle vicende della trattativa ha scritto un libro, insieme a Saverio Lodato, dal titolo “Il patto sporco” (Chiarelettere, 2018). Quello sulla trattativa è stato un processo storico: 5 anni di dibattimento, oltre 5 mila pagine di motivazioni, e una sentenza di condanna. Secondo i giudici due ex boss di cosa nostra (Bagarella e Cinà, con i capi Riina e Provenzano nel frattempo deceduti), hanno ricattato lo Stato insieme a tre infedeli carabinieri dei Ros (Mori, Subranni, De Donno): o ci togli l'ergastolo, ci cancelli il carcere duro e ci dai altri benefici, oppure continuiamo con la stragi. Proprio così, perché la trattativa è avvenuta mentre – tra il 1992 e il 1994 – cosa nostra uccideva, compiva attentati e stragi. In un caso, hanno accertato i giudici di primo grado, mediatore del ricatto è stato l'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri, pure lui condannato. E' una vicenda incredibile, per come l'ha ricostruita la sentenza della Corte d'Assise di Palermo: servitori infedeli dello stato (i tre dei Ros), insieme a boss di cosa nostra, ricattano almeno tre governi negli anni ‘92-'94 (Amato, Ciampi, Berlusconi) e nessuno dei massimi esponenti delle istituzioni ricattati denuncia il ricatto: né Amato, né Ciampi, né Berlusconi. Un coro di omertà istituzionale. Non solo. Uno dei tre capi di governo, Silvio Berlusconi, risulta finanziare cosa nostra proprio in quegli anni, in un patto di reciproco sostegno con la mafia. Incredibile. Ma vero. Ecco perché su tutta la storia della trattativa Stato-mafia, sulla portata della sentenza di primo grado dei giudici di Palermo, è in corso – come denuncia il magistrato Nino Di Matteo – una “grande rimozione”. E il libro “Il patto sporco” cerca di squarciare il velo di silenzio e oblio che ci separa dalla conoscenza dei fatti. Ospite oggi a Memos anche la giornalista e scrittrice Paola Natalicchio curatrice del quotidiano “messaggio nella bottiglia”.
Nino Di Matteo, ospite oggi a Memos, è stato uno dei pubblici ministeri del processo sulla trattativa Stato-mafia. Oggi è sostituto procuratore alla direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Per rompere il muro di silenzio sulle vicende della trattativa ha scritto un libro, insieme a Saverio Lodato, dal titolo “Il patto sporco” (Chiarelettere, 2018). Quello sulla trattativa è stato un processo storico: 5 anni di dibattimento, oltre 5 mila pagine di motivazioni, e una sentenza di condanna. Secondo i giudici due ex boss di cosa nostra (Bagarella e Cinà, con i capi Riina e Provenzano nel frattempo deceduti), hanno ricattato lo Stato insieme a tre infedeli carabinieri dei Ros (Mori, Subranni, De Donno): o ci togli l’ergastolo, ci cancelli il carcere duro e ci dai altri benefici, oppure continuiamo con la stragi. Proprio così, perché la trattativa è avvenuta mentre – tra il 1992 e il 1994 – cosa nostra uccideva, compiva attentati e stragi. In un caso, hanno accertato i giudici di primo grado, mediatore del ricatto è stato l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, pure lui condannato. E’ una vicenda incredibile, per come l’ha ricostruita la sentenza della Corte d’Assise di Palermo: servitori infedeli dello stato (i tre dei Ros), insieme a boss di cosa nostra, ricattano almeno tre governi negli anni ‘92-’94 (Amato, Ciampi, Berlusconi) e nessuno dei massimi esponenti delle istituzioni ricattati denuncia il ricatto: né Amato, né Ciampi, né Berlusconi. Un coro di omertà istituzionale. Non solo. Uno dei tre capi di governo, Silvio Berlusconi, risulta finanziare cosa nostra proprio in quegli anni, in un patto di reciproco sostegno con la mafia. Incredibile. Ma vero. Ecco perché su tutta la storia della trattativa Stato-mafia, sulla portata della sentenza di primo grado dei giudici di Palermo, è in corso – come denuncia il magistrato Nino Di Matteo – una “grande rimozione”. E il libro “Il patto sporco” cerca di squarciare il velo di silenzio e oblio che ci separa dalla conoscenza dei fatti. Ospite oggi a Memos anche la giornalista e scrittrice Paola Natalicchio curatrice del quotidiano “messaggio nella bottiglia”.
Nino Di Matteo, ospite oggi a Memos, è stato uno dei pubblici ministeri del processo sulla trattativa Stato-mafia. Oggi è sostituto procuratore alla direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Per rompere il muro di silenzio sulle vicende della trattativa ha scritto un libro, insieme a Saverio Lodato, dal titolo “Il patto sporco” (Chiarelettere, 2018). Quello sulla trattativa è stato un processo storico: 5 anni di dibattimento, oltre 5 mila pagine di motivazioni, e una sentenza di condanna. Secondo i giudici due ex boss di cosa nostra (Bagarella e Cinà, con i capi Riina e Provenzano nel frattempo deceduti), hanno ricattato lo Stato insieme a tre infedeli carabinieri dei Ros (Mori, Subranni, De Donno): o ci togli l’ergastolo, ci cancelli il carcere duro e ci dai altri benefici, oppure continuiamo con la stragi. Proprio così, perché la trattativa è avvenuta mentre – tra il 1992 e il 1994 – cosa nostra uccideva, compiva attentati e stragi. In un caso, hanno accertato i giudici di primo grado, mediatore del ricatto è stato l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, pure lui condannato. E’ una vicenda incredibile, per come l’ha ricostruita la sentenza della Corte d’Assise di Palermo: servitori infedeli dello stato (i tre dei Ros), insieme a boss di cosa nostra, ricattano almeno tre governi negli anni ‘92-’94 (Amato, Ciampi, Berlusconi) e nessuno dei massimi esponenti delle istituzioni ricattati denuncia il ricatto: né Amato, né Ciampi, né Berlusconi. Un coro di omertà istituzionale. Non solo. Uno dei tre capi di governo, Silvio Berlusconi, risulta finanziare cosa nostra proprio in quegli anni, in un patto di reciproco sostegno con la mafia. Incredibile. Ma vero. Ecco perché su tutta la storia della trattativa Stato-mafia, sulla portata della sentenza di primo grado dei giudici di Palermo, è in corso – come denuncia il magistrato Nino Di Matteo – una “grande rimozione”. E il libro “Il patto sporco” cerca di squarciare il velo di silenzio e oblio che ci separa dalla conoscenza dei fatti. Ospite oggi a Memos anche la giornalista e scrittrice Paola Natalicchio curatrice del quotidiano “messaggio nella bottiglia”.
Nino Di Matteo, magistrato ; Francesco Urraro, Sen. M5S .
Dipende da noi. E' stato il titolo di un incontro che si è svolto giovedì scorso, 21 giugno, alla Camera del Lavoro di Milano. “Dipende da noi e dalla politica la lotta alle organizzazioni mafiose”, ha detto il magistrato Nino Di Matteo, membro della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e fino a due mesi fa uno dei pubblici ministeri al processo di Palermo sulla trattativa stato-mafia. Di Matteo è stato ospite dell'incontro alla Camera del Lavoro insieme al suo collega della Dna e della procura di Palermo Francesco Del Bene. Nel ruolo di intervistatore dei due magistrati il professor Nando dalla Chiesa, sociologo e scrittore. L'incontro è stato organizzato da Wikimafia (la libera enciclopedia online contro le mafie) in collaborazione con la Cgil. A Memos ne abbiamo trasmesso una sintesi. La versione integrale è disponibile sul canale YouTube di Wikimafia (https://www.youtube.com/channel/UCcxTwB0g07ycsFwD4aTcJ0w).
Dipende da noi. E’ stato il titolo di un incontro che si è svolto giovedì scorso, 21 giugno, alla Camera del Lavoro di Milano. “Dipende da noi e dalla politica la lotta alle organizzazioni mafiose”, ha detto il magistrato Nino Di Matteo, membro della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e fino a due mesi fa uno dei pubblici ministeri al processo di Palermo sulla trattativa stato-mafia. Di Matteo è stato ospite dell’incontro alla Camera del Lavoro insieme al suo collega della Dna e della procura di Palermo Francesco Del Bene. Nel ruolo di intervistatore dei due magistrati il professor Nando dalla Chiesa, sociologo e scrittore. L’incontro è stato organizzato da Wikimafia (la libera enciclopedia online contro le mafie) in collaborazione con la Cgil. A Memos ne abbiamo trasmesso una sintesi. La versione integrale è disponibile sul canale YouTube di Wikimafia (https://www.youtube.com/channel/UCcxTwB0g07ycsFwD4aTcJ0w).
Dipende da noi. E’ stato il titolo di un incontro che si è svolto giovedì scorso, 21 giugno, alla Camera del Lavoro di Milano. “Dipende da noi e dalla politica la lotta alle organizzazioni mafiose”, ha detto il magistrato Nino Di Matteo, membro della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e fino a due mesi fa uno dei pubblici ministeri al processo di Palermo sulla trattativa stato-mafia. Di Matteo è stato ospite dell’incontro alla Camera del Lavoro insieme al suo collega della Dna e della procura di Palermo Francesco Del Bene. Nel ruolo di intervistatore dei due magistrati il professor Nando dalla Chiesa, sociologo e scrittore. L’incontro è stato organizzato da Wikimafia (la libera enciclopedia online contro le mafie) in collaborazione con la Cgil. A Memos ne abbiamo trasmesso una sintesi. La versione integrale è disponibile sul canale YouTube di Wikimafia (https://www.youtube.com/channel/UCcxTwB0g07ycsFwD4aTcJ0w).
Andrea Orlando, Ministro della Giustizia; Giuseppe Sottile, editorialista de Il Foglio; Nino Amadore, giornalista Sole 24 Ore; Nino Di Matteo, Procuratore nazionale antimafia.
Nino Di Matteo lascia la procura di Palermo. Alfredo Russo, "Scorta Civica" - Il principe di Duino contro l'acquisto di un vecchio mobilificio da parte della comunità senegalese. Principe Carlo della Torre e Tasso.
«Sono anni – dice Borsellino - che lotto per la verità e la giustizia per la strage di via d'Amelio. Da anni sostengo che ad accelerare l'assassinio di mio fratello è stato il fatto che si era messo di traverso rispetto a questa trattativa, non appena l'aveva conosciuta. E a quel punto per portare avanti quella trattativa è stato necessario eliminarlo. Ieri mi sono sentito mancare il terreno sotto i piedi, ho pensato in un primo momento che questo significasse un cadere di tutte le ipotesi sulla trattativa». Salvatore Borsellino solo in un secondo momento racconta di essersi sentito meno disorientato. «Esaminando poi, e leggendo più nel dettaglio sulla sentenza, ho visto che non si nega l'esistenza della trattativa, ma solo che Mannino vi abbia partecipato. Implicitamente la sentenza ammette l'esistenza della trattativa, anche se dovremo leggerne le motivazioni». In ogni caso Salvatore Borsellino non nasconde l'amarezza per le conseguenze la sentenza Mannino potrà avere. «Di una cosa mi sono reso conto, ieri: non basteranno gli anni che ancora mi restano da vivere per vedere la verità e la giustizia sulla strage di via d'Amelio. L'Italia è un paese in cui a decenni di distanza non si è ancora arrivati alla verità sulle tante stragi di stato. Gli anni della mia vita che mi restano non mi permetteranno di vederla, la verità. Ma questo non significa che verità e giustizia alla fine non verranno fuori».
«Sono anni – dice Borsellino - che lotto per la verità e la giustizia per la strage di via d'Amelio. Da anni sostengo che ad accelerare l'assassinio di mio fratello è stato il fatto che si era messo di traverso rispetto a questa trattativa, non appena l'aveva conosciuta. E a quel punto per portare avanti quella trattativa è stato necessario eliminarlo. Ieri mi sono sentito mancare il terreno sotto i piedi, ho pensato in un primo momento che questo significasse un cadere di tutte le ipotesi sulla trattativa». Salvatore Borsellino solo in un secondo momento racconta di essersi sentito meno disorientato. «Esaminando poi, e leggendo più nel dettaglio sulla sentenza, ho visto che non si nega l'esistenza della trattativa, ma solo che Mannino vi abbia partecipato. Implicitamente la sentenza ammette l'esistenza della trattativa, anche se dovremo leggerne le motivazioni». In ogni caso Salvatore Borsellino non nasconde l'amarezza per le conseguenze la sentenza Mannino potrà avere. «Di una cosa mi sono reso conto, ieri: non basteranno gli anni che ancora mi restano da vivere per vedere la verità e la giustizia sulla strage di via d'Amelio. L'Italia è un paese in cui a decenni di distanza non si è ancora arrivati alla verità sulle tante stragi di stato. Gli anni della mia vita che mi restano non mi permetteranno di vederla, la verità. Ma questo non significa che verità e giustizia alla fine non verranno fuori».