Dal lunedì' al venerdì, ogni mattina, il buongiorno. E poi le letture. E tutto quello che ci viene in mente.
Donate to Il #Buongiorno di Giulio Cavalli

Oggi Gaza entra nelle notizie in punta di piedi. Una riga, un aggiornamento, un dato incastrato fra altro. Nessun titolo grande. Nessuna parola nuova. È il segno più chiaro di ciò che è diventata: un luogo dove l'orrore ha smesso di sorprendere. Nelle ultime ventiquattr'ore arrivano notizie che un tempo avrebbero imposto silenzio. Pazienti che attendono evacuazioni che restano sulla carta. Ospedali che continuano a funzionare per inerzia, finché regge il carburante rimasto. Valichi che rallentano, poi si fermano, poi forse riaprono. Tutto raccontato con il tono dell'aggiornamento tecnico, come se fosse manutenzione ordinaria. Gaza scorre così, come un bollettino amministrativo. La trasformazione è compiuta quando la tragedia diventa sfondo. Le cifre smettono di essere scandalo e diventano contesto. Le parole si accorciano, si asciugano, perdono attrito morale. Si parla di “fasi”, di “meccanismi”, di “attese”. La fame resta fame, il dolore resta dolore, ma il linguaggio lo addomestica. L'assedio continua, però entra nel lessico della normalità. Questa assuefazione riguarda chi decide, chi racconta, chi legge. Riguarda tutti. Quando ogni giorno somiglia al precedente, il presente perde urgenza. Gaza viene percepita come una crisi stabile, una sofferenza gestibile, un problema cronico. In questo spazio anestetizzato l'eccezione scompare. Restano vite sospese, senza scatto, senza svolta, senza rottura. Oggi, a Gaza, accade esattamente questo: nulla interrompe il flusso. Ed è proprio questa continuità a fare più paura. Perché un orrore che scorre senza più fare rumore diventa parte dell'arredo del mondo. E quando succede, guardare smette di bastare. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Gaza l'assedio oggi passa dal freddo. A Khan Yunis un neonato di un mese è morto nella notte, nelle tende di Al-Mawasi sferzate dal vento e dalla pioggia. Le autorità sanitarie locali parlano di tredici morti legati all'ondata di maltempo e alla mancanza di ripari adeguati. La linea del fronte si è spostata nella sopravvivenza elementare: scaldarsi, asciugarsi, restare vivi. Il cessate il fuoco continua a reggere come dispositivo di controllo. Sulla carta. Sul terreno si stringe il rubinetto degli aiuti. Israele ha respinto la registrazione a quattordici organizzazioni non governative, imponendo una scadenza operativa che equivale a un ritiro forzato. L'effetto pratico è misurabile: l'accordo del 10 ottobre parlava di 600 camion al giorno; Ong e Nazioni Unite contano flussi reali che oscillano tra 100 e 300, con una quota rilevante di beni commerciali. La fame e il freddo hanno una grammatica amministrativa. Intanto il lessico bellico lava le mani. Un colpo “mancato” finisce tra i civili, feriti inclusi; parte un'indagine interna. Errore, deviazione, accertamenti. La “linea gialla” che separa e autorizza resta una linea mobile: chi passa, chi resta, chi paga l'errore. Sul lato israeliano, il potere prova a governare anche la memoria. Benjamin Netanyahu tenta di mettere mano all'inchiesta sul 7 ottobre; le famiglie delle vittime e l'opposizione parlano di conflitto di interessi e di un insulto alla verità. È la stessa architettura che si vede a sud: controllo delle procedure, gestione delle responsabilità, dilazione delle risposte. Le Nazioni Unite e oltre duecento organizzazioni avvertono che, tra deregistrazioni e scadenze fissate, le operazioni umanitarie rischiano il collasso. La seconda fase dei negoziati resta ostaggio di una prima fase che seleziona chi può stare, chi può curare, chi può distribuire, chi può scaldarsi. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

freddo a Gaza è diventato una linea del fronte. Mohammed Khalil Abu al-Khair aveva due settimane. È morto di ipotermia dopo giorni di pioggia e vento, in una tenda che non proteggeva più. I medici parlano di altri casi simili, di bambini che arrivano negli ospedali con il corpo già freddo. Le forniture per i ripari entrano a singhiozzo, il maltempo fa il resto. L'assedio passa anche dalla temperatura. Mentre Gaza congela, il mondo si chiude. L'amministrazione Trump ha annunciato un'estensione del travel ban che colpisce anche i palestinesi titolari di documenti dell'Autorità nazionale. Dal primo gennaio, visti e ingressi diventano un privilegio revocabile. Viene chiamato “piano di pace”. È, più semplicemente, una frontiera spostata più avanti, lontano dalla Striscia, per impedire qualsiasi uscita, qualsiasi futuro. La stessa logica attraversa la Cisgiordania. Sei parlamentari canadesi sono stati respinti al valico, accusati di rappresentare un rischio per la “sicurezza”. Deputati eletti, fermati perché osservare, visitare, testimoniare viene trattato come una minaccia. La parola sicurezza continua a funzionare come un interruttore: spegne diritti, cancella diplomazia, normalizza l'isolamento. Dentro questo quadro, la Corte penale internazionale smette di essere una notizia e diventa un attrito. Il rigetto del ricorso israeliano non ha fermato la guerra, ma ha incrinato la strategia di congelare il diritto. Il procedimento resta aperto, il tempo giudiziario continua a scorrere mentre quello politico prova a serrarsi. È un dettaglio che pesa più delle dichiarazioni: qualcosa, fuori dal controllo militare, non si è fermato. Intanto a Gaza si annunciano nuove operazioni, demolizioni mirate, tunnel evocati come giustificazione permanente. Hamas parla di negoziati indiretti, di fasi future. Parole che galleggiano sopra le tende bagnate, sopra i neonati avvolti in coperte sottili. I piani hanno sempre nomi ambiziosi. Il freddo, invece, arriva senza annunci. E uccide. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La pioggia arriva quando le bombe rallentano. A ovest di Gaza City le tende degli sfollati si allagano, diventano pozzanghere abitate. All'ospedale Al Shifa l'acqua filtra nei corridoi dell'accoglienza e del pronto soccorso, già ridotti al minimo dopo mesi di assedio. Il cessate il fuoco promette sollievo, il meteo lo smentisce. La guerra continua anche così: freddo, fango, infezioni. Le agenzie raccontano famiglie che scavano canali con le mani, bambini avvolti nella plastica perché le coperte non bastano. I convogli entrano a intermittenza: il novantaquattresimo dall'Egitto passa da Rafah, viene ispezionato a Kerem Abu Salem e poi avanza. Le tende arrivano, ma costano cifre proibitive. L'emergenza diventa mercato, il mercato seleziona chi può restare asciutto. La tregua resta fragile anche sul piano politico. Da Washington filtra irritazione verso Netanyahu per un raid nel fine settimana, l'uccisione di Raed Saad pesa come una violazione dell'accordo mediato dagli Stati Uniti mentre si discute la fase successiva. A Doha venticinque Paesi parlano di una forza internazionale di stabilizzazione, catene di comando, risoluzioni ONU. Sopra le teste dei civili si disegnano mappe. Sul piano giuridico, intanto, la Corte penale internazionale respinge il ricorso israeliano che chiedeva di bloccare l'indagine sui crimini commessi a Gaza. La giurisdizione resta confermata, il percorso giudiziario resta aperto. È una decisione che non ferma la pioggia, ma tiene accesa la questione delle responsabilità. In questo clima si inserisce anche l'annuncio della Hind Rajab Foundation, che deposita in Italia una denuncia contro un soldato israeliano, invocando le Convenzioni di Ginevra e lo Statuto di Roma. È un segnale, ancora da verificare nei suoi passaggi formali, di una giustizia cercata altrove mentre la politica prende tempo. A Gaza l'acqua sale. Nei palazzi si discute il futuro, sotto le tende si prova a sopravvivere al presente. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Gaza le squadre della protezione civile scavano tra le macerie delle case colpite, recuperano i resti di famiglie sepolte sotto muri che avevano ancora un indirizzo. La casa degli Abu Ramadan, che ospitava decine di persone, è diventata un cumulo di cemento e silenzio. È il lessico della fine che convive con l'annuncio della pausa. Intanto la mappa si allarga. A nord-est di Qalqilya, a Jayyous, bulldozer e mezzi militari abbattono serre e strutture agricole. Plastica strappata, colture schiacciate, un'economia domestica cancellata in poche ore. La Cisgiordania entra nel racconto come un fronte parallelo, dove la guerra prende la forma dell'amministrazione della terra e della punizione collettiva. A Gaza si discute di “fasi”, di condizioni, di disarmo e di garanzie. Le parti si accusano a vicenda di violazioni, si contano i morti, si annunciano funerali e nuove nomine militari. La tregua diventa un campo di battaglia semantico: dichiarata, contestata, sospesa. Nel frattempo Rafah resta strozzata, i valichi diventano argomento di scontro diplomatico, la vita quotidiana rimane appesa a decisioni prese altrove. Sul tavolo internazionale scorrono cifre che fanno tremare: quartieri distrutti, infrastrutture annientate, decine di miliardi stimati per una ricostruzione che ancora non ha un perimetro politico. Mentre si scavano le macerie, altrove si preparano dossier, proposte, appetiti. La guerra produce rovine e, insieme, opportunità. Dall'Italia arrivano appelli alla de-escalation, rivendicazioni di aiuti, corridoi umanitari, disponibilità dentro cornici multilaterali. Parole necessarie, che però faticano a tenere il passo con le immagini di oggi. Perché la tregua, quando esiste davvero, smette di essere un annuncio e diventa una pratica. Qui, per ora, restano le pale, i bulldozer e la polvere. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La tregua entra nella sua zona più fragile. Benjamin Netanyahu annuncia che la fine della “prima fase” è vicina e ribadisce che sarà Israele a decidere tempi e modalità delle mosse successive. È un messaggio politico prima che militare: l'accordo regge, il controllo resta unilaterale. Sul terreno, la tregua vive delle sue eccezioni. L'esercito israeliano uccide un miliziano nel nord della Striscia dopo il superamento della “linea gialla”, parlando di minaccia immediata. Un confine operativo che continua a produrre morti mentre il cessate il fuoco resta formalmente in piedi. Hamas conferma l'uccisione di Raed Saad, indicato da Israele come figura centrale nella produzione di armi e nella pianificazione del 7 ottobre. L'attacco, lungo la strada costiera Rashid, viene raccontato come mirato; i media palestinesi parlano di altre vittime. La leadership militare viene colpita mentre si discute il passaggio alla fase due. Fuori da Gaza, uno stanco Abu Mazen prova a rimettere paletti sempre più deboli: no alla divisione della Striscia, no a nuovi confini interni, ricostruzione sotto sovranità palestinese. È la partita che si apre dietro la tregua, ma senza forza politica reale. In Cisgiordania la pressione resta costante: incursioni e arresti, anche a Hebron, ricordano che la tregua è geografica solo sulla carta. Poi c'è Sydney. L'attentato è antisemitismo. Persone colpite per ciò che sono, durante una celebrazione religiosa. Su questo non esistono ambiguità. Ma subito dopo Netanyahu accusa il governo australiano di aver “incoraggiato” l'antisemitismo, attribuendo una responsabilità politica diretta all'esecutivo. Trasformare un crimine d'odio in un'arma narrativa è una scelta. La stessa operazione si ripete anche in Italia, dove c'è chi mescola chi chiede giustizia per Gaza con i terroristi di Sydney. Una confusione deliberata, utile a delegittimare le piazze. Resta un fatto che disturba la propaganda: l'uomo che ha disarmato il terrorista a Sydney è un immigrato musulmano. I fatti, messi in fila, continuano a smentire lo scontro di identità. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La pioggia è arrivata quando tutto era già rotto. A Gaza la tempesta Byron ha trasformato tende e macerie in trappole. Case sventrate dai bombardamenti sono crollate sotto l'acqua, gli accampamenti degli sfollati si sono allagati, il freddo ha fatto il resto. Nelle ultime ventiquattr'ore, secondo le autorità locali citate dalle agenzie, almeno dieci persone sono morte per le conseguenze dirette del maltempo. L'Organizzazione mondiale della sanità segnala decessi di neonati e bambini piccoli per ipotermia. La guerra continua anche quando smette di sparare. Mentre l'acqua invade le tende, l'esercito israeliano rivendica un'operazione “mirata” a Gaza City. Un drone colpisce un veicolo all'incrocio di Nabulsi. L'obiettivo, secondo le Idf, è Raad Saad, indicato come figura chiave nella ricostruzione e fabbricazione di armi per Hamas. Le agenzie parlano di vittime sul posto. È la simultaneità che conta: il raid e la pioggia, il comunicato militare e il fango che inghiotte tutto, nello stesso giorno. Il sistema sanitario resta il contatore più spietato del collasso. L'Oms conferma che solo 18 ospedali su 36 risultano parzialmente funzionanti. I centri di assistenza primaria operano al 43 per cento. Mancano farmaci, reagenti, materiali di base, spesso bloccati perché classificati “a duplice uso”. Quando piove e crolla una casa, la domanda diventa immediata: dove si va con i feriti, dove si muore di freddo. Sul tavolo internazionale, intanto, si disegna un futuro astratto. Le Nazioni Unite lavorano a una forza di stabilizzazione che potrebbe arrivare già dal prossimo mese. Secondo le anticipazioni, non combatterà Hamas. A Doha si tengono consultazioni con Stati Uniti e decine di Paesi per definire numeri, comando, regole d'ingaggio. Documenti, riunioni, promesse. A Gaza, oggi, la distanza tra le parole e il terreno si misura in tende allagate, bambini infreddoliti e ospedali a metà. La tempesta non aspetta i mandati Onu. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Il crollo avviene all'alba, nella parte orientale della Striscia. Un edificio già lesionato cede sotto la pioggia battente. Il fronte di cemento si accartoccia, schiaccia le tende sistemate ai piedi, inghiotte chi ci dormiva dentro perché altrove non c'era spazio. Le immagini mostrano persone che scavano con le mani nel fango, senza mezzi, senza tempo. Nelle ultime ore le agenzie contano almeno undici morti legati al maltempo: tra loro bambini e un neonato, uccisi dal cedimento di strutture fragili e dal freddo. Non è cronaca meteo. È la fotografia di una vulnerabilità costruita. Gli edifici colpiti nei mesi scorsi vengono riabitati perché l'alternativa è il nulla; le tende sorgono accanto a muri instabili perché non esistono zone sicure. La pioggia entra nelle crepe già aperte dalla guerra e completa il lavoro. Le Nazioni Unite segnalano che teloni, coperte termiche e tende non reggono alle inondazioni; materiali più solidi restano bloccati o arrivano a intermittenza. Il risultato è visibile: famiglie che cercano di proteggere i figli con ciò che trovano, mentre l'acqua sale. Intanto i valichi seguono il calendario. Chiusure “ordinarie”, camion in attesa, aiuti che si fermano davanti ai cancelli. Il giorno prima ne sono passati alcuni, il giorno dopo forse altri. Nel mezzo ci sono feriti, malati, sfollati che aspettano autorizzazioni. La pioggia cade senza permessi, i soccorsi no. Ogni ritardo pesa come una scelta. Sul piano politico, nelle stesse ore rimbalza l'ultimatum sul futuro della Striscia: o una forza internazionale entra sul terreno, oppure l'esercito israeliano resta. È una frase che arriva mentre si contano crolli e ipotermie. Il “dopo” diventa leva negoziale, il presente resta scoperto. Anche in Israele la stessa tempesta provoca vittime e soccorsi. Stessa pioggia, esiti diversi. La differenza sta nelle infrastrutture, nella protezione, nella continuità dei servizi. Diario di bordo numero cento. La tregua regge nei comunicati. I muri no. E quando crollano, il fango rende tutto più chiaro. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

«Il genocidio continua». Amnesty International rompe gli indugi e consegna al presente una parola che in questi mesi è stata contesa, negata, sminuita. Mentre l'organizzazione pubblica il nuovo dossier, a Khan Younis il freddo si prende la vita di Rahaf Abu Jazar, nove mesi, morta nella tenda che avrebbe dovuto proteggerla dall'inverno. La scena del padre che la stringe in braccio diventa il contrappunto più feroce all'idea che esista ancora un margine di normalità. La tempesta Byron ha allagato i campi, il vento ha strappato i teli, l'acqua si è mescolata al fango. L'UNRWA parla di sofferenze «senza precedenti dalla Seconda guerra mondiale» e definisce Gaza «inadatta alla vita». Nelle stesse ore il ministero della Salute aggiorna il conteggio: 70.369 morti. La statistica sale e il lessico umanitario si assottiglia mentre gli ospedali improvvisati contano i casi di ipotermia tra bambini e anziani. Gli aiuti non seguono la curva dell'emergenza. I camion restano sotto le promesse dell'accordo, Kerem Shalom apre a singhiozzo, le banche riaccendono le luci con poco contante, abbastanza per un'illusione di routine. La distanza tra le dichiarazioni di intento e la realtà del terreno si misura nella cronaca di una bambina che muore per il gelo dentro una tenda. Dall'alto del teatro diplomatico, Trump convoca per il 2026 il suo Board of Peace e prepara l'incontro con Netanyahu. È un calendario remoto che scorre mentre l'inverno avanza e avvolge gli sfollati. Se Amnesty dice che il genocidio continua, le morti del freddo non sono effetti collaterali. Sono un'altra forma dell'assedio. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La pioggia è entrata prima del mattino, scavando solchi di fango tra le tende e trasformando i campi degli sfollati in vasche d'acqua sporca. A Gaza City le immagini rimbalzano ovunque: l'acqua sale fin dentro i rifugi, le famiglie provano a sollevare materassi ormai fradici, i bambini camminano scalzi in una miscela di pioggia e liquami. La tempesta che ieri era allerta oggi è realtà. La Protezione civile avverte che le prossime ore sono «pericolose»: le tende rischiano di cedere, il vento strappa le coperture, l'acqua si accumula dove le fogne non esistono più. spiegano che il municipio non ha mezzi per intervenire: le pompe non funzionano, le reti sono distrutte, resta solo il tentativo disperato di deviare l'acqua con attrezzature private, vecchie, insufficienti. I numeri delle Nazioni Unite danno la misura del disastro. Oltre ottocentomila sfollati vivono in 761 siti classificati ad alto rischio di alluvione; in 219 campi l'acqua ha già travolto tutto, mettendo in pericolo più di centomila persone. Qui la meteorologia diventa materia politica: dove non c'è più infrastruttura, la pioggia si comporta come un assedio. La tempesta ha chiuso quattro centri per l'infanzia su otto e gli altri non sono raggiungibili. Save the Children denuncia che non entrano neanche pali, legname e strumenti per rinforzare le tende: materiali considerati “a duplice uso”. Così i più piccoli dormono su coperte bagnate mentre le restrizioni continuano a dettare la forma della loro sopravvivenza. Intanto la tregua resta un confine immaginario. Hamas segnala altri due morti nelle ultime ventiquattr'ore; dall'inizio del cessate il fuoco il conto è salito a 379. Meshaal dice che Gaza deve «guarire», ma oggi la città è un mosaico d'acqua sporca che trascina via ciò che resta. Guarire, qui, è un verbo sospeso sopra un terreno che non smette di sprofondare. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Sessantasette giornalisti uccisi in un anno, ventinove a Gaza, tutti colpiti mentre lavoravano. Reporters sans frontières fotografa il paradosso: l'esercito israeliano è oggi il principale pericolo per chi prova a raccontare la Striscia, responsabile del quarantatré per cento dei reporter ammazzati nel mondo. Zittire la cronaca è il primo modo per riscrivere la guerra. Intanto Gaza affoga sotto sessantotto milioni di tonnellate di macerie, l'equivalente di centottantasei Empire State Building. L'ottanta per cento degli edifici è distrutto o ferito, sotto i detriti restano corpi senza nome che nessuno riesce nemmeno a contare. Per ripulire tutto, ammesso che Israele lo permetta, serviranno anni. Ogni giorno che passa rende la verità un po' più irraggiungibile. Fuori dalla Striscia la geografia della repressione è la stessa. I blindati entrano all'università di Al-Quds ad Abu Dis, studentati trasformati in zona militare. A Masafer Yatta un colono armato caccia i contadini dal campo mentre il trattore è ancora acceso. A Gerusalemme Est la polizia fa irruzione nelle sedi dell'Unrwa sfidando i richiami di Madrid e delle Nazioni Unite. Scuole, terra, agenzie umanitarie: tutto ciò che può tenere in vita un popolo diventa un obiettivo. A Gerusalemme, alla Knesset, il ministro Itamar Ben-Gvir si presenta con una spilla gialla a forma di cappio per sostenere la legge sulla pena di morte per i palestinesi accusati di terrorismo. In Europa intanto esplode l'inchiesta sugli appalti Nato truccati a favore di Elbit, il gigante israeliano delle armi. Le immagini dicono che la guerra contro Gaza passa dai bombardamenti, dall'occupazione dei luoghi di studio, dall'intimidazione dei contadini, dai cappi appuntati sulla giacca di chi governa e dal denaro che circola attorno alle macerie. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Sharifa Qudeih è seduta su una sedia davanti a un terrapieno. Alle sue spalle i soldati israeliani avanzano. Racconta che la casa ad Abasan è stata demolita, che è stata percossa, usata come scudo umano nonostante l'età e le ferite, poi detenuta in condizioni dure. L'immagine riassume la grammatica di questa guerra: i civili sono cose da spostare. Mentre circola il video di Sharifa, la politica parla di “seconda fase”: Netanyahu dice che l'accordo è vicino, che lo scambio dell'ultimo ostaggio aprirà il capitolo del disarmo di Hamas, della smilitarizzazione di Gaza, di una forza internazionale e di un'autorità provvisoria. Hamas fa filtrare la disponibilità a discutere del destino delle armi. Intanto i numeri restano fermi: decine di migliaia di palestinesi uccisi dal 2023, centinaia anche dopo la tregua di ottobre. Le trattative cambiano nome, la realtà no. A Gerusalemme Est la polizia fa irruzione nel compound dell'Unrwa: sequestra computer, rimuove mobili, ammaina la bandiera dell'Onu e issa la propria. Lazzarini parla di una campagna di intimidazioni che dura da mesi, mentre la Knesset ha già bandito l'agenzia che la Corte internazionale di giustizia non ha mai trovato legata a Hamas. Le bandiere mostrano la direzione della forza prima ancora delle parole. In Italia arrivano 17 bambini palestinesi malati evacuati da Gaza: il totale sale a 232, il governo rivendica l'impegno umanitario. Nello stesso momento due deputati della maggioranza attaccano la relatrice Onu Francesca Albanese e chiedono di valutarne la “compatibilità” con il ruolo. Salvare i bambini, silenziare chi nomina il genocidio. A Gaza si festeggia la qualificazione della nazionale alla Coppa Araba. Un lampo di vita in una stanza stipata. Poi torna la notte: incursioni in Cisgiordania, arresti, la terra rossa attorno alla sedia di Sharifa. Le fasi cambiano nelle conferenze stampa, sul terreno resta la stessa scena. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Ahed Al-Bayouk ha tre anni. Il lenzuolo bianco che lo avvolge non riesce a coprire l'evidenza: il suo corpo minuscolo è diventato l'ennesima prova di una guerra che non concede tregue neppure ai bambini. Intorno, nell'obitorio di Rafah, il silenzio è un rumore che schiaccia. Le immagini rimbalzano dalle agenzie ai social mentre, a pochi chilometri, le squadre mediche riaprono le fosse improvvisate dell'ospedale Al-Ahli per recuperare quelli che non sono mai stati contati davvero. Nelle ultime ore da Gaza City arrivano altre segnalazioni di minori colpiti durante i tiri israeliani nelle zone “fuori linea”, quelle che sulla carta dovrebbero essere relativamente sicure. A Zeitoun si scava ancora: Israele vuole recuperare l'ultimo ostaggio, Ran Gvili, per chiudere l'elenco che serve alla politica, mentre gli elenchi dei civili continuano a gonfiarsi senza un volto, senza una voce. Dalla Germania arriva il sostegno al piano Netanyahu: la “fase due” del dopoguerra, la promessa che Israele manterrà il potere di intervento su tutta la terra tra il Giordano e il Mediterraneo. Niente Stato palestinese, nessun impegno a contenere le operazioni militari, nessun passo verso l'isolamento internazionale. È la diplomazia che parla di stabilità mentre a sud di Gaza medici e volontari tentano di ricomporre resti dilaniati. In Italia la vicenda è letta con lucidità soltanto da chi osserva le conseguenze. Gli operatori sanitari che hanno evacuato la piccola Tia a Roma lo dicono con semplicità: una malnutrizione così, qui, non l'hanno mai vista. È la fotografia di un assedio che non permette all'infanzia di sopravvivere e che ogni giorno produce un numero di feriti e mutilati che nessun tavolo negoziale sembra voler mettere al centro. Gaza intanto continua a seppellire e a disseppellire. La vita e la morte procedono insieme, nella stessa sabbia. Oggi Ahed è il nome che resta. Domani, con ogni probabilità, un altro lenzuolo arriverà a occupare il suo posto. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

corpi arrivano prima delle parole. Aws Bani Harith, vent'anni, steso su un lettino con la pelle incisa come un terreno devastato: racconta la tortura dei coloni meglio di qualsiasi testimonianza. Jamal Shtiw, la testa bendata, ripete che erano più di trenta, armati di pietre, bastoni, spray, e che sua figlia urlava mentre gli incendiavano l'auto. Nour al-Din Dawood esce dal carcere irriconoscibile, un'ombra del ragazzo che era. In mezzo scorrono le raffiche dei droni su Gaza City est, quelle che nei video illuminano il buio come se cercassero di cancellarlo. Intorno ai volti c'è la mappa della violenza: nella Cisgiordania di queste ore i coloni entrano nei villaggi a est di Ramallah, bruciano veicoli, lasciano scritte sui muri, attraversano le strade come pattuglie autonome. I numeri delle agenzie non hanno più nulla di astratto: cinque attacchi al giorno dall'inizio dell'anno, uliveti devastati, famiglie spinte via con la certezza dell'impunità. In quelle statistiche c'è Aws, c'è Jamal, c'è chi non ha una telecamera accanto. E poi Gaza, dove i progetti sul “dopo” vengono annunciati mentre il “durante” non si arresta. La Casa Bianca parla di una nuova fase entro due settimane, un'architettura di sicurezza per la Gaza che verrà; intanto a Tuffah saltano case, a Maghazi si scava tra le macerie, a Khan Yunis continuano i colpi delle navi al largo. Le tregue future vivono separate dalle esplosioni presenti. Sul confine nord UNIFIL denuncia tre nuovi attacchi israeliani in Libano, un'altra violazione della 1701. In Europa si discute di boicottaggi, presepi che mettono Gaza al centro, gesti che sembrano minuscoli mentre tutto continua a franare. Resta la distanza tra ciò che si annuncia e ciò che accade. La diplomazia scrive il futuro, i corpi raccontano il presente. E nessuno dei due coincide con la parola “pace”. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La foto della famiglia sterminata ieri a Gaza è l'ennesimo frammento di un archivio che cresce mentre il cessate il fuoco resta appeso a comunicati sempre più vuoti. Le squadre di recupero continuano a estrarre corpi da Khan Younis e Daeri, i coloni in Cisgiordania registrano nuovi assalti nella zona di Shilo, e l'ONU parla apertamente di una «pratica sistemica» che ignora ogni obbligo delle misure provvisorie della Corte internazionale di giustizia. Nelle stesse ore è arrivato il nuovo rapporto Don't Buy Into Occupation. Non parla più di “economia dell'occupazione”: adotta la definizione di «economia del genocidio» mutuata dal lavoro di Francesca Albanese. Dentro ci sono 104 aziende globali e più di 1.100 istituzioni finanziarie europee che alimentano la macchina militare israeliana, con oltre 1.500 miliardi di dollari di esposizione. Il capitolo italiano è nitido: Unicredit tra i primi creditori europei, Intesa Sanpaolo e Generali tra gli investitori, Leonardo ed ENI nella catena tecnologica e militare usata nelle operazioni su Gaza. Proprio su Leonardo otto associazioni e una cittadina palestinese hanno depositato un ricorso al tribunale civile di Roma. Chiedono di dichiarare illegittimi i contratti che forniscono componenti per F-35, sistemi radar, parti del Trophy installato sui Merkava. È il primo tentativo formale di forzare l'Italia a misurarsi con il proprio ruolo nella filiera che sostiene la guerra. Nel frattempo un'altra filiera scorre silenziosa: quella dei dati. L'inchiesta che coinvolge Microsoft e l'Unità 8200 apre un fronte europeo sul trattamento di materiale di sorveglianza raccolto nei territori palestinesi e archiviato su server Ue. Anche questo è parte dell'infrastruttura del conflitto. E mentre tutto questo si muove, in Parlamento il Pd presenta un disegno di legge che lega critica a Israele e antisemitismo. Una norma che arriva proprio quando l'ONU e DBIO documentano il contrario: la necessità di guardare in faccia la catena che rende possibile ciò che vediamo ogni giorno nelle macerie di Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La tregua continua a somigliare a un titolo letto da lontano, perché sul terreno i colpi non rispettano le sospensioni annunciate. A ovest della Linea gialla, nel quartiere di Zeitoun, le forze israeliane hanno aperto il fuoco: l'esercito parla di tre «miliziani eliminati» dopo aver superato la linea; le fonti ospedaliere dell'Al-Ahli hanno registrato civili feriti e un uomo ucciso, arrivato già senza vita. Due versioni che disegnano lo stesso spigolo: il confine che dovrebbe garantire sicurezza diventa di nuovo un varco da cui entra la violenza. Intanto sotto le macerie restano oltre 9.500 dispersi, secondo il Gaza Government Media Office. Numeri che non compaiono nei negoziati di queste ore, concentrati sui «reperti» dei due ostaggi recuperati, mentre la contabilità reale della Striscia continua ad ampliarsi. Dal lato giordano arriva un altro frammento del quadro: il ministro degli Esteri Ayman Safadi denuncia più di 500 violazioni del cessate il fuoco e aiuti fermi al 20 per cento del fabbisogno. La tregua, vista da qui, è una cornice che non riesce a trattenere nulla. Intanto il corridoio di Netzarim cambia forma: le squadre ingegneristiche egiziane stanno livellando il terreno per costruire nuovi campi destinati agli sfollati, mentre a Al-Zahra nasce un secondo insediamento. È la geografia della Gaza che verrà, tracciata mentre la Striscia è ancora ferita. E Rafah apre solo in uscita, sotto supervisione Ue e con autorizzazione israeliana, senza alcuna indicazione sul rientro. Una porta che rischia di trasformare l'emergenza in migrazione definitiva. Sul piano politico la Knesset discute l'adozione del piano in 20 punti dell'amministrazione Trump; Netanyahu prepara il viaggio a Washington; Meloni da Manama descrive quel progetto come «un'opportunità reale». La distanza con ciò che accade a Gaza resta intatta: i confini si ridisegnano a colpi di bulldozer e di fucile, mentre la diplomazia continua a parlare la lingua delle mappe e delle promesse. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

L'immagine che apre la giornata non è un cratere, ma un ragazzo in smoking. Il videoreporter palestinese Mahmoud Wadi, ucciso da un drone israeliano a Khan Younis mentre filmava le rovine con lo stesso strumento con cui, fino a un anno fa, riprendeva matrimoni. La foto elegante accostata al giubbotto “PRESS” sul suo corpo ricomposto è il promemoria più crudele di cosa significhi raccontare Gaza. Nel resto della Striscia le agenzie contano altre vittime, mentre in Cisgiordania l'esercito fa esplodere la casa del detenuto Abdul Karim Sanoubar, evacuando tredici famiglie: una punizione collettiva che si aggiunge a un territorio ormai trasformato in un mosaico di demolizioni, retate, checkpoint. Ma oggi il centro politico arriva da Ginevra. Il Comitato ONU contro la tortura parla di una «politica di fatto di tortura organizzata e diffusa» da parte di Israele. Non più abusi isolati: una struttura. Nel rapporto compaiono pestaggi sistematici, attacchi con cani, waterboarding, elettroshock, violenze sessuali, amputazioni dovute a cure negate. E un dato che inchioda: almeno 98 palestinesi morti in custodia nell'ultimo anno, una mortalità che per gli esperti è “indicatore diretto” dell'uso della violenza negli interrogatori. Il dossier apre un fronte internazionale delicatissimo e rischia di spingere gli Stati membri verso indagini sui vertici politico-militari israeliani, mentre la Corte penale internazionale lavora su un fascicolo parallelo. Intanto l'Europa continua a chiedere de-escalation senza toccare i rapporti militari con Tel Aviv, e l'Italia tace anche davanti alla parola più pesante pronunciata dall'ONU: tortura come categoria strutturale. Per questo oggi lo smoking di Wadi pesa più di una statistica: ogni cronista che cade porta via un pezzo della verità che potrebbe finire davanti ai giudici. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Gaza si sveglia ogni giorno nel dopoguerra che uccide. Jude, otto anni, raccoglieva legna con i cugini quando un residuato inesploso è esploso sotto i piedi. I medici gli hanno contato decine di ferite da schegge. Gli artificieri non entrano: i permessi restano fermi ai valichi, e gli ordigni dormono nelle strade, nei campi, perfino nei cortili dove i bambini giocano. Nelle stesse ore il ministero della Sanità di Gaza avverte che quasi quattromila pazienti di glaucoma rischiano di perdere la vista per mancanza di farmaci e interventi. Il cessate il fuoco promette silenzio, non cure: si moltiplicano le malattie che in qualsiasi altro posto del mondo si tratterebbero in un ambulatorio, qui diventano sentenze. A Jabalia, lungo la linea della tregua, Hamas e Croce Rossa setacciano le macerie per recuperare i resti di un ostaggio. A Gaza City un uomo viene colpito dall'Idf vicino alla cosiddetta Linea Gialla. Intorno, delegazioni e governi parlano della prossima conferenza sulla ricostruzione mentre l'Egitto ripete che non accetterà mai una presenza militare israeliana stabile nella Striscia. La tregua è un equilibrio tra corpi da cercare, territori contesi e una diplomazia che corre più veloce della realtà. Intanto le armi non conoscono tregua: il rapporto annuale del Sipri registra 679 miliardi di dollari di vendite globali, con le industrie israeliane in crescita a doppia cifra. A fine dicembre, annuncia Tel Aviv, entrerà in servizio il nuovo sistema laser Iron Beam, celebrato come una rivoluzione sul campo di battaglia. Mentre a Gaza non entrano neppure gli oftalmologi. In Italia il ministro degli Esteri Antonio Tajani rivendica che «si sta facendo di tutto per consolidare il cessate il fuoco» e rilancia gli Accordi di Abramo come garanzia di stabilità. Ma basta guardare il volto bendato di Jude per capire quanto sia fragile qualunque promessa di pace quando la terra continua a esplodere. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Rafah è tornato a muoversi qualcosa che somiglia più a un'ombra che a un'esercitazione: l'Idf manda droni e pattuglie di ricognizione per “mappare” i tunnel attivi, mentre migliaia di sfollati provano a restare in piedi dentro una tregua che non protegge nessuno. Nel bollettino dell'Oms c'è l'altra verità della pausa armata: le infezioni respiratorie nei campi di Rafah e Deir al-Balah sono aumentate del dodici per cento in una settimana, i bambini respirano polvere, muffa, fuochi improvvisati. È la guerra che continua da dentro, anche senza bombe. A Gerusalemme rimbalza lo scontro tutto interno: Itamar Ben-Gvir accusa l'esercito di “cedere ai mediatori”, pretende di tornare all'offensiva larga senza condizioni. Dall'altra parte dell'oceano gli Stati Uniti fanno filtrare che non sosterranno alcuna ripresa se Netanyahu non mostra un piano politico per il dopo, come se il dopo non fosse già stato incendiato da quattordici mesi di devastazione. La tregua non arriva nemmeno in Cisgiordania. A Ein al-Duyuk, vicino a Gerico, coloni mascherati hanno fatto irruzione nella casa dove dormivano volontari internazionali: tre italiani e un canadese feriti, telefoni rubati, una fuga nella notte. Erano lì per accompagnare pastori e bambini nei villaggi sotto assedio quotidiano. Il ministro Antonio Tajani parla di episodio “gravissimo”, ma intanto aggiunge che l'Italia dovrà “monitorare” gli aiuti umanitari per verificarne l'uso. Qui la parola “controllo” pesa più della condanna. Gaza resta sospesa tra tunnel e malattia, Israele litiga sul dopo senza vedere il presente, la Cisgiordania brucia nella notte mentre colpisce anche chi prova solo a proteggere. E l'Italia, che si dice presente per la pace, sembra soprattutto preoccupata di non disturbare nessuno. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Due fratelli che raccolgono legna per scaldare il padre inchiodano la verità più di qualsiasi documento. Fadi e Goma Abu Assi, dieci e dodici anni, sono stati colpiti da un drone israeliano nella zona che gli accordi hanno messo “dal lato israeliano” della linea del cessate il fuoco. L'IDF parla di «sospetti impegnati in attività sospette». Il lessico militare come scudo che cancella due bambini, due pezzi di legno, un padre in sedia a rotelle che aspettava il fuoco per sopravvivere alla notte. Nelle stesse ore il ministero della Sanità di Gaza aggiorna il bilancio: 70.100 palestinesi uccisi dal 7 ottobre 2023. Dentro questo numero ci sono 354 morti dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco, una contabilità che rende evidente come la tregua esista solo nelle dichiarazioni. Funziona come un velo linguistico: la realtà è che si continua a morire lungo una linea disegnata su una mappa e spostata a seconda della convenienza. La fame non aspetta i comunicati. L'Unicef parla di 9.300 bambini sotto i cinque anni in malnutrizione acuta. Due su tre, nella settimana passata, hanno mangiato appena due gruppi alimentari. L'inverno è già addosso: freddo più malattia significa corpi che non hanno le riserve per resistere. Intanto, per il secondo giorno consecutivo, Israele chiude i valichi con l'Egitto e con la Striscia. Gli aiuti restano fermi a pochi metri dai campi dove si distribuiscono coperte che non vengono rimpiazzate. La “crisi umanitaria” ha un funzionamento preciso: dipende da una manopola che qualcuno ruota a piacere. E mentre tutto questo accade, in Italia il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi definisce Gaza un “pretesto di conflittualità” nei cortei. Lì due fratelli raccolgono legna e muoiono. Qui il problema diventa chi cammina in strada con una bandiera. A volte la distanza non si misura in chilometri, ma nel modo in cui un paese decide quali corpi meritano di essere nominati e quali possono svanire nel rumore di fondo dell'ordine pubblico. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Jenin è il punto da cui si deve partire oggi. Il video che circola da ieri mostra due uomini che escono da un garage con le mani alzate, la maglietta sollevata per mostrare il ventre nudo, nessuna minaccia. Poi li costringono a inginocchiarsi, li colpiscono, li trascinano qualche metro e li finiscono a terra. Le “indagini interne” annunciate da Israele valgono quanto valgono sempre: un tempo morto che serve a spegnere l'attenzione finché il silenzio torna utile. Intorno, la solita claque di ministri che chiama «eroi» i soldati e «terroristi» i cadaveri. Nelle stesse ore, in Cisgiordania, i blindati entrano e escono dai villaggi come fosse un diritto naturale. Arresti a decine, case perquisite, adolescenti portati via di notte. Da Tubas arrivano le immagini delle strade sfondate dai bulldozer e dei corpi feriti sulle barelle improvvisate. È la guerra che continua oltre la guerra, senza tregue ufficiali da sventolare. Fuori dalla Palestina il fronte non si allenta. Nel sud della Siria un raid ha colpito un edificio residenziale causando vittime civili, mentre nel sud del Libano le famiglie restano sospese sotto il rumore costante dei droni. Le mappe diplomatiche parlano di stabilizzazione; la geografia reale racconta un'altra storia, fatta di quartieri sventrati e funerali senza telecamere. E poi c'è la vicenda del sedicenne palestinese-americano liberato ieri dopo mesi di detenzione militare. Esce dimagrito, con la pelle segnata dalla scabbia, dopo un patteggiamento costruito sulle accuse di sempre. La versione ufficiale parla di “ordine pubblico”. Il suo corpo racconta un'altra definizione. Intanto la giornata politica si appunta sul viaggio del papa ad Ankara, sulle parole di Erdogan, sugli appelli alla pace. Belle cornici, ma fragili come carta bagnata se messe davanti alla sequenza di Jenin. È questo il paradosso delle ultime ore: mentre tutti rivendicano un ruolo da mediatori, l'unica immagine davvero nitida è quella di due uomini stesi a terra che non si rialzano più. E forse da lì bisogna ripartire, ogni giorno. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Le agenzie raccontano che “la fase uno è chiusa”, che “le scuole riaprono” e che al Cairo si discute della “Gaza del futuro”. È la diplomazia che tenta di costruire una scenografia di normalità mentre sul terreno niente assomiglia a una tregua. Oggi Amnesty International rompe l'incantesimo: dice esplicitamente che il genocidio non si è fermato, nemmeno dopo il cessate il fuoco. Contano 327 palestinesi uccisi nelle ultime settimane, 136 sono bambini. E ricordano che un genocidio non è solo una strage: è negare le condizioni di vita. Lì dentro, dicono, questo continua. Le immagini che arrivano da Gaza confermano il resto. L'UNRWA parla di “spazi di apprendimento temporanei”: cortili senza muri, tende sfondate, bambini seduti su pietre circondati da edifici pericolanti. La normalità qui esiste solo nei comunicati stampa delle capitali europee. Intanto, il negoziato si inceppa perché il punto non è più lo scambio di ostaggi: è chi controllerà Gaza. Israele rifiuta ogni ipotesi di governance internazionale, rifiuta la forza multinazionale, rifiuta l'ANP. Senza quella risposta, dicono le stesse fonti del Cairo, la “fase due” resterà un titolo di giornale. E poi c'è la Cisgiordania, che racconta da sola come appare il presente mentre tutti parlano del futuro. A Masafer Yatta i coloni rubano il somaro a una famiglia palestinese. Un animale trascinato via da uomini armati, sotto lo sguardo dell'esercito. È la fotografia più sincera della regione: l'occupazione ridotta in gesto quotidiano, non in teoria diplomatica. L'ex soldato Avner Gvaryahu, in un'intervista tornata virale, parla del sistema dall'interno: mappe, target, case segnate come coordinate da colpire. Non la retorica della “moralità”, ma l'architettura della paura. La distanza tra ciò che raccontano i tavoli negoziali e ciò che accade davvero è tutta qui: mentre il mondo discute della Gaza che verrà, a Gaza e in Cisgiordania continua ciò che è sempre stato. Una violenza così ordinaria che molti, ormai, preferiscono non guardarla più. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Gaza l'inverno non chiede permesso: entra, sommerge, sporca tutto. Nelle ultime ore le tende si sono riempite d'acqua, i bambini tirati su per non farli dormire nel fango. Da lontano, i professionisti della negazione mostrano schermate del meteo: «Cielo sereno». Intanto gli operatori umanitari documentano pioggia, allagamenti, tende marce. Non serve un dibattito: basta scegliere a chi credere, a chi c'è dentro o a chi guarda un'app. Nel frattempo continua la matematica macabra dei corpi. Israele ha identificato i resti di Dror Or, tenuto a Gaza per più di due anni. In cambio ha riconsegnato quindici corpi palestinesi, senza nomi, senza voce. Un rapporto scritto nero su bianco nell'accordo del 10 ottobre: uno a quindici. È questo il listino del dopoguerra che tutti fingono di costruire. Intorno, la vita reale marcisce sotto la pioggia. L'Egitto rinvia la conferenza sulla ricostruzione perché ricostruire mentre tutto crolla è una barzelletta crudele. Washington prepara l'ennesimo piano: forza internazionale, autorità transitoria, promesse di Stato palestinese buttate come coriandoli. Hamas valuta di trasformarsi in partito per entrare nel grande gioco del “day after”. Fuori, a pochi metri da quelle discussioni, le donne restano chiuse nei rifugi sovraffollati, esposte a violenze che nessun piano nomina. È uno spettacolo di ipocrisie sovrapposte: si tratta del futuro mentre il presente affoga. Chi parla di “stabilizzazione” dovrebbe guardare l'acqua che sale nelle tende prima di parlare di Stati e governance. E allora la domanda resta sospesa: quanto vale il presente di Gaza nel racconto del dopoguerra se l'unica cosa che si muove tra le due sponde sono sacchi con resti umani? Finché il mondo discute del domani, gli occhi devono restare sul oggi di Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Gaza ieri non pioveva: crollava il cielo. Le prime immagini sono arrivate all'alba: tende allagate, cumuli di fango che diventano muri, bambini che trascinano secchi più grandi di loro per liberare lo spazio in cui dormono. È una scena che in qualsiasi altro luogo chiameremmo “emergenza climatica”; qui è la conseguenza aritmetica della distruzione. Senza case, senza strade, senza drenaggi, basta un temporale di un'ora per creare un nuovo esodo dentro l'esodo. La pioggia si infiltra ovunque: nelle coperta bagnate, nelle scatolette di cibo rimaste aperte, nella paura. Mentre il fango inghiotte le tende, arrivano le notizie da Khan Younis: un uomo ucciso dalle forze israeliane nelle zone ancora controllate dai militari. Da Bani Suheila ne arriva un altro. Da Nablus arrivano i video delle ambulanze respinte e dei giornalisti allontanati durante un'operazione notturna. Da Silwad, la casa devastata dai coloni registrata in diretta. Non c'è tregua che tenga: la guerra procede come un'unica linea continua, da una parte all'altra del muro. E intanto, a centinaia di chilometri da quel fango, Israele discute di responsabilità. Un esponente della maggioranza ha ammesso che serve una commissione d'inchiesta sul 7 ottobre. È un punto di svolta: se anche nella coalizione c'è chi riconosce la necessità di un'indagine ufficiale, significa che la versione monolitica del governo sta cedendo. Significa dire ad alta voce che qualcosa non ha funzionato, che qualcuno potrebbe dover rispondere. È la prima silhouette di una verità che prova a farsi largo. Ma a Gaza queste crepe politiche non arrivano. Qui arriva solo l'acqua. Arriva il freddo. Arriva il rumore delle ambulanze bloccate, delle tende che cedono, dei bambini che affondano fino alle caviglie. E in questo rumore, ogni promessa di tregua si scioglie come fango. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Ci sono parole che non reggono più il peso della realtà. “Tregua”, per esempio. Basta guardare le ultime ventiquattr'ore: a Gaza si recuperano altri corpi dalle macerie ad Al-Maghazi, i bombardamenti su Gaza City e Khan Yunis fanno nuovi morti, le tende gelano nella notte e una famiglia costruisce un muro di fango per ripararsi dal vento. Nelle immagini circolate ieri si vede l'altalena di un bambino ucciso, rimasta appesa al soffitto di una casa sventrata. È così che si misura il fallimento di una parola. Israele intanto colpisce Beirut per la prima volta da mesi e uccide il capo di Stato maggiore di Hezbollah. Cinque morti, venticinque feriti. Washington — dicono le agenzie — non era stata informata. L'esercito parla apertamente di “risposte sproporzionate” a eventuali ritorsioni, mentre a nord cresce la paura di un'altra guerra. A Gerusalemme Est i servizi chiudono un teatro palestinese durante un evento per bambini: perfino le fiabe diventano un sospetto. Sul terreno la “tregua” ha l'aspetto di soldati che sparano tra le rovine, come nel video che rimbalza ovunque con la frase «Ceasefire is boring». Ha l'aspetto del corpo di un ostaggio recuperato a Nuseirat, e dei robot esplosivi piazzati nei quartieri di Gaza. Ha l'aspetto di un lessico che non salva più nessuno, sospeso tra la diplomazia e il fumo nero che sale dalle macerie. La chiamano tregua. Forse per abitudine, forse per convenienza. Ma se tutto questo è tregua, allora la pace è un fantasma che non si vede più. E mentre il mondo discute, Gaza continua a essere un luogo dove si sopravvive più che vivere, dove persino le parole chiedono di essere liberate dalla menzogna. Tutti gli occhi devono restare su Gaza. Sempre. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Voi credereste a una tregua che ogni notte lascia nuovi morti? Nelle ultime ventiquattro ore le agenzie parlano di almeno 24 palestinesi uccisi nei raid israeliani su Rafah, Deir al-Balah, Gaza City. A Rimal un'auto colpita è diventata un cratere: secondo l'ospedale Shifa undici morti e oltre venti feriti, molti bambini. A Nuseirat un'unica esplosione ha cancellato tre generazioni della famiglia Abu Shawish. Voi credereste a una tregua mentre una delegazione di Hamas siede al Cairo per discutere la de-escalation e, nelle stesse ore, Netanyahu dichiara che «Hamas viola la tregua» e che Israele «agirà comunque»? È il consueto schema: la diplomazia parla, le bombe parlano più forte. Voi credereste a una tregua mentre all'ONU solo Stati Uniti, Israele e Argentina votano contro la risoluzione che chiede di prevenire tortura e trattamenti degradanti? Se il principio viene respinto, la pratica diventa più libera, più impunita. E mentre il mondo finge di vedere un cessate il fuoco, la Cisgiordania continua a scorrere fuori quadro: più di mille palestinesi uccisi dal 2023, 217 bambini, secondo B'Tselem. Nelle ultime ore Israele ha colpito anche Beirut, uccidendo un dirigente di Hezbollah in un raid che Washington dice di non aver autorizzato. Il fronte non si chiude: si allarga. Voi ci credereste a una tregua così? Ecco: non credeteci. Non chiamatela tregua, non permetteteglielo. E chiedete al mondo di alzare gli occhi su questo genocidio lento, lasciando perdere qualsiasi narrazione cosmetica. Per questo tutti gli occhi devono restare su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Nella notte i bombardamenti sono tornati a colpire con forza. Le fonti sanitarie di Gaza parlano di almeno venti morti nei raid su case dove intere famiglie stavano dormendo; la dinamica coincide con quanto riportato dalle corrispondenze di Haaretz e dalle agenzie internazionali. L'IDF sostiene di aver reagito a una «violazione della tregua» attribuita a Hamas. È la stessa formula ripetuta da giorni: l'idea che la tregua sia un dispositivo da accendere e spegnere, una variabile tecnica, mentre la vita delle persone diventa il campo di prova. Anche Reuters e Associated Press confermano che migliaia di civili sono stati costretti a spostarsi ancora una volta verso i cosiddetti corridoi umanitari, zone sempre più simili a parcheggi di disperati senza acqua né servizi. Eppure queste condizioni non rientrano mai nel conteggio ufficiale delle “violazioni”. Qui entra in gioco la nostra ossessione per il linguaggio: una parte definisce cosa rompe la tregua; tutto il resto, dalle restrizioni agli aiuti alle case rase al suolo, resta fuori dal quadro. La Cisgiordania continua a essere il fronte che quasi nessuno nomina. Nelle ultime ventiquattr'ore si registrano un palestinese ucciso a Nablus, diversi arresti notturni e nuovi assalti dei coloni: dettagli confermati sia dalle équipe dell'ONU sia dalle cronache locali. È una guerra lenta, che non ha bisogno di dichiarazioni ufficiali per proseguire. Nel frattempo, in Israele crescono ancora le tensioni interne: le famiglie degli ostaggi temono che ogni escalation allontani l'accordo e accusano il governo di usare la tregua come strumento politico. I giornali israeliani ne parlano apertamente, ma questo non sposta la retorica dei vertici. La diplomazia europea continua a ripetere che la tregua è fragile, che serve pazienza. Qui, invece, la tregua appare per quello che è: un guscio vuoto che ogni notte si incrina sotto i colpi. E il linguaggio che dovrebbe proteggerla diventa l'alibi perfetto per non vedere. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Basta, davvero. A Gaza la parola “tregua” continua a funzionare come un anestetico. L'Unicef conta almeno 67 bambini uccisi dall'inizio del cessate il fuoco, quasi due al giorno. Medici Senza Frontiere racconta un raid del 19 novembre: sei feriti, una bambina di nove anni colpita al volto, un quindicenne, un uomo di 71 anni. Nei comunicati ufficiali tutto questo diventa “incidente”, come se bastasse un sinonimo gentile per cancellare la scena. Intanto la mappa della Striscia viene riscritta. L'area gialla controllata dall'esercito supera metà del territorio. A Gaza City i militari avanzano verso Shujaiya, spingendo le famiglie più a ovest dentro quella che le fonti locali chiamano «gabbia». Un uomo sfollato è stato ucciso fuori dalla zona militare, nel punto che l'accordo indicava come relativamente sicuro. Anche questo, nel linguaggio diplomatico, rientra nella “tregua”. In Cisgiordania due ragazzi di 18 e 16 anni sono morti dopo un'incursione a Kafr Aqab. A Nablus e Ramallah gruppi di coloni hanno incendiato magazzini e serre, spesso coperti dall'esercito. La guerra non è ferma: è solo descritta come se lo fosse. Sul piano politico Israele prepara la “seconda fase” dell'accordo con una task force che include ministri contrari alla tregua stessa. Netanyahu lega la riapertura di Rafah alla restituzione dei corpi degli ostaggi e aggiunge che sarebbe «felice» se l'Egitto permettesse agli abitanti di Gaza di andarsene. Ecco perché serve restituire senso alle parole. Se chiamiamo “tregua” giorni in cui si muore, se chiamiamo “pace” un dispositivo di controllo territoriale, allora non stiamo raccontando i fatti: li stiamo coprendo. A Gaza oggi non c'è tregua. C'è una guerra che si prende la libertà di farsi chiamare diversamente. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Chissà se un giorno ci vergogneremo di avere visto passare un genocidio e dopo averlo ignorato abbiamo cominciato a chiamarlo tregua. A Gaza i numeri arrivano prima delle giustificazioni: 33 palestinesi uccisi, tra cui dodici bambini, in una serie di raid che il Qatar definisce «una pericolosa escalation» capace di far saltare l'accordo appena scritto. La “pax” imposta dalla diplomazia non regge più di un ciclo di bombardamenti. Nel frattempo il lessico si muove. L'ambasciatore Usa Mike Huckabee parla di «terrorismo» riferendosi all'ultima ondata di violenze dei coloni in Cisgiordania. È un fatto politico enorme. Ma subito dopo ridimensiona: li chiama «giovani arrabbiati», un modo gentile per non incrinare l'immagine del fronte che la risoluzione dell'Onu vorrebbe trasformare in architrave della nuova Gaza. E mentre si discute di definizioni, il rapporto Framing Gaza mostra come la parola “terrorista” venga applicata ai palestinesi con una frequenza sistematica, mentre la violenza israeliana continua a essere incorniciata come autodifesa. La tregua, persino nel linguaggio, resta asimmetrica. Sul fronte umanitario l'Oms riesce a vaccinare diecimila bambini in otto giorni. È una corsa contro il rumore dei droni: si inocula finché il cielo resta fermo, poi si chiude tutto e si aspetta. Le stesse ore consegnano nuovi piccoli morti dalle macerie di Khan Younis e Bani Suheila. Siringhe e bombe convivono dentro lo stesso calendario. A Bruxelles il gruppo dei donatori discute la “ricostruzione” e l'Italia propone l'addestramento della futura polizia di Gaza fuori da Gaza. Si parla di sicurezza, mai di occupazione. Non c'è una tregua da interpretare: ci sono fatti che continuano a produrre vittime, e un lessico internazionale che inseguendo gli equilibri finisce per ignorarle. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Nelle ultime ventiquattro ore la tregua ha mostrato la frattura più pericolosa: gli attacchi arrivano anche nei corridoi umanitari e nelle aree indicate come sicure. Le ONG descrivono convogli costretti a invertire la marcia, check-point aperti e richiusi senza spiegazioni, itinerari che cambiano all'ultimo minuto. Una tregua che non permette di prevedere neanche un percorso diventa un'architettura instabile, dove ogni movimento espone a un rischio. Secondo i dati raccolti dalle organizzazioni locali dal 10 ottobre, giorno dell'entrata in vigore del cessate il fuoco, al 18 novembre, le violazioni documentate sono 393, con almeno 279 morti e più di 650 feriti. Nelle ultime ore si segnalano nuovi attacchi mentre le squadre umanitarie tentavano di raggiungere le famiglie rimaste isolate. Non è la rottura improvvisa di un accordo: è il logoramento quotidiano di una tregua che si incrina a piccoli colpi, fino a svuotare la parola “protezione”. La Cisgiordania segue un copione diverso ma complementare. Nell'ultima settimana sono aumentate le aggressioni dei coloni, gli incendi alle proprietà palestinesi e gli arresti degli attivisti israeliani che accompagnano i contadini nella raccolta delle olive. Qui il cessate il fuoco non è mai arrivato: la marginalità del territorio nelle discussioni diplomatiche riflette una gerarchia del conflitto che si ripete da mesi. Mentre nelle cancellerie si progettano le “fasi successive”, sul terreno l'unica fase identificabile è l'attesa. Le famiglie misurano il rischio metro dopo metro, gli operatori ripianificano ogni tragitto, e la tregua resta un confine fragile: un accordo che esiste sulle carte più di quanto riesca a esistere nella vita di chi dovrebbe protegge davvero. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Le prime piogge hanno trasformato le tende in vasche di fango. I bambini dormono sui materassi bagnati, con i vestiti inzuppati di acque reflue. Jan Egeland del Norwegian Refugee Council avverte che «perderemo vite quest'inverno» e che sono state «gettate via settimane cruciali» da quando il piano Trump prometteva l'arrivo degli aiuti. Save the Children parla di 13mila famiglie colpite dagli allagamenti soltanto nell'ultimo fine settimana, 700mila minori esposti al freddo, quattordici bambini morti di ipotermia negli ultimi due inverni. È la fotografia che arriva da Gaza mentre, a migliaia di chilometri, si disegna il suo futuro. Nelle stesse ore, il Consiglio di sicurezza approva la risoluzione statunitense che incorpora il piano in venti punti: forza di pace internazionale, smilitarizzazione, “deradicalizzazione”, possibile Stato palestinese a riforme completate. Tredici voti favorevoli, astensione di Russia e Cina. Trump lo celebra come «una delle più grandi approvazioni nella storia delle Nazioni Unite». Le parole scorrono, il fango resta. La politica palestinese reagisce divisa: l'Autorità nazionale applaude la risoluzione e chiede «attuazione immediata» in nome della protezione dei civili e della ricostruzione. Hamas denuncia invece una tutela internazionale che toglie neutralità alla forza prevista e affida il disarmo a un meccanismo percepito come coloniale, rifiutando di consegnare le armi e contestando qualunque ruolo israeliano. A Tel Aviv, Benjamin Netanyahu rivendica la “completa smilitarizzazione” inscritta nel testo e la possibilità di allargare gli Accordi di Abramo. I vertici militari, intanto, protestano contro la vendita di F-35 all'Arabia Saudita, temendo per la «superiorità aerea» israeliana. Sul tavolo dei negoziati si parla di futuro e sicurezza. Nelle tende allagate, si parla di sopravvivenza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Gaza la pioggia è stata più rapida delle risoluzioni. Nelle ultime ventiquattro ore le tende di Khan Yunis e Deir al-Balah sono crollate sotto il vento, i campi dell'Unrwa allagati, diciotto siti dichiarati “inabitabili”. Alla parrocchia della Sacra Famiglia, più di quattrocento persone cercano riparo mentre i vicoli intorno diventano fango. Eppure l'IDF ha confermato nuovi colpi d'artiglieria nella zona centrale: il “cessate il fuoco sostanziale” si incrina fra le sirene e l'acqua che entra dai teloni sfondati. La situazione sanitaria precipita: l'Oms parla di cinquemila bambini in lista d'attesa per interventi essenziali, gli ospedali da campo giordani ed egiziani sospendono attività per mancanza di carburante, la diarrea infantile supera i diciassettemila casi settimanali. La guerra resta nel corpo dei bambini più di qualunque voto al Palazzo di Vetro. Dalle carceri arrivano notizie ancora peggiori. Medici per i Diritti Umani–Israele aggiorna a novantotto i morti in custodia dal 2023 e segnala altre quattordici persone scomparse senza notizie alle famiglie. Ex detenuti rilasciati ieri raccontano acqua razionata, luce accesa ventiquattr'ore, numeri al posto dei nomi. Sul piano politico Netanyahuì ha ribadito che Israele manterrà la “responsabilità di sicurezza” su Gaza «per tutto il tempo necessario», smentendo nei fatti l'architettura negoziale in discussione. Ai valichi, la normalità è l'intermittenza: Kerem Shalom ha aperto solo per sette ore, chiudendo con duecento camion di aiuti bloccati lato egiziano, comprese le macchine destinate alla ricerca degli ostaggi. E l'Europa manda segnali opposti: Berlino riapre all'export militare, mentre Dublino definisce la mossa «incompatibile con le garanzie umanitarie». In questo scenario, il voto dell'Onu esta un esercizio lontano. La realtà, qui, non aspetta i verbali. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Nel sud di Gaza, dove la tregua resta parola, gli aerei israeliani colpiscono ancora a est di Gaza City e nei pressi di Khan Yunis: civili feriti, un morto recuperato dalle macerie dei raid dei giorni scorsi. Nel frattempo, nei palazzi della diplomazia, avanza la proposta di una missione internazionale di «stabilizzazione». Nei comunicati si discute di mandati e regole di ingaggio, nei vicoli si continuano a contare i corpi. I corridoi umanitari vengono presentati come prova che «il meccanismo funziona», ma nei campi profughi decine di migliaia di persone vivono sotto la pioggia, senza tende adeguate né rifugi sicuri. Le prime piogge invernali trasformano il fango in acqua nera, aggravano l'emergenza sanitaria, spengono i generatori: la lunga fila di convogli che entra dalla frontiera non cambia l'aritmetica del collasso. A nord, la guerra “in pausa” resta solo nelle dichiarazioni. UNIFIL segnala che un carro armato israeliano ha sparato colpi pesanti a ridosso dei caschi blu lungo la Blue Line, episodio definito «grave violazione». In Cisgiordania un'altra operazione tra Nablus e i villaggi vicini lascia un palestinese ucciso e case devastate, mentre le aggressioni dei coloni proseguono lontano dai riflettori. Sul piano politico, Benjamin Netanyahu ripete che uno Stato palestinese «non sarà consentito», proprio mentre al Consiglio di Sicurezza si discute della futura forza per Gaza. A sud si amministrano tregue parziali, a nord si alzano muri di cemento, al centro si cancella qualsiasi orizzonte di rappresentanza. A Gaza «stabilizzazione» è il nome di un equilibrio costruito sul rumore dei droni. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

16 novembre. A Gaza l'inverno entra dalle fessure. Le tende degli sfollati affondano sotto la pioggia, i bambini raccolgono l'acqua con le mani, l'Unrwa ripete che i rifornimenti per il freddo restano fermi ai valichi e che le restrizioni israeliane violano il diritto internazionale. La tregua sembra un telo bagnato che non regge. A New York si prepara il voto sul piano americano per il dopo-Gaza, mentre la Russia rilancia un testo alternativo che cancella l'autorità di transizione immaginata dagli Usa. In parallelo, l'esercito israeliano lavora già all'ipotesi di un collasso della tregua: un dettaglio che vale più di molte dichiarazioni. Sul fronte nord il Libano porta all'Onu il reclamo contro il muro costruito da Israele, definito una ferita alla propria sovranità. È il segno che la “calma” non ha smesso di scricchiolare. La contabilità dei corpi continua a scorrere su due lati: a Tel Aviv le famiglie tornano in piazza per chiedere il rientro degli ultimi tre ostaggi; a Gaza arrivano altre quindici salme, una lista che supera le trecento e che resta in gran parte senza nome. Lo stesso giorno Abu Mazen compie novant'anni, icona di un'Autorità palestinese che partecipa ai colloqui sulla “fase successiva” da una posizione sempre più laterale. In Italia Tajani ripete la formula del «rafforzare la tregua» e guarda al voto di lunedì, legando l'esito alle scelte di Cina e Russia. La Cisl consegna 553mila euro alla Croce Rossa e richiama l'unico orizzonte possibile, «due popoli, due Stati», mentre nelle città italiane restano i gesti minimi: i ventimila nomi dei bambini di Gaza scritti dai loro coetanei a Brescia; una madre e un bimbo accolti in parrocchia; un blitz per ricordare che il silenzio consuma. L'ambasciatore israeliano in Italia dice che il problema non è il governo, ma l'opinione pubblica. A Gaza, sotto l'acqua, il problema ha un altro nome: sopravvivere alla tregua. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Le prime piogge sono arrivate a Gaza come un'altra forma di assedio. Le tende si riempiono d'acqua, le latrine tracimano, gli sfollati spostano i materassi da un angolo all'altro per salvarli dall'umidità. L'85% delle infrastrutture idriche e fognarie è distrutto e l'inverno entra da ogni fessura mentre la tregua del 10 ottobre resta una parola che non riesce a proteggere nessuno. Dentro questa pausa armata si è disegnata la nuova geografia del dopoguerra: la “Yellow Line” che taglia la Striscia da nord a sud, la metà orientale sotto controllo militare, la metà occidentale lasciata alla sopravvivenza tra tende e macerie. In quaranta giorni di “cessate il fuoco” sono stati uccisi centinaia di palestinesi in scontri, raid isolati o colpi sparati ai checkpoint. È un conflitto che ha cambiato intensità, non logica. Fuori dal cono di luce delle trattative internazionali, la Cisgiordania scivola in una routine di violenza che nessun tavolo diplomatico riesce a nominare. A Salfit una moschea è stata incendiata dai coloni; nei villaggi gli ulivi vengono sradicati durante la raccolta; a Nablus e Hebron gli attacchi notturni sono ormai un'abitudine. Le ONG documentano pestaggi, incendi, aggressioni: un sistema di impunità che si consolida mentre la comunità internazionale discute di “stabilizzazione”. A New York le grandi potenze trattano modelli di controllo, forze straniere, governance futura. Intorno alle parole “pace duratura” si muove un laboratorio geopolitico che somiglia poco alla vita dei campi allagati, delle fogne rotte, dei valichi dove i camion degli aiuti entrano col contagocce. Il diario di oggi finisce dove inizia il paradosso: si disegna il futuro di Gaza senza guardare a Gaza. In quelle tende fradice, sotto quella pioggia sporca, c'è già la risposta che nessuna risoluzione riesce a vedere. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Nel documento interno della brigata Givati trapelato ieri c'è una riga che racconta più di molte conferenze stampa. Il 19 novembre 2024 un corrispondente militare parla di «circa 40 terroristi» uccisi mentre tentavano di fuggire da Jabalia sotto pioggia e nebbia. Nel foglio Excel ufficiale, però, quel giorno i morti registrati sono dieci, due il giorno prima. Trenta persone che scompaiono nella contabilità della guerra, inghiottite da una parola che le assorbe tutte: «terrorista». È in quella discrepanza che si vede come una tregua possa convivere con un archivio che continua a cancellare. Sul terreno la tregua resta una formula diplomatica. A Beit Lid, in Cisgiordania, oltre cinquanta coloni mascherati hanno incendiato camion, terre agricole, una fabbrica, ferendo quattro palestinesi. Nelle agenzie scorrono altre violenze: una moschea bruciata nel nord, scritte razziste, minacce persino ai soldati israeliani. A Gaza i raid su Khan Yunis e Beit Lahia continuano a intermittenza: un morto a Jabalia, demolizioni di siti definiti “oltre la Linea Gialla”. Il senatore Rubio avverte che la violenza dei coloni può far saltare la tregua, mentre nello stesso giorno invoca una forza multinazionale di “stabilizzazione”. Due piani paralleli che non si toccano. Nei palazzi, infatti, si lavora sulla narrazione. Il G7 Esteri in Canada dice di occuparsi di «Gaza e tensioni emergenti», mentre Trump scrive a Herzog chiedendo la grazia per Netanyahu in pieno processo. Macron autorizza le aziende israeliane della difesa al salone di Parigi. In Italia si parla sempre meno delle violazioni della tregua e il silenzio del governo. Resta la stessa lezione: nei conflitti e nelle politiche, ciò che non viene registrato smette di esistere. A Gaza e in Cisgiordania spariscono vite; altrove spariscono responsabilità. Il metodo è identico: correggere i numeri e sperare che il mondo guardi altrove. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

12 novembre. Il valico di Zikim è stato riaperto per far entrare aiuti umanitari nel nord della Striscia. Israele lo definisce un segnale di fiducia, ma nello stesso momento riprendono i bombardamenti su Beit Lahiya e Jabalia. Secondo la BBC, oltre millecinquecento edifici sono stati demoliti durante la tregua. La pace, nei comunicati, resta un verbo al futuro. L'Unicef denuncia un milione di siringhe bloccate ai valichi e cinquemila bambini in attesa di cure. A passare sono solo i carichi “approvati”, mentre Singapore invia cento protesi per amputati: un gesto simbolico in un sistema sanitario che non riesce più a operare. La retorica della ricostruzione arriva prima della possibilità di curarsi. Intanto Israele approva una legge che consente di oscurare media stranieri e chiudere redazioni considerate “ostili”. Gaza resta sigillata anche per l'informazione. Fnsi, Ordine dei Giornalisti e Movimento Giustizia e Pace chiedono all'Europa di intervenire: quasi trecento reporter palestinesi sono stati uccisi dall'inizio della guerra. Alessandra Costante avverte: «Non vogliamo colonizzare la notizia, vogliamo verificarla». In Cisgiordania, coloni mascherati attaccano villaggi nell'area di Tulkarem. L'esercito parla di episodi “intollerabili” che “minano la stabilità”. La stessa parola che il G7 in Canada usa per definire la regione, mentre Il Cairo e Ankara discutono di una forza di stabilizzazione. Tajani rivendica il ruolo dell'Italia nella ricostruzione, ma sul terreno la tregua continua a produrre macerie. In Israele esplode la polemica per la chiusura della radio delle Forze armate decisa dal ministro Katz, mentre Trump scrive a Herzog chiedendo la grazia per Netanyahu. Nella grammatica politica degli annunci la pace è un titolo, non una condizione. Sul campo, invece, la tregua si misura nei silenzi, nei varchi selettivi e nelle voci che non possono entrare. #LaSveglia per La Notizia Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Perfino la cosiddetta tregua ha un suono di metallo. Nella notte Gaza City ha sentito i droni, Khan Younis i colpi d'artiglieria: l'agenzia Wafa segnala demolizioni nel quartiere di Zeitoun e mezzi israeliani che sparano a est della città, mentre sulla fascia occidentale i sorvoli non si sono fermati. È un cessate il fuoco che non smette di essere guerra, solo più amministrata e meno dichiarata. I numeri lo confermano. In Egitto è stato annunciato l'allestimento di 16 campi destinati a ospitare fino a 100 mila famiglie palestinesi: uno schema che stabilizza lo sfollamento invece di preparare il ritorno. Dentro Gaza, nuove aree di tende sono state montate nel complesso dei ministeri, oltre 400 strutture aggiuntive, mentre tre convogli di aiuti (circa 50, 30 e 40 camion) hanno raggiunto il nord. È soccorso di sopravvivenza senza un progetto politico di rientro, ricostruzione, autodeterminazione. La “forza di stabilizzazione” che dovrebbe gestire il dopo continua a svuotarsi. Gli Emirati hanno fatto sapere che «probabilmente» non parteciperanno perché manca un quadro chiaro: niente mandato, niente regole d'ingaggio, niente definizione su responsabilità e catena di comando. Non si mandano truppe dentro un vuoto. È un messaggio che vale per tutti i Paesi che finora hanno annunciato, esposto bandiere e poi rimesso le mani in tasca. A nord la situazione resta tesa: nelle ultime ore un'auto è stata colpita nei pressi di Sidone, nel sud del Libano, e a Houla alcuni edifici sono stati distrutti da esplosioni dopo colpi di artiglieria. Il confine resta una frontiera instabile che può riaccendere tutto. Tregua fragile, sfollamento normalizzato, missione senza pilastri: la guerra non scompare, cambia forma e si sposta di stanza in stanza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Da giorni si contano corpi. Si trattiene il respiro davanti ai numeri e poi si torna a scavare. Oggi la notizia che occupa il discorso pubblico israeliano è la restituzione dei resti del tenente Hadar Goldin, ucciso nel 2014. Un corpo riconsegnato, accompagnato da dichiarazioni solenni, telecamere, messaggi presidenziali. Un ritorno che viene celebrato come vittoria morale. Intanto, a Gaza, migliaia di corpi non hanno ancora un nome. Restano sotto il cemento, sotto le case sventrate, sotto ciò che resta delle strade. La strage si misura a strati, non a cifre. A Gaza le autorità sanitarie locali parlano di oltre 69 mila morti dall'inizio dell'offensiva. Ma il numero reale è più alto: migliaia di persone restano sotto le macerie. Quel che non si può contare non entra nei comunicati. Sul fronte umanitario, OCHA certifica che entrano solo poche decine di camion al giorno, contro i 500-600 necessari. L'UNRWA avverte che l'80% della popolazione è senza riparo adeguato. Le tende non reggono pioggia, vento, fango. L'inverno è atteso come un assedio: malattie respiratorie, ipotermia, mortalità infantile. Non è previsione, è aritmetica della sopravvivenza. Sul terreno, l'Idf annuncia quattro tunnel distrutti a Khan Yunis. Hamas risponde che «i combattenti non si arrendono». Frasi speculari che non cambiano nulla, ma servono a tenere fermo il conflitto, come se la guerra fosse un foglio su cui qualcuno continua a ripassare gli stessi tratti. E poi la politica. Il governo israeliano fa sapere che la Turchia è esclusa dalla futura forza multinazionale di gestione della Striscia. Intanto, Jared Kushner atterra a Gerusalemme: è l'ex consigliere e genero di Donald Trump, l'architetto degli Accordi di Abramo, l'uomo che ha lavorato per normalizzare i rapporti tra Israele e le monarchie arabe senza toccare la questione palestinese. Il suo ritorno non è anecdoto: significa riportare il conflitto al tavolo di chi lo ha trasformato in geopolitica di scambio, pace senza Palestina. Un corpo viene restituito. Migliaia restano senza un luogo. Una cerimonia militare, e attorno il rumore del cemento spezzato. La guerra continua a ripetersi. E adesso torna anche chi l'aveva vestita da accordo. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

C'è una tregua che trema a ogni ora e un “dopo” che si scrive già prima di seppellire i morti. A New York circola la bozza statunitense per una forza internazionale con mandato Onu e un organismo di transizione che dovrebbe “governare” Gaza per due anni. Washington la presenta come soluzione. Sul terreno, intanto, gli ordini sono di radere al suolo le gallerie rimaste, ripulire i quartieri, premere sugli ultimi nuclei combattenti. Le parole rassicuranti nei corridoi diplomatici e l'artiglieria che ancora si sente nella notte. Tutto insieme. Come se fosse normale. Dicono che la tregua “tenga”. A Gaza City tornano a muoversi le colonne di sfollati che inseguono l'illusione dell'acqua potabile. Nelle tendopoli del sud ci si scambia la posizione di un pozzo come si scambia una notizia di famiglia. Gli ospedali funzionano a sezioni stanche: reparti che si aprono e si richiudono, generatori che tossiscono. L'Ocha parla del 90% della popolazione costretta a spostarsi almeno una volta. Alcuni due, tre, quattro. La terra che scotta sotto i piedi. Ma c'è un'altra crepa che oggi faceva rumore nelle agenzie: giuristi militari israeliani avrebbero avvertito i vertici dell'esercito che esistono rischi concreti di responsabilità per crimini di guerra. Una nota interna, cauta, burocratica. Una frase che entra di colpo nella stanza dove fino a ieri dominava il “poi vedremo”. Non è giustizia. È soltanto la consapevolezza che un giorno qualcuno chiederà conto. E questo, in guerra, pesa. Intanto, a Istanbul e Ankara si discute del mandato Onu. Tutti d'accordo sulla cornice, nessuno pronto a firmare il cemento. Forza internazionale, ma chi la guida? Chi risponde? Chi indaga? Chi ricostruisce? Le mappe si disegnano in fretta. I bambini non ricrescono così. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Gaza conta ancora i dispersi. Nel quartiere Al-Daraj la Protezione civile parla di un edificio collassato, famiglie intrappolate sotto le macerie, i soccorritori che scavano a mani nude perché non resta più niente da usare. Il Comitato per le persone scomparse stima oltre diecimila corpi ancora sepolti. È una contabilità che non si chiude mai. Intanto, le storie hanno nomi precisi. Shaaban Mohammed Eid, portiere dell'Academy Al-Hilal, dieci anni, sogno semplice: diventare calciatore. È stato ucciso. “Ha raggiunto suo padre”, dice la famiglia. Un modo per tenere insieme il dolore in un posto in cui non esiste più la grammatica della vita quotidiana. In Cisgiordania la guerra ha un volto diverso, ma non meno violento. A Beit Rima le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa dell'ex detenuto Mazen Rimawi: famiglia bendata, fermata, trattenuta in salotto trasformato in stanza degli interrogatori. Alcuni rilasciati, altri arrestati. L'ultimo mese ha contato più di 540 fermi tra Cisgiordania e Gerusalemme, donne e minorenni inclusi. A Qatanna, a nord di Gerusalemme, una casa è stata demolita dai bulldozer, polvere che si posa sui vestiti come una bandiera che non chiede permesso. A nord, sul confine libanese, il cielo è stato tagliato da nuove ondate di raid. Colonne di fumo alte, abitazioni che tremano. Un conflitto che si accende a intermittenza, ma resta pronto a dilagare. Sul tavolo della diplomazia, si registra la consegna alla Croce Rossa dei resti di un ostaggio israeliano. Viene chiamato «segnale di progresso» nella tregua firmata il 10 ottobre. Ma la cronaca delle ultime ventiquattr'ore racconta altro: macerie, arresti, case che crollano, un bambino con i guanti da portiere che non potrà più crescere. Occhi su Gaza, si resta qui. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Khan Younis all'alba è un altopiano di macerie su cui un soldato israeliano gira un reel compiaciuto: «non è rimasta in piedi una casa», dicono i video che rimbalzano sui social. Poco dopo, un altro filmato riemerge dal 2016: un militare che sequestra la bicicletta a una bambina di sei anni. La guerra non inventa nulla, semmai toglie il velo. Stamattina, mentre la “tregua” esiste solo nei comunicati, a Gaza City si sentono nuovi passaggi di F-16 e una cintura di fuoco sull'est, documentata dai residenti. Il racconto di chi resta è sempre più corto: quante notti senza luce, quante salme da cercare all'alba. Le agenzie della notte registrano l'identificazione dei resti di Itay Chen, l'ostaggio israelo-americano consegnato giorni fa. Una squadra della Croce Rossa e di Hamas si è mossa verso est di Gaza City per cercare altri corpi. Dagli ospedali della Striscia arriva la nota più amara: Israele ha trasferito 15 cadaveri palestinesi. A Tel Aviv il ministro della Difesa ripete che l'obiettivo resta «smantellare Hamas e smilitarizzare la Striscia». È il lessico della permanenza, non della pace. Intanto filtrano indiscrezioni su un possibile comitato di gestione Gaza tra Hamas e Anp: un'ipotesi che vale, per ora, come misura della confusione politica. Fuori dal perimetro delle bombe il fuoco passa sugli archivi: Youtube ha cancellato centinaia di filmati che documentavano violazioni dei diritti umani, insieme ai canali di tre organizzazioni palestinesi. Il passato digitale si fa polvere come le case. E poi c'è l'Europa che si specchia: un cronista italiano è stato licenziato dopo una domanda semplice alla Commissione — se Mosca dovrà pagare la ricostruzione in Ucraina, Israele pagherà quella di Gaza? — mentre in Parlamento c'è chi annuncia interrogazioni sulla libertà di stampa. La domanda resta sospesa come il fumo sugli edifici sventrati. Chi pagherà tutto questo? Chi potrà raccontarlo, se raccontare diventa un reato di imbarazzo? Occhi su Gaza: oggi la notizia è che la rimozione non è solo un cratere, è anche una cancellazione. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La tregua che prometteva silenzio oggi parla con la voce dei feriti. Nella scuola Al-Zahra, trasformata in rifugio, un matrimonio si è concluso tra le urla: quattro bambini colpiti da schegge, dicono i medici locali. Al largo, cinque pescatori sono stati sequestrati, tre di loro fratelli. Accade dentro quella che Israele chiama «yellow line», la fascia che dovrebbe garantire sicurezza ai civili. Ogni giorno ne ride la realtà. A New York, intanto, si scrive il dopo. Gli Stati Uniti hanno presentato una bozza di risoluzione Onu che prevede una forza internazionale di stabilizzazione per Gaza, con mandato di due anni e obiettivo dichiarato di demilitarizzazione. Un «Consiglio di pace» gestirebbe sicurezza e ricostruzione insieme a Egitto, Israele e partner regionali. Nomi già sul tavolo: Indonesia, Azerbaigian, Turchia, Egitto. Ankara avverte che tutto dipenderà dal calendario del ritiro israeliano. La pace, ancora una volta, viene progettata fuori dal luogo in cui dovrebbe vivere. Israele ha consegnato quarantacinque corpi di palestinesi il giorno dopo la restituzione dei resti di tre soldati israeliani. A Kiryat Gat la direttrice dell'intelligence Usa Tulsi Gabbard supervisiona la «fase due» della tregua: Washington come garante, Tel Aviv come custode armata. Sullo sfondo, il parlamento israeliano discute la pena di morte per i terroristi, mentre nel Sud del Libano un'abitazione salta in aria e a Teheran migliaia di persone marciano contro Israele e Stati Uniti. Si chiama “stabilizzazione”, ma odora di commissariamento. A Gaza le bombe si fermano solo per il tempo necessario a cambiare il lessico della guerra. La tregua, come la chiamano nei palazzi, qui resta un verbo al futuro. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Israele ha ricevuto i resti di tre ostaggi, mentre da Erez sono arrivati a Gaza trenta corpi palestinesi «in gran parte solo ossa», come denuncia il ministero della Sanità. Dal 26 ottobre sono stati restituiti 255 cadaveri, ma solo 75 hanno un nome, 120 già sepolti in fosse numerate. Le famiglie cercano indizi nelle scarpe, nei brandelli di tessuto, nei segni lasciati dai bulldozer che hanno schiacciato case e corpi. È la tregua che amministra la morte e non la interrompe. A Tel Aviv è scoppiato un terremoto giudiziario. L'ex procuratrice generale dell'esercito Yifat Tomer-Yeroushalmi è stata arrestata nell'inchiesta sul video girato nel centro di detenzione di Sde Teiman, dove un prigioniero palestinese appare nudo, con costole fratturate e un polmone perforato. Cinque riservisti erano già stati incriminati per torture sistematiche. Secondo Haaretz, la magistrata avrebbe tentato di bloccare la diffusione delle immagini. È la crepa di un sistema che resiste finché l'orrore resta invisibile. Sul terreno, la tregua è una parola di carta. Le ultime 24 ore hanno visto nuovi bombardamenti su Khan Yunis e Rafah, almeno 17 morti secondo le autorità locali. L'ONU chiede accesso ai depositi forensi e ai centri di detenzione, ma Israele tace. Restano due verità: quella contabile degli scambi e quella materiale dei cadaveri. Finché nessuno potrà verificare cosa è accaduto a quei corpi – con autopsie indipendenti, accesso ICRC e catena di custodia trasparente – la tregua resterà solo una pausa nel rumore della menzogna. Intanto circolano nuovi filmati di detonazioni a est di Gaza e l'accusa del direttore Munir al-Bursh su giocattoli trappola lasciati tra le macerie: materiale da verificare con missioni terze e controllo ONU. Anche questo racconta il buio informativo in cui si chiede ai civili di sopravvivere. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Tel Aviv non vengono puniti gli stupratori, ma chi prova a mostrarne le prove. L'avvocata militare israeliana che aveva autorizzato la diffusione dei video degli abusi dell'Idf sui prigionieri palestinesi è stata rimossa dal suo incarico: la verità, in Israele, è trattata come un atto di tradimento e chi collabora con i giudici internazionali diventa subito un problema politico. È lo stesso schema che ha ucciso il chirurgo Adnan al-Bursh, morto dopo essere stato torturato e violentato in carcere. Si eliminano i testimoni, non i carnefici. Mentre il governo di Netanyahu sventola la tregua come un successo diplomatico, i numeri raccontano altro. Durante il cessate il fuoco sono entrati a Gaza solo 3.203 camion di aiuti, circa il 24% di quanto promesso. I camion di carburante, indispensabili per ospedali, desalinizzatori e forni, sono stati appena 115 su 1.100. Un decimo. È la fame amministrata come arma, la pace ridotta a punizione collettiva e a messaggio: chi resiste verrà affamato anche sotto la bandiera dell'ONU. Nella Cisgiordania occupata i coloni attaccano i contadini di Kafr Qaddum e Beit Lid, bruciano i campi sotto la protezione dell'esercito. A Gaza ovest due bambini, Fahd e Abdullah Nour, sono esplosi su un ordigno lasciato tra le macerie. L'81% degli edifici è distrutto, eppure si continua a contare solo i camion, come se la sopravvivenza fosse una partita contabile e non una città che prova a restare viva. L'Onu parla di «violazione deliberata» degli accordi e i Paesi arabi avvertono che, se Israele resterà dentro Gaza con le sue unità e con i suoi coloni, la tregua è già finita. Sembra così ovvio: non c'è tregua quando la fame diventa metodo, la terra viene erosa ogni giorno e la verità è un crimine da licenziamento. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La guerra d'Israele oggi si racconta più dalle mura delle caserme che dal fronte. La procuratrice generale dell'Idf, Yifat Tomer-Yerushalmi, è stata ritrovata viva dopo ore di scomparsa: la stessa che aveva ammesso di aver fatto diffondere il video delle torture su un detenuto palestinese a Sde Teiman. Quel filmato, secondo Netanyahu, sarebbe «l'attacco di propaganda più grave contro Israele». In realtà mostra il punto di rottura dentro l'esercito: quando la legalità implode, la verità filtra dall'interno. Nelle stesse ore, Hamas ha consegnato alla Croce rossa tre corpi di israeliani uccisi, mentre le forze israeliane hanno rivendicato nuovi raid a Gaza City e l'uccisione di un «terrorista». Secondo il movimento palestinese, i morti dopo la “tregua” sono già 236. È una pace amministrata da chi occupa, una tregua con diritto di fuoco unilaterale. Sul fronte nord, Katz annuncia che gli attacchi contro Hezbollah «saranno intensificati», e l'Idf rivendica l'uccisione di quattro miliziani in Libano. Ogni scandalo interno trova una distrazione esterna, ogni verità viene sepolta da un nuovo bombardamento. Intanto i numeri dicono che la guerra economica è totale: l'Organizzazione internazionale del lavoro calcola un crollo del 29 per cento dell'economia palestinese, con Gaza ridotta dell'87 per cento. È la prova che il cessate il fuoco non sospende la distruzione: la prolunga in silenzio, giorno dopo giorno, vita dopo vita. La scena di oggi è questa: una generale costretta a denunciare le torture del suo esercito, tre bare restituite da Hamas, un confine nord che brucia. Israele cerca di difendere la sua reputazione, ma la verità, come sempre, si difende da sola. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Gli Stati Uniti hanno offerto a Hamas un «passaggio sicuro» da Gaza verso le zone ancora sotto il suo controllo, scrive Axios. Non è un gesto umanitario: è l'ammissione che dopo due anni di guerra Israele non ha il controllo della Striscia e che Washington preferisce un ordine negoziato a una sconfitta proclamata. La tregua si regge così, su un equilibrio tra il fallimento militare e la convenienza politica. Nelle stesse ore, il Washington Post rivela che un rapporto interno del Dipartimento di Stato documenta «centinaia di possibili violazioni dei diritti umani» commesse da unità israeliane. Centinaia, ma nessuna conseguenza. La legge Leahy vieta di fornire armi a chi viola sistematicamente i diritti umani, ma per Israele si sospende anche la legge. È l'ipocrisia codificata: gli Stati Uniti registrano le prove dei crimini e allo stesso tempo continuano a fornire munizioni e copertura diplomatica. Sul terreno, la tregua è uno scambio di cadaveri. Hamas ha restituito le salme di due ostaggi israeliani, Israele ha risposto consegnando trenta corpi palestinesi. Sacchi neri senza nome, depositati negli ospedali di Khan Yunis che non hanno nemmeno gli strumenti per identificarli. Finora sono oltre duecento i corpi restituiti in questo baratto di morte. Ogni consegna diventa un atto politico: più corpi passi, più tregua compri. È l'esatto contrario del diritto umanitario. E l'Europa? Il governo italiano si accoda, parla di «stabilità» e tace sul meccanismo che produce questi scambi, perché metterlo in luce significherebbe ammettere che non c'è un processo di pace, c'è un'amministrazione del conflitto. È questa la tregua che ci raccontano: una tregua di resti umani, mentre Washington prepara la forza internazionale che dovrà amministrare le rovine. La guerra finisce, dicono. In realtà, cambia solo chi conta i morti. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Nel giorno in cui Trump e Xi si scambiano elogi per la “tregua riuscita”, a Gaza si contano altri 104 morti, tra cui 46 bambini, in 24 ore di bombardamenti. È la tregua celebrata nei palazzi: il 29 ottobre Washington parlava di «stabilizzazione» e oggi Axios rivela che gli Stati Uniti lavorano a una “forza internazionale” per gestire il dopoguerra, senza spiegare chi controllerà i territori né chi ricostruirà le case distrutte. Sul terreno la realtà è opposta. Israele ha eretto quasi mille nuove barriere in Cisgiordania dall'inizio della guerra, secondo Peace Now e confermato dall'ANP. Ogni villaggio diventa un'isola, ogni spostamento un atto sospetto. E nel frattempo ottantuno soccorritori turchi restano fermi al valico di Rafah: Israele non ha ancora dato l'autorizzazione all'ingresso dei convogli medici. A nord, nel Libano, un dipendente comunale è stato ucciso a Blida durante un nuovo attacco israeliano. Il presidente Michel Aoun ha ordinato all'esercito di «reagire a ogni incursione», mentre Hezbollah parla di «violazione della tregua». La missione ONU UNIFIL invita alla calma, ma ammette che la linea blu “non regge più”. Nel frattempo, Haaretz diffonde un video di un detenuto palestinese torturato in un centro israeliano: l'IDF annuncia un'indagine “interna”, la prima in due anni. E in Europa crescono le proteste contro le navi israeliane: a Corfù, cittadini bloccano l'approdo di una crociera; a Taranto, la USB denuncia l'arrivo della nave SeaSalvia con “un nuovo carico di morte”. La guerra, intanto, cambia solo tono: meno visibile, più metodica. Mille barriere, convogli bloccati, prigionieri picchiati. È la pace come architettura dell'assedio. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Gaza la cosiddetta tregua è diventata un interruttore. Israele la spegne, la riaccende, la sospende, la rinomina. Ieri notte, mentre il governo annunciava la “ripresa” del cessate il fuoco, i raid avevano già ucciso più di cento persone, tra cui trentacinque bambini. Poi, ieri alle nove del mattino, la tregua è tornata in vigore. Così dicono i comunicati. Ma i corpi non hanno avuto il tempo di essere contati. La giustificazione è sempre la stessa: «Hamas ha violato l'accordo». Un soldato israeliano ucciso a Rafah, un frammento di verità sufficiente a far ripartire i bombardamenti. Poi, quando la polvere si posa, la stessa autorità militare comunica che la tregua è ripristinata. È la pace a orologeria, con un dito solo sul pulsante. Il premier Benjamin Netanyahu guida un governo che decide unilateralmente cosa significhi “cessate il fuoco”, mentre resta formalmente ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra. Eppure gli Stati Uniti parlano ancora di «diritto alla difesa». Il linguaggio resta sempre lo stesso: amministrare la guerra fingendo la tregua. Nelle ultime ventiquattr'ore sono morte oltre cento persone, ventiquattro solo bambini, in quello che Israele chiama “azione lecita”. Gli ospedali di Gaza — già distrutti, senza corrente, senza farmaci — continuano a ricevere resti umani. Ogni volta che il governo israeliano proclama la fine dei raid, lo fa per poche ore, giusto il tempo di rivendicare la calma. Poi ricomincia. E allora ci si chiede cosa resti della parola “accordo”, se un esercito può accenderla e spegnerla come un faro. A Gaza la tregua non è un patto: è un privilegio concesso e revocato da chi bombarda. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Israele non riesce nemmeno a fingere una pace finta. La tregua che doveva segnare la “normalità” dopo mesi di genocidio è saltata al primo pretesto. Nella notte le bombe sono tornate su Jenin e Rafah, e la Cisgiordania è teatro di rastrellamenti: tre palestinesi uccisi, case sventrate, arresti a decine. I ministri Ben Gvir e Smotrich invocano di «distruggere Hamas», l'ex premier Bennett applaude. Netanyahu, stretto fra i falchi, riunisce il gabinetto di sicurezza: la pace serve solo a prendere tempo, non a cambiare rotta. Il patriarca Pizzaballa avverte che «con i leader di oggi la pace non ha futuro». Intanto i leader restano. Gaza vive nell'emergenza: oltre 70mila malati di epatite C, ospedali senza anestetici, corridoi che diventano obitori, bambini evacuati in Europa come trofei umanitari di una guerra che si ostina a chiamarsi tregua. Gerusalemme revoca lo stato d'emergenza per mostrare normalità, ma normalità è il rumore delle bombe, i checkpoint riaperti, le incursioni a Jenin, le granate al confine libanese, l'Egitto che spedisce camion di aiuti che restano fermi ai valichi. La verità è semplice: non c'è volontà politica di pace, c'è gestione del conflitto. Lessico bellico, contabilità dei cadaveri, propaganda che si traveste da diplomazia. La tregua era la pausa della menzogna. Oggi il copione ricomincia da capo: stessi attori, stesso finale sospeso. Fino alla prossima sirena, finché qualcuno scambierà per pace l'istante tra due esplosioni. E noi, qui, dobbiamo nominarlo senza giri di parole: punizione collettiva, occupazione, apartheid. Finché il diritto non varrà anche a Gaza, ogni tavolo negoziale sarà un set fotografico. E ogni bambino salvato, un promemoria dei molti lasciati indietro. Le sirene non tacciono. Ancora. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Nella luce arancione del tramonto, un soldato israeliano siede su una sedia di plastica e osserva una fila di civili palestinesi in ginocchio, mani legate, occhi bendati. La foto, diffusa dallo stesso esercito, arriva da Khan Younis e racconta una tregua che è solo il modo ordinato di amministrare l'umiliazione. Sempre a Khan Younis, un drone ha colpito un gruppo di civili: almeno due morti, tra cui bambini. In Cisgiordania, nella cittadina di Beit Awwa, un quindicenne palestinese – Nazeeh Iyad Awad – è in fin di vita dopo che un soldato gli ha lanciato una granata stordente alla testa mentre andava a scuola. L'ONU segnala che solo nel 2025 le forze israeliane hanno già ucciso 40 bambini palestinesi in Cisgiordania, incluso un bimbo di nove anni colpito a morte il 16 ottobre mentre giocava a calcio vicino Hebron. Da ottobre 2023, sono 213 i minori uccisi in Cisgiordania. In totale, quest'anno i palestinesi uccisi sono 198, un terzo solo nel governatorato di Jenin. L'Alto commissariato delle Nazioni Unite parla di «uso sistematico ed eccessivo» della forza. Durante la raccolta delle olive, i coloni hanno ferito oltre 100 persone e distrutto 3.000 alberi in 50 villaggi. Mentre più di 11.000 palestinesi restano detenuti, di cui 3.500 senza processo, almeno 77 sono morti in custodia dal 2023. E le demolizioni non si fermano: 1.300 strutture palestinesi abbattute nel 2025 perché prive di permessi israeliani. A Gaza, i medici preparano la sepoltura di 50 corpi restituiti da Israele, molti torturati, irriconoscibili. Gli stessi giorni in cui si parla di “ricostruzione”, come fosse una gara d'appalto su ossa ancora calde. La tregua è diventata il lessico pulito del genocidio a bassa intensità: ogni giorno numeri nuovi, ogni giorno un bambino in più, ogni giorno un ulivo in meno. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.