Dal lunedì' al venerdì, ogni mattina, il buongiorno. E poi le letture. E tutto quello che ci viene in mente.
Donate to Il #Buongiorno di Giulio Cavalli

C'è una tregua che trema a ogni ora e un “dopo” che si scrive già prima di seppellire i morti. A New York circola la bozza statunitense per una forza internazionale con mandato Onu e un organismo di transizione che dovrebbe “governare” Gaza per due anni. Washington la presenta come soluzione. Sul terreno, intanto, gli ordini sono di radere al suolo le gallerie rimaste, ripulire i quartieri, premere sugli ultimi nuclei combattenti. Le parole rassicuranti nei corridoi diplomatici e l'artiglieria che ancora si sente nella notte. Tutto insieme. Come se fosse normale. Dicono che la tregua “tenga”. A Gaza City tornano a muoversi le colonne di sfollati che inseguono l'illusione dell'acqua potabile. Nelle tendopoli del sud ci si scambia la posizione di un pozzo come si scambia una notizia di famiglia. Gli ospedali funzionano a sezioni stanche: reparti che si aprono e si richiudono, generatori che tossiscono. L'Ocha parla del 90% della popolazione costretta a spostarsi almeno una volta. Alcuni due, tre, quattro. La terra che scotta sotto i piedi. Ma c'è un'altra crepa che oggi faceva rumore nelle agenzie: giuristi militari israeliani avrebbero avvertito i vertici dell'esercito che esistono rischi concreti di responsabilità per crimini di guerra. Una nota interna, cauta, burocratica. Una frase che entra di colpo nella stanza dove fino a ieri dominava il “poi vedremo”. Non è giustizia. È soltanto la consapevolezza che un giorno qualcuno chiederà conto. E questo, in guerra, pesa. Intanto, a Istanbul e Ankara si discute del mandato Onu. Tutti d'accordo sulla cornice, nessuno pronto a firmare il cemento. Forza internazionale, ma chi la guida? Chi risponde? Chi indaga? Chi ricostruisce? Le mappe si disegnano in fretta. I bambini non ricrescono così. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Gaza conta ancora i dispersi. Nel quartiere Al-Daraj la Protezione civile parla di un edificio collassato, famiglie intrappolate sotto le macerie, i soccorritori che scavano a mani nude perché non resta più niente da usare. Il Comitato per le persone scomparse stima oltre diecimila corpi ancora sepolti. È una contabilità che non si chiude mai. Intanto, le storie hanno nomi precisi. Shaaban Mohammed Eid, portiere dell'Academy Al-Hilal, dieci anni, sogno semplice: diventare calciatore. È stato ucciso. “Ha raggiunto suo padre”, dice la famiglia. Un modo per tenere insieme il dolore in un posto in cui non esiste più la grammatica della vita quotidiana. In Cisgiordania la guerra ha un volto diverso, ma non meno violento. A Beit Rima le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa dell'ex detenuto Mazen Rimawi: famiglia bendata, fermata, trattenuta in salotto trasformato in stanza degli interrogatori. Alcuni rilasciati, altri arrestati. L'ultimo mese ha contato più di 540 fermi tra Cisgiordania e Gerusalemme, donne e minorenni inclusi. A Qatanna, a nord di Gerusalemme, una casa è stata demolita dai bulldozer, polvere che si posa sui vestiti come una bandiera che non chiede permesso. A nord, sul confine libanese, il cielo è stato tagliato da nuove ondate di raid. Colonne di fumo alte, abitazioni che tremano. Un conflitto che si accende a intermittenza, ma resta pronto a dilagare. Sul tavolo della diplomazia, si registra la consegna alla Croce Rossa dei resti di un ostaggio israeliano. Viene chiamato «segnale di progresso» nella tregua firmata il 10 ottobre. Ma la cronaca delle ultime ventiquattr'ore racconta altro: macerie, arresti, case che crollano, un bambino con i guanti da portiere che non potrà più crescere. Occhi su Gaza, si resta qui. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Khan Younis all'alba è un altopiano di macerie su cui un soldato israeliano gira un reel compiaciuto: «non è rimasta in piedi una casa», dicono i video che rimbalzano sui social. Poco dopo, un altro filmato riemerge dal 2016: un militare che sequestra la bicicletta a una bambina di sei anni. La guerra non inventa nulla, semmai toglie il velo. Stamattina, mentre la “tregua” esiste solo nei comunicati, a Gaza City si sentono nuovi passaggi di F-16 e una cintura di fuoco sull'est, documentata dai residenti. Il racconto di chi resta è sempre più corto: quante notti senza luce, quante salme da cercare all'alba. Le agenzie della notte registrano l'identificazione dei resti di Itay Chen, l'ostaggio israelo-americano consegnato giorni fa. Una squadra della Croce Rossa e di Hamas si è mossa verso est di Gaza City per cercare altri corpi. Dagli ospedali della Striscia arriva la nota più amara: Israele ha trasferito 15 cadaveri palestinesi. A Tel Aviv il ministro della Difesa ripete che l'obiettivo resta «smantellare Hamas e smilitarizzare la Striscia». È il lessico della permanenza, non della pace. Intanto filtrano indiscrezioni su un possibile comitato di gestione Gaza tra Hamas e Anp: un'ipotesi che vale, per ora, come misura della confusione politica. Fuori dal perimetro delle bombe il fuoco passa sugli archivi: Youtube ha cancellato centinaia di filmati che documentavano violazioni dei diritti umani, insieme ai canali di tre organizzazioni palestinesi. Il passato digitale si fa polvere come le case. E poi c'è l'Europa che si specchia: un cronista italiano è stato licenziato dopo una domanda semplice alla Commissione — se Mosca dovrà pagare la ricostruzione in Ucraina, Israele pagherà quella di Gaza? — mentre in Parlamento c'è chi annuncia interrogazioni sulla libertà di stampa. La domanda resta sospesa come il fumo sugli edifici sventrati. Chi pagherà tutto questo? Chi potrà raccontarlo, se raccontare diventa un reato di imbarazzo? Occhi su Gaza: oggi la notizia è che la rimozione non è solo un cratere, è anche una cancellazione. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La tregua che prometteva silenzio oggi parla con la voce dei feriti. Nella scuola Al-Zahra, trasformata in rifugio, un matrimonio si è concluso tra le urla: quattro bambini colpiti da schegge, dicono i medici locali. Al largo, cinque pescatori sono stati sequestrati, tre di loro fratelli. Accade dentro quella che Israele chiama «yellow line», la fascia che dovrebbe garantire sicurezza ai civili. Ogni giorno ne ride la realtà. A New York, intanto, si scrive il dopo. Gli Stati Uniti hanno presentato una bozza di risoluzione Onu che prevede una forza internazionale di stabilizzazione per Gaza, con mandato di due anni e obiettivo dichiarato di demilitarizzazione. Un «Consiglio di pace» gestirebbe sicurezza e ricostruzione insieme a Egitto, Israele e partner regionali. Nomi già sul tavolo: Indonesia, Azerbaigian, Turchia, Egitto. Ankara avverte che tutto dipenderà dal calendario del ritiro israeliano. La pace, ancora una volta, viene progettata fuori dal luogo in cui dovrebbe vivere. Israele ha consegnato quarantacinque corpi di palestinesi il giorno dopo la restituzione dei resti di tre soldati israeliani. A Kiryat Gat la direttrice dell'intelligence Usa Tulsi Gabbard supervisiona la «fase due» della tregua: Washington come garante, Tel Aviv come custode armata. Sullo sfondo, il parlamento israeliano discute la pena di morte per i terroristi, mentre nel Sud del Libano un'abitazione salta in aria e a Teheran migliaia di persone marciano contro Israele e Stati Uniti. Si chiama “stabilizzazione”, ma odora di commissariamento. A Gaza le bombe si fermano solo per il tempo necessario a cambiare il lessico della guerra. La tregua, come la chiamano nei palazzi, qui resta un verbo al futuro. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Israele ha ricevuto i resti di tre ostaggi, mentre da Erez sono arrivati a Gaza trenta corpi palestinesi «in gran parte solo ossa», come denuncia il ministero della Sanità. Dal 26 ottobre sono stati restituiti 255 cadaveri, ma solo 75 hanno un nome, 120 già sepolti in fosse numerate. Le famiglie cercano indizi nelle scarpe, nei brandelli di tessuto, nei segni lasciati dai bulldozer che hanno schiacciato case e corpi. È la tregua che amministra la morte e non la interrompe. A Tel Aviv è scoppiato un terremoto giudiziario. L'ex procuratrice generale dell'esercito Yifat Tomer-Yeroushalmi è stata arrestata nell'inchiesta sul video girato nel centro di detenzione di Sde Teiman, dove un prigioniero palestinese appare nudo, con costole fratturate e un polmone perforato. Cinque riservisti erano già stati incriminati per torture sistematiche. Secondo Haaretz, la magistrata avrebbe tentato di bloccare la diffusione delle immagini. È la crepa di un sistema che resiste finché l'orrore resta invisibile. Sul terreno, la tregua è una parola di carta. Le ultime 24 ore hanno visto nuovi bombardamenti su Khan Yunis e Rafah, almeno 17 morti secondo le autorità locali. L'ONU chiede accesso ai depositi forensi e ai centri di detenzione, ma Israele tace. Restano due verità: quella contabile degli scambi e quella materiale dei cadaveri. Finché nessuno potrà verificare cosa è accaduto a quei corpi – con autopsie indipendenti, accesso ICRC e catena di custodia trasparente – la tregua resterà solo una pausa nel rumore della menzogna. Intanto circolano nuovi filmati di detonazioni a est di Gaza e l'accusa del direttore Munir al-Bursh su giocattoli trappola lasciati tra le macerie: materiale da verificare con missioni terze e controllo ONU. Anche questo racconta il buio informativo in cui si chiede ai civili di sopravvivere. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Tel Aviv non vengono puniti gli stupratori, ma chi prova a mostrarne le prove. L'avvocata militare israeliana che aveva autorizzato la diffusione dei video degli abusi dell'Idf sui prigionieri palestinesi è stata rimossa dal suo incarico: la verità, in Israele, è trattata come un atto di tradimento e chi collabora con i giudici internazionali diventa subito un problema politico. È lo stesso schema che ha ucciso il chirurgo Adnan al-Bursh, morto dopo essere stato torturato e violentato in carcere. Si eliminano i testimoni, non i carnefici. Mentre il governo di Netanyahu sventola la tregua come un successo diplomatico, i numeri raccontano altro. Durante il cessate il fuoco sono entrati a Gaza solo 3.203 camion di aiuti, circa il 24% di quanto promesso. I camion di carburante, indispensabili per ospedali, desalinizzatori e forni, sono stati appena 115 su 1.100. Un decimo. È la fame amministrata come arma, la pace ridotta a punizione collettiva e a messaggio: chi resiste verrà affamato anche sotto la bandiera dell'ONU. Nella Cisgiordania occupata i coloni attaccano i contadini di Kafr Qaddum e Beit Lid, bruciano i campi sotto la protezione dell'esercito. A Gaza ovest due bambini, Fahd e Abdullah Nour, sono esplosi su un ordigno lasciato tra le macerie. L'81% degli edifici è distrutto, eppure si continua a contare solo i camion, come se la sopravvivenza fosse una partita contabile e non una città che prova a restare viva. L'Onu parla di «violazione deliberata» degli accordi e i Paesi arabi avvertono che, se Israele resterà dentro Gaza con le sue unità e con i suoi coloni, la tregua è già finita. Sembra così ovvio: non c'è tregua quando la fame diventa metodo, la terra viene erosa ogni giorno e la verità è un crimine da licenziamento. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La guerra d'Israele oggi si racconta più dalle mura delle caserme che dal fronte. La procuratrice generale dell'Idf, Yifat Tomer-Yerushalmi, è stata ritrovata viva dopo ore di scomparsa: la stessa che aveva ammesso di aver fatto diffondere il video delle torture su un detenuto palestinese a Sde Teiman. Quel filmato, secondo Netanyahu, sarebbe «l'attacco di propaganda più grave contro Israele». In realtà mostra il punto di rottura dentro l'esercito: quando la legalità implode, la verità filtra dall'interno. Nelle stesse ore, Hamas ha consegnato alla Croce rossa tre corpi di israeliani uccisi, mentre le forze israeliane hanno rivendicato nuovi raid a Gaza City e l'uccisione di un «terrorista». Secondo il movimento palestinese, i morti dopo la “tregua” sono già 236. È una pace amministrata da chi occupa, una tregua con diritto di fuoco unilaterale. Sul fronte nord, Katz annuncia che gli attacchi contro Hezbollah «saranno intensificati», e l'Idf rivendica l'uccisione di quattro miliziani in Libano. Ogni scandalo interno trova una distrazione esterna, ogni verità viene sepolta da un nuovo bombardamento. Intanto i numeri dicono che la guerra economica è totale: l'Organizzazione internazionale del lavoro calcola un crollo del 29 per cento dell'economia palestinese, con Gaza ridotta dell'87 per cento. È la prova che il cessate il fuoco non sospende la distruzione: la prolunga in silenzio, giorno dopo giorno, vita dopo vita. La scena di oggi è questa: una generale costretta a denunciare le torture del suo esercito, tre bare restituite da Hamas, un confine nord che brucia. Israele cerca di difendere la sua reputazione, ma la verità, come sempre, si difende da sola. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Gli Stati Uniti hanno offerto a Hamas un «passaggio sicuro» da Gaza verso le zone ancora sotto il suo controllo, scrive Axios. Non è un gesto umanitario: è l'ammissione che dopo due anni di guerra Israele non ha il controllo della Striscia e che Washington preferisce un ordine negoziato a una sconfitta proclamata. La tregua si regge così, su un equilibrio tra il fallimento militare e la convenienza politica. Nelle stesse ore, il Washington Post rivela che un rapporto interno del Dipartimento di Stato documenta «centinaia di possibili violazioni dei diritti umani» commesse da unità israeliane. Centinaia, ma nessuna conseguenza. La legge Leahy vieta di fornire armi a chi viola sistematicamente i diritti umani, ma per Israele si sospende anche la legge. È l'ipocrisia codificata: gli Stati Uniti registrano le prove dei crimini e allo stesso tempo continuano a fornire munizioni e copertura diplomatica. Sul terreno, la tregua è uno scambio di cadaveri. Hamas ha restituito le salme di due ostaggi israeliani, Israele ha risposto consegnando trenta corpi palestinesi. Sacchi neri senza nome, depositati negli ospedali di Khan Yunis che non hanno nemmeno gli strumenti per identificarli. Finora sono oltre duecento i corpi restituiti in questo baratto di morte. Ogni consegna diventa un atto politico: più corpi passi, più tregua compri. È l'esatto contrario del diritto umanitario. E l'Europa? Il governo italiano si accoda, parla di «stabilità» e tace sul meccanismo che produce questi scambi, perché metterlo in luce significherebbe ammettere che non c'è un processo di pace, c'è un'amministrazione del conflitto. È questa la tregua che ci raccontano: una tregua di resti umani, mentre Washington prepara la forza internazionale che dovrà amministrare le rovine. La guerra finisce, dicono. In realtà, cambia solo chi conta i morti. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Nel giorno in cui Trump e Xi si scambiano elogi per la “tregua riuscita”, a Gaza si contano altri 104 morti, tra cui 46 bambini, in 24 ore di bombardamenti. È la tregua celebrata nei palazzi: il 29 ottobre Washington parlava di «stabilizzazione» e oggi Axios rivela che gli Stati Uniti lavorano a una “forza internazionale” per gestire il dopoguerra, senza spiegare chi controllerà i territori né chi ricostruirà le case distrutte. Sul terreno la realtà è opposta. Israele ha eretto quasi mille nuove barriere in Cisgiordania dall'inizio della guerra, secondo Peace Now e confermato dall'ANP. Ogni villaggio diventa un'isola, ogni spostamento un atto sospetto. E nel frattempo ottantuno soccorritori turchi restano fermi al valico di Rafah: Israele non ha ancora dato l'autorizzazione all'ingresso dei convogli medici. A nord, nel Libano, un dipendente comunale è stato ucciso a Blida durante un nuovo attacco israeliano. Il presidente Michel Aoun ha ordinato all'esercito di «reagire a ogni incursione», mentre Hezbollah parla di «violazione della tregua». La missione ONU UNIFIL invita alla calma, ma ammette che la linea blu “non regge più”. Nel frattempo, Haaretz diffonde un video di un detenuto palestinese torturato in un centro israeliano: l'IDF annuncia un'indagine “interna”, la prima in due anni. E in Europa crescono le proteste contro le navi israeliane: a Corfù, cittadini bloccano l'approdo di una crociera; a Taranto, la USB denuncia l'arrivo della nave SeaSalvia con “un nuovo carico di morte”. La guerra, intanto, cambia solo tono: meno visibile, più metodica. Mille barriere, convogli bloccati, prigionieri picchiati. È la pace come architettura dell'assedio. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Gaza la cosiddetta tregua è diventata un interruttore. Israele la spegne, la riaccende, la sospende, la rinomina. Ieri notte, mentre il governo annunciava la “ripresa” del cessate il fuoco, i raid avevano già ucciso più di cento persone, tra cui trentacinque bambini. Poi, ieri alle nove del mattino, la tregua è tornata in vigore. Così dicono i comunicati. Ma i corpi non hanno avuto il tempo di essere contati. La giustificazione è sempre la stessa: «Hamas ha violato l'accordo». Un soldato israeliano ucciso a Rafah, un frammento di verità sufficiente a far ripartire i bombardamenti. Poi, quando la polvere si posa, la stessa autorità militare comunica che la tregua è ripristinata. È la pace a orologeria, con un dito solo sul pulsante. Il premier Benjamin Netanyahu guida un governo che decide unilateralmente cosa significhi “cessate il fuoco”, mentre resta formalmente ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra. Eppure gli Stati Uniti parlano ancora di «diritto alla difesa». Il linguaggio resta sempre lo stesso: amministrare la guerra fingendo la tregua. Nelle ultime ventiquattr'ore sono morte oltre cento persone, ventiquattro solo bambini, in quello che Israele chiama “azione lecita”. Gli ospedali di Gaza — già distrutti, senza corrente, senza farmaci — continuano a ricevere resti umani. Ogni volta che il governo israeliano proclama la fine dei raid, lo fa per poche ore, giusto il tempo di rivendicare la calma. Poi ricomincia. E allora ci si chiede cosa resti della parola “accordo”, se un esercito può accenderla e spegnerla come un faro. A Gaza la tregua non è un patto: è un privilegio concesso e revocato da chi bombarda. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Israele non riesce nemmeno a fingere una pace finta. La tregua che doveva segnare la “normalità” dopo mesi di genocidio è saltata al primo pretesto. Nella notte le bombe sono tornate su Jenin e Rafah, e la Cisgiordania è teatro di rastrellamenti: tre palestinesi uccisi, case sventrate, arresti a decine. I ministri Ben Gvir e Smotrich invocano di «distruggere Hamas», l'ex premier Bennett applaude. Netanyahu, stretto fra i falchi, riunisce il gabinetto di sicurezza: la pace serve solo a prendere tempo, non a cambiare rotta. Il patriarca Pizzaballa avverte che «con i leader di oggi la pace non ha futuro». Intanto i leader restano. Gaza vive nell'emergenza: oltre 70mila malati di epatite C, ospedali senza anestetici, corridoi che diventano obitori, bambini evacuati in Europa come trofei umanitari di una guerra che si ostina a chiamarsi tregua. Gerusalemme revoca lo stato d'emergenza per mostrare normalità, ma normalità è il rumore delle bombe, i checkpoint riaperti, le incursioni a Jenin, le granate al confine libanese, l'Egitto che spedisce camion di aiuti che restano fermi ai valichi. La verità è semplice: non c'è volontà politica di pace, c'è gestione del conflitto. Lessico bellico, contabilità dei cadaveri, propaganda che si traveste da diplomazia. La tregua era la pausa della menzogna. Oggi il copione ricomincia da capo: stessi attori, stesso finale sospeso. Fino alla prossima sirena, finché qualcuno scambierà per pace l'istante tra due esplosioni. E noi, qui, dobbiamo nominarlo senza giri di parole: punizione collettiva, occupazione, apartheid. Finché il diritto non varrà anche a Gaza, ogni tavolo negoziale sarà un set fotografico. E ogni bambino salvato, un promemoria dei molti lasciati indietro. Le sirene non tacciono. Ancora. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Nella luce arancione del tramonto, un soldato israeliano siede su una sedia di plastica e osserva una fila di civili palestinesi in ginocchio, mani legate, occhi bendati. La foto, diffusa dallo stesso esercito, arriva da Khan Younis e racconta una tregua che è solo il modo ordinato di amministrare l'umiliazione. Sempre a Khan Younis, un drone ha colpito un gruppo di civili: almeno due morti, tra cui bambini. In Cisgiordania, nella cittadina di Beit Awwa, un quindicenne palestinese – Nazeeh Iyad Awad – è in fin di vita dopo che un soldato gli ha lanciato una granata stordente alla testa mentre andava a scuola. L'ONU segnala che solo nel 2025 le forze israeliane hanno già ucciso 40 bambini palestinesi in Cisgiordania, incluso un bimbo di nove anni colpito a morte il 16 ottobre mentre giocava a calcio vicino Hebron. Da ottobre 2023, sono 213 i minori uccisi in Cisgiordania. In totale, quest'anno i palestinesi uccisi sono 198, un terzo solo nel governatorato di Jenin. L'Alto commissariato delle Nazioni Unite parla di «uso sistematico ed eccessivo» della forza. Durante la raccolta delle olive, i coloni hanno ferito oltre 100 persone e distrutto 3.000 alberi in 50 villaggi. Mentre più di 11.000 palestinesi restano detenuti, di cui 3.500 senza processo, almeno 77 sono morti in custodia dal 2023. E le demolizioni non si fermano: 1.300 strutture palestinesi abbattute nel 2025 perché prive di permessi israeliani. A Gaza, i medici preparano la sepoltura di 50 corpi restituiti da Israele, molti torturati, irriconoscibili. Gli stessi giorni in cui si parla di “ricostruzione”, come fosse una gara d'appalto su ossa ancora calde. La tregua è diventata il lessico pulito del genocidio a bassa intensità: ogni giorno numeri nuovi, ogni giorno un bambino in più, ogni giorno un ulivo in meno. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Nelle ultime ore il futuro di Gaza e Cisgiordania si sta scrivendo lontano dalle macerie, nei palazzi del potere. Benjamin Netanyahu ha scandito che sarà Israele a decidere «chi colpire» e quali forze internazionali potranno entrare nella Striscia, rivendicando un diritto di veto che trasforma la tregua in una gestione coloniale della pace. Parallelamente, il ministro dell'ultradestra Bezalel Smotrich ha invitato a una “campagna popolare” per spingere Donald Trump ad accettare l'annessione della Cisgiordania. La mappa del domani viene tracciata come se i palestinesi non esistessero. Hamas, dal canto suo, dichiara tramite le agenzie che è pronta a consegnare le armi solo «se finirà l'occupazione». La frase suona come la fotografia di un conflitto che non è una parentesi ma una struttura permanente. Intanto, i coloni continuano a impadronirsi della terra con la violenza quotidiana. Nella stagione della raccolta delle olive, le organizzazioni internazionali registrano oltre 150 attacchi contro contadini palestinesi solo in Cisgiordania. A Tulkarem un agricoltore crolla in lacrime dopo che il suo uliveto è stato raso al suolo: «Hanno rubato la nostra identità», racconta in un video. La distruzione dell'ulivo non è un danno economico: è un messaggio politico. Da Roma, nei summit sulla pace, si parla di «perseveranza» e «ascolto reciproco», mentre in terra palestinese la “normalizzazione” passa attraverso bulldozer, cani sguinzagliati e veti sul futuro. La tregua continua a essere solo una cornice diplomatica vuota: i padroni del campo restano gli stessi, e decidono perfino chi avrà il permesso di gestire la calma che segue la violenza. Anche oggi, per capire la verità, basta guardare un ulivo abbattuto. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Il calendario segna tregua, il bollettino segna morti. Novantatré da quando la parola «cessate» è stata appesa ai comunicati: altri diciannove in quarantotto ore, mentre a Khan Yunis risuonano esplosioni e a Gaza City si contano i crateri. È il copione della pace scenica: le luci accese sul palcoscenico della diplomazia, il fuoco che continua dietro le quinte. Sui cieli volano droni statunitensi per sorvegliare la tregua: se serve tecnologia militare per certificare la pace, vuol dire che la pace non c'è. Nel centro di coordinamento a guida americana entrano anche diplomatici e militari italiani: la nostra presenza dentro il dispositivo non cambia l'equazione sul terreno, ma la legittima. L'umanitario resta imbavagliato. La Croce Rossa avverte che impedire l'accesso moltiplica il dolore, Emergency parla di reparti allo stremo. Finché i camion passano a singhiozzo e gli ospedali restano senza farmaci, la tregua è un ponte di corda su un baratro. C'è poi la zona grigia che grigia non è: fonti mediatiche descrivono la costruzione di nuove milizie anti-Hamas sostenute da Israele e da alleati regionali. Se confermato, è la prova che si lavora alla guerra di domani dentro la tregua di oggi. Intanto l'ingresso di un team egiziano per recuperare resti di ostaggi racconta un'altra verità: la priorità politica sono i corpi, non la ricostruzione delle vite. Fuori dalla Striscia, la Cisgiordania è un elenco di aggressioni contro i contadini in raccolta: i coloni devastano gli ulivi, i soldati presidiano gli accessi. Chi parla di “disinnesco del conflitto” dovrebbe guardare quei rami spezzati: lì si vede l'annessione quotidiana, senza bandiere né firme. Oggi la parola che manca è responsabilità. Di chi bombarda durante la tregua, di chi ostacola i soccorsi, di chi arma nuove guerre per procura, di chi chiude gli occhi sulla Cisgiordania. Finché resta questo buio, la “pace” è una didascalia sotto un'immagine di macerie. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Nella tregua che ci raccontano come fragile promessa di pace, la fame continua a essere l'arma più disciplinata. Tra il 10 e il 21 ottobre, Israele ha negato l'ingresso a 17 organizzazioni umanitarie internazionali che da anni lavorano nella Striscia. Lo denuncia Oxfam insieme ad altre quaranta ong, indicando con precisione le forniture bloccate: acqua potabile, cibo, tende, medicinali. Cinquanta milioni di dollari di aiuti fermi ai valichi, imballati, congelati dall'arbitrio di un controllo che ha smesso di fingere neutralità. Il 94% dei rifiuti ha colpito ong internazionali, persino quelle registrate e autorizzate dalle stesse autorità israeliane. In tre quarti dei casi la motivazione è stata la più burocratica e violenta: “non autorizzate”. Anche quando lo erano. Novantanove richieste di accesso respinte in undici giorni, più sei presentate dalle agenzie ONU. La fame diventa un modulo respinto, un timbro negato, un registro che non viene controfirmato. La tregua, invece, diventa un recinto in cui il tempo si usa per fiaccare i corpi. Secondo Oxfam, il blocco sistematico degli aiuti è una scelta politica. È iniziato già a marzo, con l'assedio totale e la nuova procedura di registrazione imposta alle ong internazionali. Non un eccesso securitario: un disegno. Chi controlla il pane controlla il respiro. Chi decide quanta acqua entra decide chi può sopravvivere. Persino raccontare questa fame diventa sospetto: stamattina, un portavoce militare israeliano ha definito la maggior parte dei giornalisti della Striscia “terroristi”. Fame e silenzio: il genocidio a bassa intensità travestito da tregua ha bisogno di entrambi. Per questo tutti gli occhi devono restare su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Il genocidio non va in tregua. Mentre qualcuno celebra una pace che non esiste, i numeri raccolti da Medici Senza Frontiere cancellano ogni illusione: almeno 740 pazienti, tra cui 137 bambini, sono morti tra luglio 2024 e agosto 2025 in attesa di evacuazione; oltre 15.600 persone restano intrappolate in liste per trattamenti salvavita, un quarto sono minori. Solo 14 ospedali su 36 sopravvivono a regime ridotto, certifica l'OMS. Questa non è una tregua: è una sospensione amministrativa della morte, con il flusso di sangue regolato da chi tiene in mano la valvola. La Corte internazionale di giustizia ha stabilito che Israele è obbligato a consentire e facilitare gli aiuti umanitari, incluso l'accesso di UNRWA. Ventiquattr'ore dopo, un funzionario israeliano risponde che «UNRWA non metterà più piede a Gaza». Un no secco alla legalità internazionale, quasi rivendicato. Nel frattempo, i carri armati sparano ancora a Khan Yunis e Sheikh Nasser, mentre ufficialmente la tregua resta in vigore. Anche la verità continua a essere sequestrata: la Corte Suprema israeliana ha rinviato ancora di trenta giorni la decisione sull'accesso dei giornalisti a Gaza, lasciando sul tavolo la petizione della Foreign Press Association. Nel frattempo, le autorità israeliane liquidano un collaboratore della ZDF ucciso come «terrorista travestito da giornalista». Dentro questo palco di devastazione, la nuova relazione di Francesca Albanese, Relatrice speciale ONU, pronuncia parole definitive: il genocidio è un «crimine collettivo», reso possibile dalla complicità degli Stati che sostengono politicamente, militarmente e diplomaticamente Israele. Chi continua a parlare di pace copre il rumore dei carri che non si sono mai fermati. Chi continua a stringere mani sporche di embargo e veto, ne condivide il crimine. Per questo tutti gli occhi devono rimanere su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La tregua continua a produrre morti. Secondo i dati diffusi ieri da Gaza, 88 palestinesi sono stati uccisi e 315 feriti dall'inizio del cessate il fuoco. Israele ha restituito i corpi di altri 30 palestinesi: salgono a 195 i cadaveri consegnati durante quella che continua a essere definita “pace”. La tregua è un frigorifero che conserva solo il ritmo costante della morte. Gli aiuti, invece, marciscono fuori dai confini della Striscia: l'UNRWA denuncia circa seimila camion ancora in attesa di ingresso. La Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja ieri ha stabilito che Israele non ha fornito prove sui presunti legami tra UNRWA e Hamas e ha ordinato a Tel Aviv di consentire il passaggio degli aiuti, vietando l'uso della fame come arma di guerra. La risposta israeliana è stata di disprezzo: la sentenza è stata definita «vergognosa». Vergognosa, per loro, è la giustizia quando incrina il recinto dell'impunità. Nel frattempo l'Occidente continua a recitare la liturgia della responsabilità condivisa. Il vicepresidente Usa Vance parla di un «compito difficile» nel disarmare Hamas, ma condiziona ogni ipotesi di ricostruzione alla resa. Netanyahu ribadisce che nessuna truppa turca metterà piede a Gaza: anche i carcerieri devono essere selezionati. In Italia, Giorgia Meloni ha celebrato il piano Trump come un successo diplomatico e ha accusato le piazze solidali con Gaza di «cinismo» per aver trasformato la sofferenza in propaganda. C'è un ribaltamento morale quando chi sostiene una tregua che continua a produrre cadaveri si arroga il diritto di definire cosa sia etico. Il concime delle bombe, della fame e di un genocidio a bassa intensità è il nostro silenzio. Per questo tutti gli occhi devono rimanere su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Gaza, 21 ottobre. La tregua ha i numeri della carestia: su 6.600 camion di aiuti promessi ne sono entrati appena 986, in media 89 al giorno. Il World Food Programme denuncia che con due soli valichi aperti – Kerem Shalom e Kissufim – può garantire cibo a non più di mezzo milione di persone per due settimane. Il nord, dove la carestia è già cronica, resta irraggiungibile. Intanto la tregua si conta in morti. Il ministero della Sanità di Gaza calcola 87 vittime dall'annuncio del cessate il fuoco, altre fonti parlano di 97. Netanyahu ha rivendicato in Knesset di aver sganciato 153 tonnellate di ordigni solo domenica. Il linguaggio diplomatico dice fine della guerra, i dati raccontano la prosecuzione dell'assedio per altre vie. Sul terreno, Israele pianta pali alti 3,5 metri e blocchi di cemento ogni 200 metri per delimitare la cosiddetta “Linea Gialla”, un confine interno che separa i civili come in un campo a zone. Chi vi si avvicina rischia di essere “neutralizzato”. Mentre la Croce Rossa conferma la restituzione di 15 corpi palestinesi – 165 in tutto – con famiglie costrette a riconoscere resti spesso segnati da giorni di trattenimento, l'Europa mostra la sua gerarchia del dolore: la Germania nega l'ingresso ai bambini feriti, Trump minaccia un ritorno della forza “veloce, furiosa e brutale” se Hamas viola l'accordo. Medici Senza Frontiere apre una clinica a Gaza City e distribuisce acqua, ma è un cerino acceso dentro un tunnel di fame. La violenza è stata soltanto ridisegnata, non fermata. La tregua come finzione giuridica serve a lavare le mani del mondo, non a salvare vite. Il concime delle bombe, dell'affamare e del genocidio a bassa intensità portato avanti da Israele è il nostro silenzio, il nostro credere alla bugia criminale della pace. Per questo tutti gli occhi devono rimanere su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Gaza la tregua ha la forma di un lager circondato da blocchi di cemento alti tre metri, come confermato dall'esercito israeliano. L'Onu ha avuto il pudore di dire che questa “pace” non regge, mentre la politica occidentale e i quotidiani italiani continuano a venderla come un successo. Ma in questo recinto si continua a morire: nelle ultime 24 ore, secondo il ministero della Sanità di Gaza, altri 45 palestinesi sono stati uccisi, tra cui il giornalista Ahmad Asaad Abu Mutair, colpito mentre faceva il suo lavoro. A Gaza l'umanità è talmente capovolta che si muore anche in tempo di pace. I valichi che la propaganda annuncia “riaperti” restano un imbuto controllato da chi decide chi può sopravvivere. Nove Paesi europei hanno chiesto l'apertura reale di passaggi sicuri, ma Netanyahu festeggia con Trump e Kushner, mentre Meloni applaude a un modello di pace che tiene perfino i chirurghi in catene: Medici Senza Frontiere chiede il rilascio immediato del dottor Khaled Obeid, detenuto da Israele. In questo tempo sospeso, perfino chi dovrebbe curare è ostaggio di una tregua bavosa, costruita per compiacere i vincitori del racconto. Intanto una supporter Maga di Trump si gode i popcorn aspettando le bombe su Gaza come fosse una serie tv. E Paolo Mieli, dopo aver definito «sovrappeso» una candidata italo-palestinese in Campania, lancia un razzo verbale contro lo slogan «dal fiume al mare», fingendo di ignorare che la piattaforma del Likud rivendica che solo gli ebrei hanno diritto all'autodeterminazione “tra il fiume e il mare”. Qui si rovesciano le parole per assolvere i colpevoli. Non c'è niente di più pericoloso di una guerra che chiamano pace. Per questo dobbiamo tenere gli occhi su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Questa la chiamate pace? Oggi Rafah è stata colpita dai raid israeliani in risposta a un attacco contro soldati dell'Idf. In serata il ministero della Sanità di Gaza ha contato almeno 33 morti, poi 44, forse 45 secondo le ultime stime. Ogni volta la tregua viene dichiarata morta a colpi di bombe e poi resurrezione annunciata come fosse un atto di volontà divina. Questa la chiamate pace? Israele ordina la chiusura dei valichi e lo stop agli aiuti umanitari. Poi, dopo le telefonate degli Stati Uniti, riapre e annuncia che «il cessate il fuoco riprende». È una pace che si interrompe e si accende a piacimento, come un interruttore nelle mani di chi decide chi può vivere e chi deve morire. Questa la chiamate pace? Dal 10 ottobre, quando la finta tregua è stata firmata e celebrata come vittoria diplomatica, ci sono stati oltre 200 morti e centinaia di feriti. Ogni giorno una decina, venti, trenta corpi. Bambini, donne, uomini. Ogni giorno il genocidio riprende fiato e poi finge di fermarsi per ingannare gli allocchi che già si sentivano pronti a parlare di “fase post-conflitto”. Questa la chiamate pace? Si parla di Gaza come se il sangue potesse essere marketing, come se la morte potesse farsi brand. Nel frattempo i giornali del mondo iniziano a togliere Gaza dalle prime pagine, come se l'orrore potesse essere archiviato per stanchezza. La restituzione degli ostaggi è stata l'amo per gli allocchi. Hanno abboccato in fretta, convinti che il genocidio fosse stato sospeso. Ma a Gaza la guerra e il genocidio sono tornati. O forse non se ne sono mai andati. Per quello dobbiamo tenere gli occhi su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Gaza la pace non ha portato silenzio, ma il ronzio dei generatori: la luce manca, l'acqua pure, e la gente continua a sopravvivere come in guerra. Secondo Oxfam, a cinque giorni dal cessate il fuoco Israele blocca ancora gli aiuti e l'ingresso delle ong. Solo un valico aperto e 716 camion entrati in totale, quando ne servirebbero almeno 600 ogni giorno. Gli aiuti restano fermi ai confini, mentre nella Striscia si contano 450 morti di fame, tra cui 150 bambini. L'OMS parla di malattie “fuori controllo”: appena 13 ospedali su 36 sono parzialmente funzionanti, il resto è macerie. Nel nord non esiste più un reparto pediatrico. Il dottor Hussam Abu Safiya, che lo dirigeva, è stato condannato ad altri sei mesi di carcere senza accuse né processo. Amnesty International denuncia torture e sparizione forzata. È la stessa legge israeliana sui “combattenti illegali” che permette di imprigionare civili per tempo indefinito. Intanto Israele discute se cambiare nome alla guerra: Netanyahu vuole chiamarla “Guerra della Rinascita”. Un modo per cancellare la memoria prima che arrivi la verità. Sul terreno, il ministro della Difesa fa tracciare una “linea gialla” che taglia in due Gaza: oltrepassarla significa essere colpiti. Ci siamo già dimenticati quando il governo italiano si vantava di “aiuti umanitari per Gaza”. Oggi nessuno dice dove fossero visto che oggi si applaude alla “ripresa dei convogli”, anche se i camion passano accanto a coloni che usano bambini come scudi per bloccare la farina. Questa non è pace. È la stessa guerra che continua con altri mezzi: la fame, la burocrazia, le prigioni. La domanda resta la stessa: chi sono i colpevoli, e chi li farà pagare? #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Pace? No. Tregua? A Gaza la tregua è solo una parola svuotata, un atto di propaganda. Nelle ultime ore Israele ha ucciso sette persone, ne ha rapite nove, e ha restituito decine di corpi torturati alla Croce Rossa. Mani legate, corde al collo, segni di bruciature e tagli profondi sulla schiena: sono le prove di un sistema che non conosce vergogna. Quarantacinque cadaveri riconsegnati senza nome, come oggetti smarriti di una guerra disumana. Il Times of Israel racconta l'indagine su quattro riservisti accusati di aver violentato a morte un medico palestinese con una sbarra di ferro. I loro avvocati parlano di “autodifesa”. Autodifesa da chi? Da un prigioniero nudo, legato, in un campo di tortura. È la stessa logica che giustifica tutto: i corpi distrutti, le case rase al suolo, i bambini senza volto. Nel frattempo il valico di Rafah resta chiuso, e i giornalisti non possono entrare. Mosab Abu Toha, poeta palestinese, lo ha detto su Sky News: «Questo non è un cessate il fuoco». Rula Jebreal denuncia che Israele ha violato gli accordi bloccando gli aiuti umanitari e usando come pretesto il ritardo nel recupero dei resti degli ostaggi. Ogni scusa è buona per ricominciare. A Gaza la pace non è arrivata. Ha solo cambiato nome. I camion restano fermi, i corpi si accumulano, le parole si sporcano. E l'Occidente, che si crede civilizzato, osserva in silenzio. Perché qui non c'è tregua: c'è solo la pausa tra due bombardamenti. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Gaza la pace continua a essere un modo elegante per dire che la guerra ha cambiato forma. Oggi, mentre a Palazzo Chigi si discute di «ricostruzione» e il ministro Tajani la chiama «svolta storica», le autorità locali aggiornano il bilancio a 67.938 morti. Poche ore fa due palestinesi sono stati uccisi a est di Gaza City, altri corpi sono stati consegnati senza nome, e il valico di Rafah è rimasto chiuso. Quattrocento camion di aiuti aspettano ancora il permesso di entrare, mentre le famiglie restano accampate tra le rovine, in attesa di sacchi di farina che non arrivano. Nella Striscia la fame e la sete hanno preso il posto dei droni. L'acqua resta sotto i sei litri al giorno per persona, gli ospedali funzionano al sedici per cento, la carestia è totale. È la definizione esatta di genocidio a bassa intensità, come lo chiamano i giuristi dell'Onu: una morte lenta, calcolata, con la burocrazia al posto delle bombe. L'assedio è diventato la nuova normalità, una prigione amministrata da chi decide chi può respirare e chi no. Eppure da Roma si parla di «ripartenza». Il governo annuncia un inviato speciale e promette «scuole nuove» dove non ci sono più bambini. L'Europa si limita a riattivare missioni “in standby” e a ripetere che serve una pace “giusta e duratura”. Ma la giustizia non è nei dossier: è sepolta sotto le macerie insieme ai nomi delle vittime. Nelle stesse ore, a Khan Younis e Rafah si continua a scavare con le mani, tra le tende e la polvere, per ritrovare corpi che nessuno registra più. Gaza non è in ricostruzione. È ancora sotto assedio. E ogni volta che qualcuno pronuncia la parola “pace” mentre l'acqua resta chiusa, quel silenzio fa più rumore di un bombardamento. Per questo tutti gli occhi devono restare su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

(*Quando abbiamo registrato il video i morti a Shuja'iyya erano 6. I dati più recenti parlano di 9 vittime. 44 sono le vittime totali di ieri) Non hanno fatto in tempo ad asciugare i bicchieri del prosecco che la cosiddetta pace a Gaza già si mostra per quello che è. Nove civili palestinesi, secondo l'agenzia Wafa, sono stati uccisi ieri a Shuja'iyya da droni israeliani mentre tornavano tra le macerie delle loro case. Israele sostiene che si trovassero in una “zona vietata”. Come se l'intera Striscia non fosse ormai un'unica zona vietata alla vita. Netanyahu, intanto, fa l'unica cosa che sa fare: minaccia. È l'unico linguaggio del suo governo, quello della violenza e dell'oppressione. Ma mentre i droni riprendono a colpire, un'altra offensiva, più silenziosa, si consuma in rete: Instagram ha cancellato l'account del giornalista Saleh al-Jafarawi, ucciso nei giorni scorsi. Aveva oltre 4 milioni e mezzo di follower. Le sue immagini, le testimonianze del genocidio, sparite anche dagli archivi. Una rimozione sistematica, più rapida delle stesse ruspe chiamate alla “ricostruzione”. A Jabalia si continua a combattere: scontri tra forze di sicurezza di Hamas e gruppi armati sostenuti da Israele, riferisce Al Jazeera. All'ospedale di Khan Yunis arrivano nuovi feriti. A Shuja'iyya i corpi vengono recuperati da chi non aveva più nulla da perdere. Questa non è una pace, perché non c'è giustizia. Non quella del diritto internazionale, con la Croce Rossa trattata come un fastidio, né quella morale, negata a un popolo ridotto all'apolidia e al silenzio. Non è fragile la pace. Quella non esiste. È fragile la sopravvivenza e la libertà di Gaza, semplicemente perché l'una non è garantita e l'altra non è contemplata in quel piano che tutti celebrano. Per questo tutti gli occhi devono restare su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Gli ostaggi sono stati liberati. È una buona notizia, in un mare di notizie che non lo sono da troppo tempo. Hamas ha rilasciato venti persone ancora in vita dopo 738 giorni di prigionia. Le immagini da Tel Aviv mostrano genitori e figli che si riabbracciano, mentre a Ramallah la folla accoglie i palestinesi rilasciati dalle carceri israeliane, molti dei quali avevano trascorso anni dietro le sbarre senza accuse formali. Sono anche loro ostaggi: di uno Stato che ha fatto della detenzione amministrativa una normalità giudiziaria. A proposito di giustizia, ieri Benjamin Netanyahu ha parlato in diretta sulle televisioni di tutto il mondo. Non dal banco degli imputati della Corte penale internazionale, dove dovrebbe rispondere delle migliaia di civili uccisi a Gaza, ma dalla Knesset, insieme al suo amico Donald Trump. Il tycoon americano, accolto con una standing ovation, lo ha definito «uno dei più grandi presidenti in tempo di guerra», chiedendo persino al presidente israeliano Herzog di concedergli la grazia. «Sigari e champagne, a chi diavolo importa?» ha aggiunto, trasformando il massacro in uno spettacolo di nostalgia bellica e impunità. Intanto Trump, interrogato dai giornalisti sull'idea della “Gaza Riviera”, ha risposto: «È devastata, come un cantiere di demolizione. Ma col tempo diventerà bellissima». È la stessa frase che accompagna ogni colonizzazione: cancellare, ripulire, costruire sopra. In Israele si applaude, in Occidente si sorride di circostanza, e in Rai qualcuno si affanna per riscrivere la storia e rendere digeribile l'osceno. Ma le macerie restano lì, come testimoni di una verità che nessun talk show può occultare. Ora lo spettacolo è finito, gli amici se ne vanno, e se consentiamo che si spengano le luci su Gaza arriveranno gli avvoltoi pronti ad abbuffarsi. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Oggi, a Sharm el-Sheikh, andrà in scena la liturgia della “pace”: tavolo lucido, bandiere allineate, firme che scivolano sul foglio. È un cessate il fuoco vestito da trattato, senza una riga sulla giustizia. Chi sale sul palco ha parlato di camion, cantieri, governance; nessuno ha chiesto tribunali, prove, responsabilità. Donald Trump rivendica una «nuova Gaza» fatta di infrastrutture e «600 camion al giorno» di aiuti. Abdel Fattah al-Sisi insiste sulla «stabilizzazione» e sulla ricostruzione immediata con una presenza internazionale. Giorgia Meloni ringrazia Trump e annuncia che l'Italia «è pronta a contribuire a stabilizzazione, ricostruzione e sviluppo». Keir Starmer parla di «implementare senza ritardi» e di far entrare gli aiuti. Emmanuel Macron evoca una «forza di stabilizzazione» e una Autorità Palestinese riformata. Tutti dicono “prima i lavori”. Nessuno dice: prima i processi. Sul tavolo non c'è l'accertamento dei crimini di guerra, non c'è la cooperazione con la Corte penale internazionale, non c'è il nome dei responsabili. C'è un manuale di project management: rimozione macerie, corridoi logistici, porti e aeroporto, il lessico delle grandi opere che arriva sempre un minuto prima della verità. Gaza intanto conta i morti, i mutilati, le case spianate, i campi bruciati. Il ritorno dei profughi avviene tra cumuli e promesse. La «pace» presentata oggi non restituisce le vite, non ripara le colpe, non riconosce la vittima. È un condono politico ed economico calato dall'alto su un popolo a cui si chiede di ripartire senza giustizia. Finché la giustizia resta fuori dalla sala, quella firma resta una scenografia. Tutti gli occhi su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Molti giornali, festanti e sconnessi dalla realtà perché offuscati dalla propaganda di pace – che poi è solo propaganda di guerra vestita di bianco – raccontano che gli abitanti di Gaza starebbero “tornando a casa”. Le foto che accompagnano quei titoli mostrano volti smarriti. Ma no, non ci sono case: Gaza in macerie, appunto. Dopo quasi due anni di assedio e bombardamenti, oltre 191.000 edifici sono stati distrutti o gravemente danneggiati, più del 92 % degli alloggi; il 92 % delle strade primarie è in rovina. Sessantasettemila palestinesi, per lo più civili – compresi migliaia di bambini – hanno perso la vita e circa 170.000 sono rimasti feriti. Oltre l'80 % delle terre agricole è stato distrutto o reso inaccessibile; scuole, ospedali e siti culturali giacciono a terra. Solo 14 ospedali su 36 restano parzialmente operativi. Questa sarebbe la legittima difesa di chi oggi reclama di costruire la pace. Mentre l'Europa applaude al cessate il fuoco come se fosse la fine di una guerra, le bombe cadono sul Libano. Ieri i raid israeliani hanno colpito Tiro e Baalbek, con vittime civili e infrastrutture ridotte in cenere. È la stessa musica, cambiato solo il fronte: il suono della “pace” è quello delle esplosioni. Da Israele arriva intanto la notizia che due medici palestinesi non saranno rilasciati: il dottor Hussam Abu Safiya, pediatra e direttore dell'ospedale Kamal Adwan, arrestato insieme a 240 tra medici, infermieri e pazienti, e il dottor Marwan al-Hams, responsabile degli ospedali da campo. Nelle stesse ore in cui la propaganda celebra la “ricostruzione”, i testimoni italiani rientrati da Israele raccontano violenze e abusi subiti nei centri di detenzione: pestaggi, privazione del sonno, sequestri di telefoni e documenti. A Gaza, la protezione civile continua a scavare sotto le macerie: trentacinque corpi recuperati nelle ultime ore, diciannove solo a Gaza City. Le immagini mostrano famiglie che camminano sulle rovine delle proprie case, con lo sguardo fisso sull'orizzonte: nessuno di loro sa dove dormirà stanotte. La ciurma di terra ha un solo imperativo: tenere la rotta e gli occhi dritti su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

I bambini di Gaza sono tornati bambini. Gli stessi che fino a ieri i giornali occidentali chiamavano «terroristi» e oggi mostrano sorridenti in prima pagina, per usare le loro fotografie come strumenti di propaganda della pace. Bastano quelle immagini per misurare l'ipocrisia di chi racconta la guerra a giorni alterni, scegliendo di vedere l'infanzia solo quando serve a ripulire le coscienze. Nelle ore successive all'annuncio del cessate il fuoco, decine di migliaia di palestinesi hanno iniziato a rientrare a piedi nel nord e a Gaza City, tra colonne di sabbia e macerie. La Croce Rossa ha parlato di «accesso umanitario urgente» e del recupero di 35 corpi. Da Roma, il presidente Sergio Mattarella ha chiesto che «gli aiuti arrivino in modo immediato e massiccio» e che il piano di pace «preveda pieno accesso umanitario e coinvolga l'Onu». Parole che valgono come un'ammissione implicita: fino a ieri, gli aiuti non arrivavano davvero, contrariamente a quanto hanno ripetuto Israele, Meloni e molti altri. Mattarella ha aggiunto che «la pace dovrà coinvolgere i giovani palestinesi» che però non ci sono nel cosiddetto piano di pace. Ha ricordato anche che «una pace vera esiste solo con due popoli e due Stati», lo stesso impegno che Meloni aveva promesso “subito dopo la liberazione degli ostaggi”. Attendiamo, dunque, la prossima settimana per il suo decreto. Intanto gli italiani della Freedom Flotilla sono rientrati nel Paese: parte dell'equipaggio è stata liberata e ha lasciato il Negev. Le umiliazioni e le violenze sono sempre le stesse. Questa pace inflitta conterà sul condono delle responsabilità del genocidio. Per questo tutti gli occhi devono restare su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Gaza oggi si respira un sollievo fragile. La notizia del cessate il fuoco annunciato da Trump ha portato un attimo di respiro a una popolazione allo stremo, ma la speranza è attraversata da troppi dubbi. Come raccontano i corrispondenti di Al Jazeera, mentre qualcuno festeggia l'accordo, altri non possono nemmeno tornare alle proprie case: l'esercito israeliano blocca ancora la strada costiera e spara. A Khan Younis, nelle stesse ore dell'annuncio, un bombardamento ha ucciso almeno una persona e ne ha ferite altre. Il piano prevede una tregua di 72 ore e uno scambio di prigionieri, ma Israele continuerà a controllare più della metà della Striscia. Nella lista degli scarcerati non c'è Marwan Barghouti, il leader politico palestinese che avrebbe potuto segnare l'inizio di un nuovo percorso di rappresentanza. La sua esclusione racconta tutto: la pace che si vuole costruire è una pace senza voce palestinese. Intanto, nelle carceri israeliane restano anche le persone della Freedom Flotilla e Thousand Madleens che sono in condizioni di detenzione illegali nella prigione di Ketziot, dove – secondo testimonianze dirette – i prigionieri subiscono umiliazioni, schiaffi, violenze fisiche e psicologiche. Il mondo applaude al “cessate il fuoco”, ma le armi non tacciono e i detenuti civili non vengono liberati. È il paradosso di un accordo che promette la pace continuando a occupare, che si firma sopra le macerie di Gaza. In attesa del cessate il fuoco con l'ombra di un'occupazione legalizzata, di una mangiatoia d'affari per i governi occidentali e con l'onta di un riconoscimento di un genocidio che non può passare in secondo piano. Non esiste pace se non esiste giustizia per gli orrori commessi. Non esiste pace per un popolo se non esiste il suo Stato. Tutti gli occhi su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

All'alba di ieri l'esercito israeliano ha intercettato una nuova flottiglia umanitaria coordinata da Freedom Flotilla–Thousand Madleens e diretta a Gaza, a circa 120 miglia nautiche dalla costa. Dieci imbarcazioni, 145 persone tra medici, giornalisti e attivisti di venti Paesi, sono state sequestrate e portate ad Ashdod. È la seconda operazione in una settimana contro missioni civili che trasportavano cibo e medicinali. Israele parla di “applicazione del blocco”, ma il diritto del mare parla di pirateria: erano acque internazionali, non zona di guerra. Le comunicazioni in diretta sono state interrotte dai militari; da Istanbul, gli organizzatori denunciano «un rapimento politico» e «la distruzione di aiuti umanitari destinati agli ospedali di Gaza». Mentre il mare si chiude, la Striscia continua a bruciare. Ieri i bombardamenti hanno colpito Deir al-Balah e Rafah: almeno 28 morti, tra cui 11 bambini. I droni hanno centrato una scuola usata come rifugio. L'UNRWA parla di «cimitero di famiglie». Le forniture d'acqua restano interrotte da tre giorni nel nord, e i convogli umanitari bloccati al valico di Kerem Shalom. Sul fronte diplomatico, a Sharm el-Sheikh prosegue la farsa del negoziato. Il piano egiziano–americano prevede una tregua di sei settimane, ma senza garanzie sul ritiro israeliano né sul ritorno degli sfollati. Israele pretende il controllo permanente dei valichi e il “filtraggio” degli aiuti: un armistizio condizionato che perpetua l'assedio sotto altra forma. La legalità internazionale resta la prima vittima di questa guerra. Chi cattura navi civili e bombarda scuole mentre parla di pace non cerca sicurezza: impone l'impunità. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Gaza si continua a morire anche oggi. Nelle ultime ore i bombardamenti israeliani hanno colpito Khan Yunis, Rafah e il campo profughi di Nuseirat: decine di vittime, molte delle quali bambini. Gli ospedali ormai al collasso segnalano nuovi blackout elettrici e carenze di carburante per i generatori, mentre le squadre della Mezzaluna Rossa sono costrette a sospendere i soccorsi in più aree del Sud della Striscia. Fonti locali parlano di interi isolati rasi al suolo e corpi intrappolati sotto le macerie. Nel frattempo, in mare, la Conscience continua la sua rotta verso Gaza. A bordo ci sono cento persone da venticinque Paesi, tra cui sei italiani, con carichi di medicinali e farmaci salvavita. «Domani saremo nella zona rossa», ha annunciato il medico trentino Riccardo Corradini, invitando le piazze a «restare pronte alla mobilitazione in caso di intercettamento». Il Movimento 5 Stelle ha chiesto al governo di «proteggere i connazionali a bordo», mentre da Bruxelles Benedetta Scuderi (Verdi) ha denunciato il silenzio dell'Unione Europea. L'8 ottobre, secondo gli attivisti, sarà la data ad alto rischio: Israele ha già dispiegato motovedette nel tratto di mare dove si prevede il contatto. A Sharm el-Sheikh, intanto, proseguono i negoziati sul cosiddetto “piano Trump”, presentato il 29 settembre. Il Qatar e l'Egitto assicurano che «mancano ancora dettagli da concordare», ma l'aria che si respira è quella di un copione già scritto. Trump ha ordinato a Israele di fermarsi, ma i raid continuano. Una messa in scena di diplomazia in giacca e cravatta mentre la polvere delle macerie copre i corpi. Per terra e per mare la pressione per Gaza non si ferma. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Ieri sono atterrati gli ultimi italiani della Flotilla. Li aspettano gli abbracci e le procure: cominciano a piovere gli esposti, annunciati da Arturo Scotto che mercoledì porterà le carte in Procura a Roma per i trattamenti subiti. Yassine Lafram parla di «umiliazioni, violenze, disumanizzazione», mentre i legali già depositato diffide. Quelle voci raccontano un'unghia di ciò che i palestinesi subiscono ogni giorno. E ricordano che Israele ha scelto la violenza come linguaggio politico, l'arbitrio come legge e la disumanità come metodo. Uno Stato che si dice democratico mentre incarcera attivisti pacifici ed esercita una guerra permanente su scuole e ospedali – denunciano le agenzie internazionali – non lo è. L'Italia che resta ai suoi piedi, con la diplomazia degli inchini, e un'Unione europea rifugiata nelle iniziative simboliche, trattengono la stessa vergogna. Nel frattempo la destra nostrana rispolvera la tiritera provinciale: mettere a confronto le piazze per Gaza e quelle per l'Ucraina. Fingono di non vedere la differenza tra uno Stato invaso, aiutato dall'Occidente, e un popolo senza Stato schiacciato dall'indifferenza e dal piombo. A Gaza, nelle ultime ore, nuove stragi colpiscono scuole e campi profughi nel cuore della Striscia. A Sharm el-Sheikh ripartono colloqui che odorano d'inganno: il “piano di pace” in lavorazione, benedetto dagli amici di Trump e da Netanyahu, punta a legalizzare l'occupazione e a chiamarla fine del conflitto. La pace, quella vera, resta prigioniera: noi no. Intanto Israele prova a riscrivere i fatti come “provocazione”. Ma la verità cammina con i corpi che tornano e con piazze piene: non si archivia mai, si insiste. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Chissà se Giorgia Meloni e Antonio Tajani hanno trovato il tempo di ascoltare Saverio Tommasi quando racconta di essere stato «trattato come una scimmia da circo». Chissà se hanno ascoltato Paolo Romano, tornato dopo giorni di detenzione, o chi parla di «violenze fisiche e verbali, subito, appena sbarcati». Gli attivisti italiani rientrati dalla Flotilla raccontano percosse, insulti, interrogatori senza legali. Eppure Tajani ripete che «la pace è più vicina», mentre chiede “trattamenti migliori” a chi ha sequestrato connazionali in acque internazionali. Qualcuno dica agli italiani che per Israele non solo il diritto internazionale ma anche gli italiani valgono fino a un certo punto. Chissà se Meloni e Tajani hanno trovato il tempo di ascoltare chi è rimasto. Quindici italiani sono ancora trattenuti, famiglie senza notizie da giorni. Intanto da Marsiglia e Tunisi è partita una nuova flotta civile: medici e infermieri con bisturi e speranza. Sanno che il diritto internazionale vale sempre meno per chi non interessa alle potenze amiche. Ore dopo che il ministero israeliano degli Esteri ha negato le torture, il ministro della sicurezza Ben Gvir ha rivendicato tutto: «Sono orgoglioso che gli attivisti della Flotilla siano trattati come terroristi». Il manifesto di un potere che non nega più, rivendica. A Washington e Gerusalemme il piano di pace di Trump si scrive come una resa. Israele prepara in Egitto i campi per la diaspora palestinese. È la pace disegnata con i bulldozer. Domani rientreranno gli ultimi italiani della Sumud. Ma il vento continuerà a soffiare finché Gaza non sarà libera. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Roma ieri è stata la capitale di un risveglio civile: un milione di persone dietro le bandiere palestinesi, gli striscioni dei sindacati, i collettivi studenteschi e le associazioni che hanno sostenuto la Flotilla. Un'onda che smentisce il “fine settimana lungo” evocato da Giorgia Meloni,: è stato un fine settimana folto di persone, di resistenza, di rabbia e di dignità. Mentre il Paese si muove, il governo resta immobile. Giorgia Meloni e Antonio Tajani parlano di “rimpatri” e “liberatorie”, ma tacciono sulle testimonianze dei prigionieri: uomini e donne costretti a stare ore inginocchiati, privati del sonno, derisi, filmati mentre venivano obbligati a sventolare bandiere israeliane. Anche Greta Thunberg sarebbe stata rinchiusa in una cella infestata da cimici e costretta a baciare la bandiera israeliana. Da Tel Aviv non arrivano smentite. Da Roma, solo silenzio. E mentre si tace sulle violazioni, si prepara un piano di pace che è l'ennesimo inganno. L'intesa che Trump, Netanyahu e Meloni stanno apparecchiando mira a far finire l'occupazione non restituendo libertà, ma legalizzandola. Vogliono trasformare Gaza in una “zona amministrata”, un protettorato travestito da ricostruzione, dove Israele manterrà il controllo militare e gli alleati occidentali si abbuffano al banchetto. È la pace dei vincitori, quella che cancella le vittime e riscrive il diritto internazionale a uso dei carnefici. Eppure, nonostante tutto, qualcuno continua a salpare. La nave Conscience, con a bordo medici e infermieri, è partita da Catania e naviga verso Gaza sotto il sorvolo degli aerei israeliani. È la prova che la pace non si firma nei palazzi: si costruisce nei corpi che resistono. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Le piazze oggi sono un porto di terra: cento cortei, oltre due milioni di persone, studenti e lavoratori che occupano strade e stazioni come corridoi umanitari dove la merce non passa e la coscienza sì. È la “ciurma senza nave” della Global Sumud Flotilla che continua a navigare sull'asfalto: blocchi ai binari, porti chiusi ai TIR, assemblee trasformate in carte nautiche di un Paese che non vuole essere complice. A Bologna, Milano, Torino la marea è visibile anche a chi non vuole veeere. . A Palazzo Chigi si mastica imbarazzo. Prima l'idea di far pagare il rientro agli attivisti, poi la corsa del Viminale e della Farnesina a inseguire la narrativa dei “disagi senza vantaggi” mentre le immagini dell'abbordaggio in acque internazionali fanno il giro del mondo. Perfino la tempistica dei contatti consolari e l'assistenza legale è contestata: udienze fissate senza avvertire i difensori, trasferimenti lampo. Una gestione che assomiglia più a una resa di dignità che a una politica estera. Nel porto di Ashdod la scena più raccapricciante: Itamar Ben-Gvir passeggia tra i recinti, indica i fermati e li chiama «terroristi», sale sulle navi come fossero trofei. È il ministro che trasforma i diritti in propaganda, mentre alcuni attivisti vengono spostati a Ketziot e i legali denunciano abusi. La criminalizzazione come metodo, l'umiliazione come messaggio. Intanto Gaza sanguina. Dall'alba nuovi bombardamenti su case e “zone sicure”: decine di morti solo oggi, il bilancio complessivo supera i 66 mila. Restano famiglie sepolte, quartieri rasi al suolo, ospedali al collasso e una città svuotata a colpi di ordini di evacuazione e esplosivi radiocomandati. La ciurma di terra lo sa: la rotta non è finita finché non c'è protezione, corridoi veri, tregua, giustizia. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Gli occhi restano su Gaza. La Croce Rossa ha sospeso le attività a Gaza City e ha ridislocato il personale più a sud per l'escalation: chi resta al nord viene spinto alla fuga da un ultimatum che parla di «ultima opportunità» per lasciare la città, con il ministro Katz che avverte che chi rimane sarà trattato da «terrorista o sostenitore». Fame, ospedali al limite, vie di fuga a singhiozzo: è la fotografia di oggi. Intanto si chiama “pace” un piano che non promette diritti. Il progetto di Donald Trump è accolto con favore da Bruxelles e da diverse capitali europee; Roma si allinea, ringrazia Washington e si dice pronta a «fare la sua parte». È qui la frattura: le piazze chiedono un cessate il fuoco reale e corridoi umanitari veri, non una normalizzazione senza sbocco politico. In mare, la missione è di fatto conclusa. Israele ha molte imbarcazioni e circa duecento attivisti sono stati fermati e trasferiti ad Ashdod per l'identificazione. Le espulsioni sono già in corso e il governo italiano conferma che i connazionali saranno rimpatriati. Si chiamano deportazioni. Resta però un gesto ostinato: la Mikeno ha toccato le acque palestinesi prima di perdere contatto. L'esercito israeliano smentisce, ma il simbolo è già lì, nella rotta che ha bucato la rassegnazione. In un Mediterraneo militarizzato, una barca civile ha ricordato che il blocco non è un destino, ma una scelta politica che produce fame. Nella vita bisogna decidere se essere come Antonio Tajani, che balbetta sul diritto internazionale oppure come la Mikeno, piccola e testarda, che ha tenuto la prua verso Gaza per ricordarci che dignità e legalità non si espellono e non si rimpatriano. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La Global Sumud Flotilla è stata intercettata dall'esercito israeliano Gli abbordaggi richiederanno ancora tempo, ma tutti gli equipaggi sono in posizione, pronti a favorire le operazioni. Non è un imprevisto, era previsto: da mesi si sono esercitati anche per questo. Perché non sono esagitati, non sono avventurieri in gita: sono donne e uomini che rappresentano la parte migliore di questo mondo, quella che crede nel valore delle missioni civili e della non violenza. La Global Sumud Flotilla aveva due obiettivi dichiarati. Il primo: aprire gli occhi del mondo su Gaza, sottolineando la complicità dei governi che da anni tollerano e sostengono il blocco mentre si consuma un genocidio. Questo obiettivo è stato raggiunto. Oggi nessuno può più dire di non sapere, nessuno può più nascondersi dietro il silenzio. Gaza è diventata il termometro dell'umanità e della democrazia: lo specchio di un mondo in cui la forza piega la legge e il diritto internazionale viene trattato come un ostacolo. Il secondo obiettivo era aprire un canale umanitario permanente. Questo, per ora, è fallito a metà. Il mondo sa che Gaza ha fame, che Gaza ha bisogno di cure, e ha ascoltato i governi — come quello italiano — mentire, balbettare di corridoi umanitari che esistono solo nelle dichiarazioni, che non sfamano e non curano. È bene dirlo con chiarezza: quella della Global Sumud Flotilla è una missione politica. Non c'è nulla di più politico che liberare gli oppressi, salvare i bambini, sfamare gli affamati. La politica non è fatta solo di palazzi e di trattative: è anche decidere di stare dalla parte della vita. La missione in mare è finita. Ma la missione continua a terra, con chi non si arrende e con chi chiede di bloccare tutto finché i governi non saranno costretti a guardare Gaza negli occhi. Perché la verità, stanotte, è passata comunque. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Scriviamo queste righe dal futuro. È il trentesimo giorno di navigazione e la notte che ci attende può diventare il “giorno zero”: la fregata italiana abbandonerà la scorta per non disturbare un governo che chiude gli occhi sul genocidio a Gaza. Questa notte – per voi che leggete è già ieri – la Flotilla entrerà nella cosiddetta “zona rossa”, dove Israele da anni agisce impunemente contro il diritto internazionale. Il punto non sono le barche, né i pettegolezzi della politica italiana. Il punto è Gaza. Nelle ultime ore almeno 31 persone sono state uccise dai raid israeliani. Il nuovo piano firmato da Trump e Netanyahu parla di ricostruzione e disarmo, ma disegna ancora una prigione a cielo aperto, con il carceriere che decide tempi e modi della sopravvivenza. La Commissione d'inchiesta dell'ONU ha già qualificato le azioni di Israele come genocidio: distruzione sistematica, fame usata come arma, dichiarazioni dei leader che parlano di “spoliazione”. Ogni governo che tace si rende complice. La Global Sumud Flotilla è lo specchio che costringe a guardare questa vergogna. Decine di imbarcazioni da 44 paesi portano aiuti e chiedono libertà di passaggio. L'Italia ha deciso di ritirare la sua fregata a 150 miglia dalla costa, invocando “esaurimento del rischio”. Ma in quelle 150 miglia si gioca il senso della nostra presenza: resistere dove gli altri si voltano, testimoniare ciò che accade nella zona proibita. Se stanotte il mare coprirà le voci di sirene e bombe, almeno resterà questo diario: la prova che qualcuno non ha accettato il silenzio. Domani, se resisteremo, il mondo saprà che c'era chi ha avuto il coraggio di guardare. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La Global Sumud Flotilla è a trecento miglia dalle acque palestinesi. Dopo quattromila chilometri di navigazione, la distanza residua misura la tensione politica che accompagna la missione. In mare ci sono barche già colpite da due attacchi di droni, danneggiate ma non fermate. A terra ci sono piazze piene, sindacati, studenti e lavoratori che il 22 settembre hanno scioperato in solidarietà con Gaza e con gli equipaggi. Il messaggio dei portuali resta scolpito: «Se toccano la GSF blocchiamo tutto». È l'eco che accompagna la rotta verso Sud e che ricorda lotte capaci di trasformare la solidarietà in forza materiale. La protezione non arriva solo dal mare: passa dalle piazze e dall'attenzione pubblica che obbliga i governi a smettere di fingere neutralità. Domenica 28 settembre la delegazione italiana ha incontrato il ministro Crosetto. Nessun impegno ne è uscito. La portavoce Maria Elena Delia lo ha detto: l'assenza di azioni equivale a complicità con chi perpetua violazioni del diritto internazionale. Mentre l'ONU e la Corte penale parlano di genocidio, l'Italia continua a fornire armi e a mantenere accordi commerciali con Israele. La richiesta è chiara: sanzioni, stop alle forniture militari, iniziative diplomatiche per corridoi umanitari e indagini indipendenti. Non sono parole radicali: sono misure già previste dalle convenzioni sottoscritte dall'Italia. Il giorno 29 della Flotilla è un tempo sospeso: davanti c'è il Mediterraneo orientale, dietro un Paese che deve scegliere se essere spettatore o parte attiva nella difesa dei diritti. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Nelle ultime 24 ore almeno 83 palestinesi sono stati uccisi in raid israeliani che hanno colpito aree vicine a ospedali ancora operativi, tra cui Al-Shifa e Al-Ahli. In una sola giornata le aree sanitarie si sono trasformate in zone di morte, con parti effettuati per strada e medici che operano senza strumenti. La morte segna una media di circa 1.500 vittime al mese; tra queste, dal 50 al 70 per cento sono donne e bambini. Le 36 strutture mediche della Striscia sono state colpite almeno 720 volte, con 920 decessi legati direttamente a quegli attacchi. In quasi due anni di conflitto, praticamente ogni ospedale è stato danneggiato o distrutto. Come può fermarsi la Global Sumud Flotilla? Dopo le avarie e gli attacchi con droni che hanno costretto alcune imbarcazioni a fermarsi, le unità rimaste in mare hanno redistribuito gli equipaggi e potenziato i sistemi di navigazione. La rotta è tracciata verso la zona più pericolosa, con nuove barche pronte a unirsi da porti del Mediterraneo. Mancano pochi giorni. A Roma la delegazione italiana ha avuto contatti con il ministro degli Esteri Antonio Tajani e il ministro della Difesa Guido Crosetto, che ha parlato di “rischi drammatici” nel tentativo di forzare il blocco. Dall'altra parte i partiti di opposizione hanno ricevuto gli attivisti ribadendo che il diritto agli aiuti umanitari non può essere subordinato a calcoli diplomatici. Qualcuno riduce la missione a un'operazione politica. Lo è, certo. Perché non c'è nulla di più politico che pretendere che vengano sfamati gli affamati, curati i malati, liberati gli oppressi. Quando chiedi diritti fondamentali, non fai propaganda: chiedi giustizia. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Sono le stesse imbarcazioni che Giorgia Meloni aveva bollato come un gioco «gratuito, pericoloso e irresponsabile», accusando gli organizzatori di strumentalizzare Gaza e di mettere in difficoltà il suo governo. Quella derisione inaugurale si piega ora al peso politico della missione: chi un tempo derideva quel viaggio adesso cerca di morderne i margini. Ieri il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha avuto una lunga conversazione con Maria Elena Delia, la responsabile della delegazione italiana imbarcata. Tajani ha richiamato i “rischi” di forzare il blocco navale israeliano, suggerendo prudenza e disponendo un'apertura al dialogo su possibili corridoi umanitari. Delia ha ribadito: «Andiamo avanti, ma siamo disponibili a mediazioni». La politica italiana è costretta ora a misurarsi con quella flotta – non come evento simbolico ma come realtà che spinge, domanda e sfida. Le accuse, gli scherni, i riflessi in Aula non bastano più: la flotilla reclama presenza, protezione, rispetto del diritto internazionale. Intanto nelle ultime 24 ore, i raid israeliani su Gaza hanno ucciso almeno 82 palestinesi dall'alba, con 45 vittime a Gaza City. In alcuni casi, interi nuclei familiari sono stati colpiti nella loro abitazione, altri mentre cercavano scampo o accesso ad aiuti. I bombardamenti hanno investito anche zone densamente popolate, magazzini di sfollati, quartieri residenziali sotto assedio. Una proposta di tregua vacilla fra le diplomazie, mentre la carne dei civili – donne, bambini, anziani – continua a essere martoriata. Quello è il punto, lì stanno gli occhi, lì deve spirare il vento. Per le barche, per spegnere il genocidio, per aprire un corridoio umanitario. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Mattarella ha lanciato un imperativo: «consegnate gli aiuti in sicurezza», invitando la Flotilla ad accettare la mediazione del Patriarcato Latino di Gerusalemme per far arrivare il materiale a Gaza. In altri termini, consegnare a Cipro e rinunciare al mare aperto. Ma qui sta il punto: non è questione di modalità o di sicurezza, è questione di cosa stiamo parlando. Si parla ossessivamente delle barche, come se fossero il nocciolo del problema; mai si nomina il massacro sistematico, lo sterminio di una popolazione assediata. L'ossessione diventa quella dell'attraversamento “da non rischiare”, mai quella dell'ecatombe quotidiana. Eppure il diritto internazionale è chiarissimo: la navigazione in acque internazionali non può essere ostacolata, men che meno da attacchi armati. Pretendere che la Flotilla cambi rotta equivale ad ammettere che Israele possa violare la legge senza conseguenze, mentre chi la rispetta deve cedere. Il centro del discorso si sposta così dal genocidio all'“incertezza” del viaggio. È il solito cortocircuito: si discute delle barche per non discutere delle bombe. Intanto a Gaza la morte non concede tregua. Nelle ultime 24 ore ottantacinque persone sono state uccise dai bombardamenti israeliani, tra cui numerosi bambini. A Gaza City un raid ha colpito una casa che ospitava sfollati: almeno diciannove vittime. Decine sono rimaste intrappolate sotto le macerie nei quartieri assediati. Così, mentre i palazzi del potere parlano delle imbarcazioni, sotto quei cieli di fuoco si consuma un massacro silenzioso, una pulizia pianificata. Nessuna esitazione: a vele spiegate, verso il genocidio, è lì che si punta. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Le parole del governo italiano sulla Global Sumud Flotilla continuano a oscillare tra la condanna rituale e il paternalismo. Il ministro Crosetto ha detto che «nessuno può garantire sicurezza fuori dalle acque internazionali» e che gli aiuti «potrebbero essere scaricati a Cipro». Una formula che traduce in pratica l'ignavia: fingere di proteggere, mentre si accetta la riscrittura israeliana del diritto internazionale. Dal mare arriva invece la chiarezza della Flotilla. Ieri Mandla Mandela ha ricordato che «non ci fermeremo finché il genocidio non sarà fermato e gli aiuti non fluiranno liberamente». Yasmin Al-Qadhi, giornalista e attivista yemenita, ha denunciato la fabbrica di menzogne che accompagna ogni aggressione: come nel 2010 con la Mavi Marmara, così oggi Israele diffonde accuse inventate per giustificare la violenza. E l'avvocata palestinese Lamis J. Deek ha ribadito che il blocco di Gaza «non ha alcuna base legale», e che l'intercettazione di navi civili in acque internazionali è un crimine. Le ultime ore da Gaza raccontano l'urgenza di questa missione. Secondo il ministero della salute, i raid israeliani hanno ucciso almeno 17 persone, tra cui 10 bambini, solo nella notte scorsa. Il bilancio complessivo ha ormai superato i 65.400 morti e i 167.000 feriti, con più di 20.000 bambini uccisi dall'inizio dei bombardamenti. In una sola settimana, dal 17 al 24 settembre, si sono aggiunti 357 morti e oltre 1.400 feriti. Il genocidio intanto continua. Il governo di Israele è un governo assassino. L'affidabilità di Israele si misura sul sangue e sulle macerie di Gaza. Queste sono le notizie su cui tenere gli occhi. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Nella notte, a sud di Creta, la flotta è stata circondata e colpita da droni: esplosioni in serie, interferenze radio, polveri urticanti. Almeno undici imbarcazioni danneggiate, nessun ferito grave, equipaggi in assetto di sicurezza. È il terzo attacco in poche settimane: la Spectre ha registrato un bagliore netto in mare alle 1.43. La missione ribadisce che proseguirà la rotta verso Gaza. La politica italiana, travolta dai fatti, ha dovuto finalmente esporsi. Guido Crosetto, dopo essersi coordinato con lo Stato Maggiore, ha ordinato alla Marina di dirottare la fregata Fasan nell'area: «assistenza ai cittadini italiani», «condanna più dura» per gli attacchi. È una svolta rispetto ai giorni delle cautele e dei “vedremo”: quando la cronaca bussa con il metallo dei droni, l'ambiguità non regge. Antonio Tajani ha chiesto a Israele «tutela» e «rispetto del diritto internazionale» per chi è a bordo. Giorgia Meloni, che fin qui aveva bollato la traversata come inutile e simbolica, è costretta a inseguire: parla di responsabilità altrui, ma la sola irresponsabilità oggi è quella di chi continua a finanziare e coprire un genocidio. La Flotilla non è una bravata: è un promemoria di legalità sul mare aperto. Intanto, a Gaza, il conto delle ultime 24 ore è l'ennesima ferita aperta: almeno 37 morti aggiunti alla cifra mostruosa che ha superato i 65 mila, ospedali al collasso, corridoi trasformati in reparti. Il mondo discute, le cancellerie sfumano, ma nelle corsie restano bambini senza analgesici e feriti senza ossigeno. È a loro che guardano le barche colpite stanotte. Ed è su di loro che si misurano verità e menzogne della politica.Diventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Global Sumud Flotilla risponde all'ennesimo tentativo di Israele di piegare il diritto internazionale ai propri interessi. La richiesta di “attraccare e trasferire” gli aiuti umanitari al porto di Ashkelon non è una misura logistica, ma parte integrante del blocco illegale. Amnesty e Human Rights Watch hanno condannato pratiche simili come violazioni del diritto umanitario e strumenti per ritardare e negare l'assistenza. Parlare di “sicurezza” è un pretesto per esercitare controllo e trasformare soccorsi civili in merce di scambio. Etichettare la flotta come minaccia significa legittimare l'uso della forza contro chi porta aiuti. Mentre Israele fabbrica cavilli, Gaza continua a contare i morti. Nella notte almeno 37 persone sono state uccise nei raid, altre 17 all'alba, e dodici strutture dell'Unrwa sono state colpite a Gaza City. Gli ospedali senza carburante parlano di “morte certa”. Numeri che non sono statistiche ma volti cancellati: bambini, donne, uomini privati di acqua, cure, cibo. E mentre a Roma si tace, a Madrid il premier Sanchez chiede all'Onu misure immediate per proteggere i civili palestinesi, dimostrando che la responsabilità politica non è un optional. In Italia la voce resta quella delle piazze. Una società civile che ricorda al governo che il silenzio è complicità. La flottiglia naviga, e a terra una rete di mani tiene la rotta. La ciurma di terra protegge. Ricordarselo sempre. Gli occhi sono su Gaza. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Le piazze italiane ieri hanno parlato con numeri che non si possono cancellare: centinaia di migliaia di persone, 50mila solo a Roma, 15mila a Napoli, migliaia a Torino, Firenze, Genova, Cagliari, Bari. Dai porti alle scuole, dalle fabbriche alle università, lo sciopero generale ha bloccato pezzi interi del Paese. Non è stata una sommatoria di cortei, è stato un unico corpo che si è alzato in piedi contro il genocidio a Gaza. Ogni bandiera palestinese appesa ai balconi, ogni presidio nelle piazze, ogni linea di produzione ferma, ogni aula occupata è stato un messaggio diretto al governo: le vostre scelte di fiancheggiamento, la complicità con la guerra, non sono la voce dell'Italia. L'Italia rifiuta lo sterminio del popolo palestinese, condanna la vendita di armi a Israele e respinge la solidarietà offerta a soldati che hanno massacrato bambini e civili. Ogni contratto di fornitura firmato in queste settimane è una ferita alla memoria di chi ha combattuto per la libertà. Questo movimento per la pace è l'Italia che si riconosce nell'umanità e urla: «Non in nostro nome». È la promessa di una sopravvivenza collettiva che non è semplice memoria, ma scelta quotidiana di vita. E mentre le piazze gridavano, i politici di governo balbettavano accuse di “violenza”, fingendo di non vedere la loro. Parlano di ordine pubblico quelli che pagano bombe, fiancheggiano un genocidio, ammazzano di fame e di ordigni donne e bambini. Sono gli stessi che stringono le mani insanguinate di Netanyahu. Sono gli stessi che ieri, davanti a mezzo milione di persone, hanno provato a indossare i panni delle maestrine del decoro. La vergogna è tutta loro. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Oggi l'Italia si ferma. Sciopero generale proclamato dai sindacati di base: trasporti, scuole, porti, logistica, taxi. Non è un capriccio di categoria, è un atto politico che riguarda tutti, anche chi si illude di essere estraneo. Perché davanti a un genocidio non esistono spettatori innocenti: l'inerzia è complicità. A Gaza la notte ha portato altri morti. Più di settanta nelle ultime ventiquattr'ore, cinquantasei solo a Gaza City. Gli ospedali non riescono più a curare, l'acqua manca, i medicinali finiscono. Le Nazioni Unite parlano di quasi mezzo milione di sfollati: un'intera città svuotata, un popolo in fuga sotto le bombe. Ogni giorno che passa aggiunge un livello di barbarie che inchioda chi tace. La Global Sumud Flotilla intanto avanza verso Creta. Non l'hanno fermata i droni. Non la sfiorano le malelingue . Israele bolla la flottiglia come “iniziativa jihadista”, ma a bordo ci sono solo civili, attivisti, operatori umanitari. Anche Greta Thunberg, uscita dal comitato direttivo, continua a essere a bordo. Giorno ventuno. Oggi la ciurma di mare prosegue e la ciurma di terra sciopera. È lo stesso fronte: rompere la normalità dell'orrore, spazzare via l'indifferenza. Perché chi oggi non sciopera si rassegna all'idea che il genocidio sia parte della routine. E la routine dell'orrore è già barbarie. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Gaza oggi è un frastuono di macerie. Le forze israeliane spingono dentro la città, demolendo palazzi e gallerie mentre la popolazione cerca vie di fuga che non esistono: 65 mila morti secondo il ministero della Sanità di Gaza, decine solo nelle ultime ore. Perfino gli operatori umanitari ricevono un avviso grottesco: «protetti» solo gli ospedali, tutto il resto può essere colpito. Un modo elegante per dire che la vita civile non conta più niente. Lunedì 22 settembre tocca a noi, sulla terraferma. La chiamano «ciurma di terra» e non è retorica: è la rete di chi sciopera, presidia, impone all'agenda pubblica una verità che i governi nascondono. I sindacati di base hanno proclamato lo sciopero generale: trasporti, scuole, università a rischio. Non per “stare contro”, ma per navigare controvento finché il vento cambia. Dall'altra parte dell'Atlantico, intanto, scricchiola la propaganda. La Casa Bianca spinge un nuovo pacchetto d'armi da 6,4 miliardi di dollari per Israele — elicotteri Apache, veicoli d'assalto, ricambi — mentre anche tra gli elettori MAGA cresce l'idea che i soldi vadano alla pace più che alle armi: il 73% chiede di investire su peacebuilding, non su nuovi ordigni. La fronda non ferma Trump, ma racconta un Paese stanco di finanziare un deserto morale. La Flotilla continua il suo viaggio, e noi con lei. La ciurma di terra serve per quello: soffiare, ostinare, pretendere che l'Europa esca dalle sabbie mobili e che l'Italia smetta di balbettare. Lunedì non è un rito: è la rotta. Portiamo il rumore nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nelle scuole. Anche da terra, siamo noi il vento che sposta le fronde. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

La Global Sumud Flotilla è salpata. Nelle acque di Portopalo erano arrivate le 24 barche provenienti dalla Tunisia, tra cui la Familia Medeira e la Alma, riparate dopo l'attacco dei droni. La flotta, che comprende 18 barche italiane, si ricongiungera' con sei barche che si trovano in Grecia per poi proseguire la navigazione verso Gaza. Israele intanto ha scelto la delegittimazione preventiva, bollando i passeggeri come «un manipolo di terroristi travestiti da pacifisti». Un messaggio che prepara l'opinione pubblica a un eventuale intervento muscolare. È qui che la ciurma di terra diventa decisiva. Ogni missione navale è esposta alle onde del mare e alle manovre dei governi, ma quella di oggi si regge soprattutto sulla pressione che cittadini e movimenti sapranno esercitare. Lunedì scatterà il primo banco di prova: lo sciopero proclamato dai sindacati di base. Non è solo una giornata di mobilitazione, è il tentativo di costringere gli Stati a dire l'indicibile, a chiamare per nome lo sterminio in corso. Le provocazioni non mancheranno. L'odore degli editoriali già scritti – quelli che assoceranno le piazze alla violenza, quelli che tenteranno di ribaltare il senso di una protesta – è nell'aria. È un copione noto. Da Gaza intanto arrivano notizie drammatiche: oltre ottanta morti in poche ore, bombardamenti attorno agli ospedali. L'Organizzazione mondiale della sanità avverte che le strutture sanitarie sono sull'orlo del collasso. È da queste macerie che parte il viaggio della Flotilla. Il mare non è mai stato così politico: le vele portano medicine e solidarietà, ma soprattutto la prova che esiste ancora chi rifiuta di voltarsi dall'altra parte. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

Le notizie che arrivano da Gaza oggi parlano di una carneficina senza tregua. Dall'alba gli attacchi israeliani hanno colpito persino nei pressi degli ospedali: almeno 83 morti in poche ore. Donne costrette a partorire per strada, operatori umanitari uccisi, ospedali sull'orlo del collasso, blackout totale di internet da due giorni. E mentre la Striscia viene rasa al suolo, i falchi di governo israeliani e i loro partner americani già si spartiscono il bottino. Il ministro ultrà Bezalel Smotrich definisce Gaza «una miniera d'oro immobiliare» e annuncia: «La demolizione è fatta, ora dobbiamo soltanto costruire». Un banchetto sulle macerie, dove si preparano a gettarsi famelici, senza pudore e senza vergogna, trasformando il genocidio in opportunità edilizia e speculativa. In Europa, intanto, i governi arrancano tra dichiarazioni contraddittorie e mezze condanne. Tajani definisce Gaza «una carneficina» e si dice contrario ai trasferimenti forzati. Parole, appunto. Perché mentre parla, il governo italiano continua a mantenere rapporti politici, commerciali e militari con Israele, continuando a lavarsi le mani di fronte all'evidenza di un massacro. Eppure la storia non finisce qui. La Global Sumud Flotilla continua il suo viaggio in acque internazionali, carica di coraggio e disobbedienza civile. E a terra la ciurma non è meno decisiva. Le mobilitazioni crescono, gli scioperi si moltiplicano. Ma non basta. Bisogna unire le forze, fermare il Paese se serve, senza più disperdere l'energia. Più date fanno rumore, ma più insieme può cambiare davvero il corso delle cose. Gaza oggi non ha tempo da perdere. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.

A Gaza City, all'alba, altri 33 morti sotto le macerie. La rete telefonica e internet sono collassate dopo i raid, gli ospedali denunciano il blocco dei rifornimenti di carburante, mentre le organizzazioni umanitarie avvertono che «l'offensiva a Gaza City è estensione della guerra genocida». È l'immagine quotidiana di un massacro che la Commissione ONU ha ormai definito genocidio. Eppure le bombe non si fermano: i quartieri si svuotano, le famiglie restano intrappolate ma le cancellerie guardano altrove. Il 22 settembre la Cgil ha indetto lo sciopero generale per la Palestina. Un segnale forte, ma resta la domanda più amara: Gaza City ci sarà ancora quel giorno? Le piazze italiane si preparano a scendere in strada mentre i raid cancellano interi isolati. La distanza tra chi manifesta e chi muore sotto i bombardamenti è vertiginosa, ma necessaria per spezzare il silenzio. La Global Sumud Flotilla continua a navigare. Le barche partite dalla Tunisia avanzano verso la Striscia. A bordo c'è la consapevolezza che rompere l'assedio significa riaffermare il diritto universale alla vita, come recita la Carta dei Valori della missione: «scegliamo di non restare in silenzio davanti a un genocidio in corso, perché la neutralità equivale alla complicità». La Flotilla ribadisce che le azioni sono «pacifiche, disarmate e trasparenti», ispirate alla disobbedienza civile nonviolenta, che nella storia «ha abbattuto muri e regimi di oppressione». La Flotilla non porta solo cibo e medicine. Porta un messaggio: la solidarietà può essere più forte dei muri, e la nonviolenza, anche oggi, è la risposta etica a chi vorrebbe condannare Gaza al silenzio. #LaSveglia per La NotiziaDiventa un supporter di questo podcast: https://www.spreaker.com/podcast/la-sveglia-di-giulio-cavalli--3269492/support.