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Editoriale del direttore Alberto Lupini dell'11 Settembre 2020. L’allarme è sempre più alto e più che giustificato, ma forse bisognerebbe evitare un po’ quello che sembra terrorismo psicologico. Confesercenti parla ad esempio di 90mila imprese che avrebbero chiuso a causa del Covid, ma in realtà siamo solo ad una stima. E peggio è l’Istat che parla di un 67% dei bar e dei ristoranti a rischio chiusura, ma solo sulla base di un sondaggio di opinioni. Più attendibile, ma sempre a livello di previsione, potrebbe essere lo studio della Fipe che indica in 50mila i pubblici esercizi che potrebbero abbassare le saracinesche per la pandemia con la perdita di 350mila posti di lavoro. Articolo completo su https://iat.pub/2DRYYUI
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 1 Giugno. Ormai tutto è riaperto. Non ci saranno più limiti a spostarsi in Italia, anche se per ora lo si farà praticamente solo “per lavoro”. Di turismo al momento non se ne parla: non ci sono molti soldi e gli alberghi restano per lo più chiusi. Così come sono semi vuoti molti dei ristoranti che hanno riaperto (finora solo 3 su 4, e uno su 3 teme di dover chiudere a breve…). È l’effetto di una crisi che si avvita su se stessa anche per il clima di paura che alcuni politici irresponsabili continuano ad alimentare. Pensiamo a quei Governatori un po’ bulletti che, in un nome di un antistorico autonomismo di maniera, fanno sparate tafazziane contro i “pericolosi” viaggiatori del nord, dimenticandosi che senza questi “untori” il loro turismo non esisterebbe. E Intanto rischiamo di vanificare il clima di fiducia che abbiamo instaurato in Europa con la gestione di questa pandemia. In questo momento avremmo bisogno di tutto, ma di sicuro non di dare l’idea a tutto il mondo che l’Italia sia un lazzaretto. Siamo il popolo che per primo in Occidente ha affrontato il covid-19 e non possiamo ora fare passare l’idea che siamo un Paese “non sicuro”. Ci sono parole che non fanno allontanare solo i turisti milanesi dalla Costa Smeralda: rischiamo di tenere lontani gli stranieri da tutta l’Italia. E questo è inaccettabile, anche alla luce delle ultime ricerche, come quelle del San Raffaele di Milano, che danno il virus come clinicamente non più pericoloso. Dietro la fantasiosa pretesa dei patentini della salute (a cui ha rinunciato per realismo anche Luca Zaia, che era stato il primo a proporli), o dietro l’idea di chiudere inesistenti frontiere regionali, c’è una sorta di razzismo rovesciato che è solo un modo meschino (e quasi ricattatorio) per alzare il prezzo e ottenere un po’ più di soldi dallo Stato. È lo stesso modo di fare dei piccoli Paesi del nord Europa che hanno finora bloccato gli aiuti all’Italia solo per avere altre compensazioni dalla Ue. Il tutto si chiama avidità ed egoismo, ma questa è un’altra storia. La querelle tutta italiana sui turisti è peraltro decisamente sgradevole perché saranno pochi gli italiani che potranno farsi delle vacanze. Gli autonomi, i camerieri o gli operai senza lavoro (e quasi tutti senza soldi per la cassa integrazione che non è ancora arrivata) non stanno certo a pensare alle ferie. E non è che al loro posto verranno degli europei se passa l’immagine di un’Italia pericolosa… È più che doveroso tutelare i cittadini, ma lo si deve fare con un po’ di cervello. Non serve a nulla chiudere ai contatti esterni come gli algidi danesi o austriaci. Si devono semmai rafforzare le strutture sanitarie, anche in vista della possibile ripresa dell’epidemia in autunno. Nessuno invoca il «liberi tutti». Dobbiamo rispettare le regole che valgono per tutta Italia e mantenere i distanziamenti. Ma dobbiamo poterci muovere. Dobbiamo riaprire tutti i cantieri senza pensare di bloccare tecnici o maestranze solo perché vengono da altre regioni. Dobbiamo valorizzare siti ambientali e beni artistici. Abbiamo molto da recuperare, soprattutto al sud, fermo da anni anche per colpa di una burocrazia inefficiente. Ma tant'è, l’Italia dimostra di essere gestita da una classe politica inadeguata e incapace di guardare oltre al proprio orticello. Le sparate dei viceré di Cagliari o Palermo creano terra bruciata attorno alle isole dove ci sono le piccole aziende legate al turismo e alla ristorazione che forse più di altre soffriranno. Dopo due mesi e passa hanno riaperto, ma non ripartono… mancano i clienti che, per lo più, hanno paura visto il continuo enfatizzare i rischi di contagio che tutti ormai conosciamo bene. E i danni colpiscono tutta Italia. [...]
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 22 Giugno. Il dopo lockdown conferma molte delle più negative previsioni. Fra bar e ristoranti almeno uno su dieci non ha riaperto. E per gli altri parlare di un crollo del fatturato è quasi un eufemismo. Nella media siamo alla metà di quanto si incassava prima della chiusura (anche considerando asporto e delivery). Ma nei centri storici i ricavi al più arrivano al 20-25%: qui si fanno sentire sia la scomparsa dei turisti, sia la mancanza di lavoratori e universitari che restano a casa in smartworking, statali e bancari in primis. Per non parlare degli hotel che, salvo qualche località al mare o in montagna, hanno riaperto in non più di 3 casi su 10. E non va certo meglio per le discoteche che, anche se con qualche timida riapertura all’aperto, pagano il dazio del distanziamento (incompatibile con il ballo e il divertimento). A incidere pesantemente è il clima di paura dopo che per mesi tv e internet hanno martellato contro il mondo dell’accoglienza e dell’ospitalità, quasi fossero questi i locali del contagio. Salvo poi scoprire che i focolai sono scoppiati negli ospedali e nelle Rsa (e il caso del disastro sanitario della Lombardia ne è l’esempio). Per non parlare delle case dove state lasciate le persone contagiate senza sintomi gravi. Comprensibile che in questo clima i consumatori, peraltro con minori risorse per la crisi economica devastante, usino cautela prima di entrare in un pubblico esercizio. Se poi pensiamo che qualche gestore si è fatto abbindolare da chi spacciava le divisorie in plexiglass come la panacea contro il covid-19 (facendo scappare i clienti che non amano sentirsi nel parlatorio del carcere), si può ben capire perché il grido di allarme delle imprese sia ormai un urlo a cui potrebbe seguire una rivolta. E intanto siamo storditi dal silenzio assordante della classe politica che, al Governo come nelle Regioni, sembra occuparsi del nostro mondo solo perché tirata per i capelli. Almeno si attivassero per garantire quei finanziamenti che solo un’azienda su 4 è riuscita ad ottenere dalle banche. Per non parlare della cassa integrazione che finora non è stata data ai dipendenti di 4 imprese su 10. E se non fosse stato per gli interventi dei sindacati, Fipe per prima, sarebbe magari saltata quest’estate. Insomma un vero disastro... E in questa crisi drammatica, che vede molte mense aziendali chiuse o con forti riduzioni, insieme al blocco del mondo del catering e degli eventi, cosa si inventano i politici italiani? L’apertura delle sagre, il simbolo degli assembramenti e in genere di un’igiene sommaria e di evasione contributiva, salvo quelle “di qualità” gestite dalle Pro loco, che però sono meno di una su 4 di quelle fatte in Italia. Un calcolo per soddisfare il sottobosco politico, a destra come a sinistra, con la scusa che... tanto il virus sarebbe indebolito. Già, ma se lo è, vale per tutti, non solo per chi organizza sagre!
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 6 Luglio. E ora sembra che non ci resti che sperare nell’ennesimo decreto, quello della Semplificazione, che per il premier Conte dovrebbe fare recuperare all’Italia 20 anni di ritardo e garantire una ripresa. Ma davvero qualcuno può pensare che chi ha firmato decreti zeppi di "burocratese", possa improvvisamente diventare il mago della chiarezza e della logica? Ci sia consentito esprimere seri dubbi, anche se, ovviamente, non possiamo che tifare perché questo miracolo possa compiersi. Restando coi piedi per terra va detto subito che se davvero si vuole ammodernare il Paese (e rilanciare l’economia), lo si può fare solo abbandonando visioni ideologiche o pregiudizi. Non si può ad esempio pensare che la semplificazione debba riguardare solo il mondo degli appalti (col prevedibile rischio che tutti i costi subiscano un’ennesima impennata). La burocrazia e il frazionamento delle competenze sono la palla al piede che frena tutte le imprese italiane. Si deve intervenire con decisione a tutti i livelli, rendendo celeri le procedure per le autorizzazioni o i controlli, ma non solo in campo edilizio o per i progetti green. Per non parlare dell’ennesima sparata demagogica secondo cui si pensa di ammodernare la burocrazia annunciando che la maggior parte degli statali non tornerà in ufficio e “lavorerà” da casa almeno fino al 2021. A parte la mancanza di studi sull’efficacia, o meno, di un telelavoro generalizzato per il pubblico impiego, è scandaloso il solo fatto che qualcuno pensi ad una simile porcheria. Anche perché lo smartworking (resosi necessario per evitare i contagi nei mesi scorsi) ha creato solo disagi ai cittadini-utenti e, come se non bastasse, sta letteralmente uccidendo molti bar e ristoranti. Nella sola Roma, dove per la pausa pranzo mancano all’appello almeno 500mila impiegati statali, il 20% dei pubblici esercizi teme di dover chiudere a breve, mentre il 90% sta pensando di ridurre il personale. E lo stesso vale per tutte le città. A Milano, ad esempio, mancano ogni giorno 270mila burocrati oltre ai “colletti bianchi” delle imprese private, a partire dalle banche, e i pubblici esercizi del centro sono in ginocchio. E per ogni bar o ristorante che chiude, a parte i problemi occupazionali, ci sarebbero anche danni economici a cascata per tutti i fornitori, per i proprietari degli immobili e la stessa vita dei centri storici. E questo senza considerare che se gli impiegati continuano a stare a casa, lo Stato e le banche danno al Paese un segnale tremendo: vuol dire che non si può lavorare in sicurezza. Ciò significa che c’è una classe dirigente (al Governo come nelle Regioni) di indecisi o incapaci che ci sta prendendo in giro. Si può anche dire che la ripresa va fatta a piccoli passi, ma non è accettabile che qualcuno neanche alzi un piede… Ogni giorno di mancato lavoro in una filiale comporta ad esempio ritardi nei finanziamenti bancari dovuti alle imprese, che così non riescono a recuperare. E mentre si tengono a casa “in sicurezza” i colletti bianchi, si autorizzano magari le sagre dove questi se ne possono andare tranquillamente, incuranti degli assembramenti. Oltre al danno la beffa! Il lavoro agile che viene annunciato dal Premier e da alcuni suoi ministri potrebbe essere anche importante (se riempito di contenuti, di cui non si ha però traccia), ma è una sorta di rivoluzione che lascerà sul terreno molti cadaveri, a partire proprio dai pubblici esercizi. L’impatto che può avere sui lavoratori, sulle città e sull’economia in generale va considerato nella sua globalità. In ballo non c’è solo l’interesse di qualche bar o ristorante, già in ginocchio per il Covid-19. Rischia di saltare l’intera rete dell’accoglienza, perno del nostro turismo. E parliamo di aziende dove i più, prima ancora di chiedere aiuti, vorrebbero solo poter lavorare riempiendo come un tempo i locali. Un'idiozia a cui se ne potrebbe poi aggiungere un'altra degna solo di chi pensa ancora come se fossimo nel Novecento e non dovessimo uscire da una crisi drammatica: rinnovare i contratti di lavoro riducendo l'orario ma mantenendo lo stesso stipendio. Una genialata del nuovo segretario generale della UIL che probabilmente... come molti dei nostri politici non ha mai lavorato in vita sua. Se però lo smartworking degli impiegati pubblici e privati è davvero la strada che il Governo vuole intraprendere, lo deve dire subito! Non si possono fare indebitare ulteriormente gestori in difficoltà che sperano in un ritorno di clientela che si profila effimero. E non si possono illudere centinaia di migliaia di camerieri, baristi e cuochi che dopo questo periodo di cassa integrazione pagata in ritardo, quando è andata bene, potrebbero trovarsi senza lavoro. Il menu di questo Governo rischia di servire loro un piatto freddo immangiabile, se non avvelenato.
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 20 Luglio 2020. Sembra incredibile, ma purtroppo è vero. La ricetta del viceministro dell’Economia, Laura Castelli, per ovviare alla drammatica crisi post covid-19 della ristorazione è «cambiare mestiere». Il che vorrebbe dire chiudere i ristoranti oggi senza clienti. Senza nemmeno preoccuparsi del perché pochi italiani frequentano in questi mesi i pubblici esercizi, l’esponente dei 5 stelle sembra dare per scontato che i ristoranti non si riempiranno più. E in base alla sua bislacca teoria ai ristoratori non resterebbe che cambiare mestiere. Naturalmente “aiutati” dallo Stato. E tutto questo in nome delle mutate condizioni della domanda e dell’offerta, che altro non sarebbe che una variante della decrescita (in)felice che sta alla base dello statalismo assistenziale che continua a motivare i 5 stelle. Peccato che chi lavora nei ristoranti non appartiene alla categoria nei nullafacenti o degli ignavi beneficiati dal reddito di cittadinanza. I titoli di alcuni giornali saranno stati francamente esagerati. Ma anche un articolo “sobrio” come quello di Italia a Tavola ha registrato migliaia di reazioni negative e centinaia di veri e propri insulti sui social. A conferma che le parole della viceministro sono di una vergogna che solo le dimissioni potrebbero cancellare. La sua ricetta è solo una dimostrazione di ignoranza rispetto ad un lavoro che è fatto di sacrificio, passione e continua ricerca. Da un viceministro dell’Economia ci si aspetterebbe almeno un po’ più di attenzione verso la situazione attuale di aziende che sono la prima linea del turismo (oggi sospeso) e della promozione della filiera agroalimentare. Ma tutto questo non passa nemmeno per la testa della Castelli che cita aiuti e sostegni al comparto che sono o analoghi a quelli di altri settori, o insufficienti, o mai realizzati (pensiamo ai ritardi della cassa integrazione o dei finanziamenti bancari). E alla signora, non nuova a gaffe di questo genere, non si può non ricordare che fra le cause del disastro di molti pubblici esercizi c’è anche quel lockdown di statali e bancari che solo per ragioni elettorali il suo Governo si ostina a voler mantenere, privando così i locali dei centri urbani di quel minimo di attività legata alla pausa del pranzo. Ma questo alla nostra ignorante viceministro nemmeno passa per la testa… Parlando della ristorazione e della crisi attuale, la viceministro avrebbe peraltro potuto compiere davvero un salto di qualità ricordando che se dei locali dovranno chiudere questo non dovrebbe avvenire perché in questo momento c’è una crisi drammatica. Questa vale per tutti, ma non per questo si pensa a riconvertire ad esempio la Fiat ad altre attività. Anzi, alla Fca hanno regalato 6 miliardi di euro. In Italia ci sono troppi locali dove si somministra cibo, lo ripetiamo da tempo, e un po’ di selezione sarebbe opportuna. Ma questo la Castelli forse lo ignora. Le sue parole senza senso avrebbeto potuto avere una grande forza se avessero fatto ad esempio riferimento alla necessità di applicare regole fiscali e di igiene valide per tutti, all’importanza di permettere la somministrazione di cibo solo in presenza di cuochi professionisti, alla opportunità di chiudere almeno 5mila ristoranti gestiti dalla criminalità per riciclare il denaro sporco e noti a tutte le Questure italiane. Si creerebbe lo spazio perché le aziende sane e oneste potrebbero lavorare. Oggi molti ristoratori saranno in piazza a Roma per sollecitare il Governo ad intervenire con più decisione per tutelare queste imprese. La Castelli è meglio che non si faccia vedere, sarebbe come minimo spernacchiata.
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 3 Agosto 2020. Il treno è il nuovo tema di scontro fra Governo e opposizione. Se si tratta di percorsi nazionali (a partire dall’Alta velocità) resta l’obbligo del distanziamento sui vagoni e dei posti dimezzati. Se invece si viaggia sui “regionali” nel nord Italia, tutti i posti possono essere occupati e si può viaggiare pure in piedi. E poco importa se da un punto di vista “tecnico” sulle frecce rosse si potrebbe stare più sicuri (sempre con le mascherine) visto che i posti sono meno stretti e, soprattutto, c’è un ricambio d’aria che i pendolari lombardi o liguri se lo possono sognare. Ma tantè, da una parte ci sono Conte e la gran parte degli scienziati che sostengono che lo stato di emergenza deve proseguire per evitare il ritorno autunnale della pandemia, e dall’altro le Regioni che si rifanno a Salvini e i tanti, troppi, negazionisti sullo stile di Bolsonaro e Trump. E in mezzo ci stanno però gli italiani che di questo caos (in gran parte innescato dal Governo che ha fatto una precipitosa retromarcia proprio sui posti dei treni) pagano ovviamente le conseguenze, senza che se ne capiscano fino in fondo le ragioni. Eppure la spiegazione è ancora una volta una sola: la classe politica (tutta) si sta dimostrando assolutamente inadeguata per affrontare un’emergenza che richiederebbe unità e condivisione delle scelte. Ogni occasione è buona per polemizzare: dall’uso delle mascherine ai programmi di riapertura delle scuole. E ora ci aggiungiamo i treni. Il confronto muscolare fra i politici o le istituzioni non riguarda però il futuro di noi italiani, ma solo il destino di qualche partito o qualche leader più o meno populista. Gli esempi clamorosi erano stati nei giorni scorsi le sparate del Governatore-comico di Napoli contro i lombardi o le pretese del leader leghista di esibirsi per scelta senza mascherina, anche in una sede istituzionale come il Senato (con tanto di code polemiche e le successive scuse agli italiani di Andrea Bocelli). La contraddizione dei treni mette peraltro a nudo l’incoerenza di un Paese dove, per assurdo, gli unici luoghi dove si mantiene il massimo del rigore sono oggi i ristoranti e alcuni negozi. Nelle località balnerari le mascherine sembrano diventate ad esempio un optional e la movida notturna è tornata ai fasti pre covid-19. E ai tecnici che si occupano della follia dei nuovi banchi per le scuole da riaprire sembra non interessare per nulla che molti di quegli studenti si trovano oggi a contatto coi coetanei senza alcuna protezione. Ma tantè, pur di spargere demagogia a piene mani in Italia nessuno si sottrae. Nemmeno i virtuosi altoatesini che dopo avere fatto sostituire ai camerieri le mascherine con dei semplici fazzoletti (!) ora in alcune Spa non rilevano nemmeno più la temperatura col termoscanner, anche se è obbligatorio farlo. E che dire delle normative regionali che allargano le già ampie maglie di attività degli agriturismi (per posti a tavola e letti), mentre per hotel e ristoranti restano le norme vincolanti (giustamente), con in più la beffa delle Regioni nordiste che permettono di riempiere fino all’ultimo posto i treni dei pendolari, ma continuano a mantenere in smartworking i loro dipendenti (che così mettono ancor più in ginocchio bar e ristoranti che sono senza clienti). Se poi aggiungiamo che gli scansafatiche regionali siciliani (definizione del loro Governatore) lamentano lo stress per (non) aver lavorato da casa, ma non intendono rientrare in ufficio… forse è il caso di rimettere ordine (a livello nazionale) ad un sistema Paese che così non potrà affrontare i pericoli della crisi prevista per questo autunno.
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 10 Agosto 2020. Difficile dire se a perderci la faccia sia stata la viceministra Laura Castelli o l’intero Governo. Sta di fatto che la bocciatura dell’improvvisato bonus per scontare del 20% i consumi al ristorante (che alla fine non è entrato nel decreto di agosto) dimostra come il mondo della ristorazione e del turismo continui ad essere affrontato in modo approssimativo e senza alcuna strategia. Il confronto obbligato è con la Francia, che ha puntato da subito sulla valorizzazione di questo comparto che contribuisce all’immagine nazionale nel mondo. Da noi, invece, si procede come a occhi chiusi, fra assistenzialismo o contributi a pioggia che non tengono conto delle cause per cui molti bar e ristoranti sono drammaticamente in crisi. Ci sono locali che non lavorano perché mancano i turisti stranieri (è il caso di tutti i centri storici). Ci sono quelli danneggiati dalla vergognosa proroga dello smartworking degli statali e dei bancari, che ha azzerato i lunch o i caffè delle pause. Parliamo di aziende che hanno bisogno di essere sostenute non già per assistenzialismo, ma solo perché questa assenza di clienti è “temporanea”, salvo che qualcuno pensi (e forse era questo l’originale pensiero dell’on. Castelli che avevamo contestato) che l’Italia una volta finita la pandemia debba rinunciare al turismo o che gli uffici pubblici e le banche non debbano più essere frequentati... E su tutto ciò c’è poi la perdurante “paura” di molti italiani di andare al ristorante, alimentata da notizie esageratamente allarmistiche o, peggio, contraddittorie. Del resto cosa si può pretendere da un Governo che ogni giorno avverte (giustamente) dei rischi di una ripresa dei contagi, ma poi rinuncia ad attrezzare le nuove linee di difesa sanitarie respingendo per pregiudizio ideologico gli aiuti ad hoc del Mes, a costo quasi zero e senza alcun vincolo? Per carità, Conte e i suoi ministri hanno messo in campo anche alcuni interventi interessanti per i pubblici esercizi. Pensiamo agli aiuti nei centri storici (senza turisti), alla decontribuzione per le assunzioni dei giovani, al prolungamento della cassa integrazione (legandola all’effettivo calo di fatturato rispetto allo scorso anno), agli sgravi fiscali (ma solo temporanei...) per chi investe al Sud. Di valore c’è poi il contributo voluto dalla ministra Teresa Bellanova per spingere gli acquisti di prodotti agroalimentari italiani. Peccato però che i 600 milioni stanziati sembrano un po’ un’elemosina e, soprattutto, sono ancora una volta distribuiti a pioggia senza tenere conto che ci sono ristoranti (pensiamo alle località di mare) che per fortuna in questi giorni lavorano, mentre i locali di Milano o Roma, ad esempio, sono drammaticamente vuoti. Non consideriamo in questo pacchetto l’anticipazione del cervellotico sistema con cui si pensa di garantire qualche possibile sconto (?) per chi farà acquisti usando moneta elettronica o carte di credito al posto dei contanti. Questo è infatti uno strumento di tipo fiscale per evitare l’evasione e poco inciderà sul “cassetto” di un locale. Inserirlo nel pacchetto di agosto è davvero solo fumo negli occhi. La verità è che il Governo, pur con alcune iniziative positive, sembra non riuscire a comprendere che il mondo della ristorazione e del turismo non possono vivere di bonus estemporanei. Pensiamo solo al fallimento di quello degli alberghi. Serve un intervento organico e radicale per mettere ordine in un settore dove negli ultimi anni sono entrati troppi improvvisati, dove c’è una sempre più alta presenza di criminalità (che la crisi farà ulteriormente aumentare) e dove ci sono troppe disparità (dal fisco alle normative igienico sanitarie) fra le tante, troppe, aziende che fanno somministrazione di cibo e bevande. Bisogna valorizzare un modello organizzativo che non può prescindere ad esempio dalla presenza di un cuoco professionista. Si deve rimodulare (anche se in fase transitoria) il problema degli affitti e dell’Imu. In caso contrario, con l’autunno il mondo dell’accoglienza perderà tanti dei suoi protagonisti e l’Italia sarà obiettivamente più povera perché attorno al fuori casa e alla tavola gira un indotto che rappresenta quasi un terzo del Pil nazionale. È forse il tempo che i ristoratori trovino il mondo di fare capire cosa rappresentano a livello nazionale. Ma per questo serve l’unità vera di un comparto...
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 17 Agosto 2020. Proprio nel momento in cui il mondo della ristorazione avrebbe bisogno di essere unito e contare di più (dopo settembre la crisi sarà inevitabile per tanti), registriamo purtroppo l’ennesimo fallimento di un progetto ambizioso che si proponeva di mettere insieme esperienze ed interessi diversi (dai cuochi ai pasticceri, dai pizzaioli ai ristoratori): #farerete ha infatti perso per strada alcuni dei suoi soci più importanti. Con la fuoriuscita di 3 delle associazioni aderenti (fra le più rilevanti a livello di iscritti) #farerete in nemmeno due giorni ha visto crollare di oltre il 70% la forza che diceva di rappresentare. Sono bastate poche polemiche interne sul mancato riconoscimento del ruolo svolto da qualcuno, per fare sciogliere il debole collante che teneva insieme tante sigle (diverse per obiettivi e strutture organizzative) che si erano alleate nei tempi del lockdown, quando tutti locali erano chiusi per legge. Le preoccupazioni sul futuro che avevano spinto tante associazioni a cercare un’unità, non sono bastate però a tenere insieme esigenze ed interessi che erano oggettivamente diversi. All’inizio della pandemia tutto il mondo dei pubblici esercizi era fermo e, fra proteste, proclami e richieste di soldi, era forse facile pensare di stare insieme. Ma è bastato che a macchia di leopardo il comparto riprendesse la sua attività, perché visioni e interessi diversi portassero alla rottura di equilibri precari. Non basta riaprire, ci sono i problemi della gestione, del personale e della mancanza di clienti. Se non ci sono visioni generali del comparto è difficile trovare intese, se non fittizie o di facciata. Le esigenze di un ristorante stellato non possono essere quelle del ristorante tradizionale o della pizzeria. Occorre qualcuno che le conosca e le possa mediare. Ad abbandonare per prima il cartello è stata Solidus turismo che con le sue 50mila aziende associate, pesava per oltre la metà della “forza” virtuale di #farerete. A distanza di poche ore se ne sono andate anche la Federazione italiana cuochi (l’unica associazione di rilievo a livello nazionale che rappresenta i cuochi di ogni tipologia) e subito dopo Eurotoques, l’associazione con più iscritti fra i cuochi di alta cucina. Altre defezioni potrebbero esserci nel giro delle prossime ore, ma già queste uscite hanno drasticamente ridotto la realtà del cartello di #farerete. Anche se restano prestigiose associazioni di cuochi o ristoranti, povere però di numeri effettivi, il grosso delle imprese rappresentante indirettamente in questo cartello è oggi dei pasticceri. Non siamo in grado di riportare i commenti dei dirigenti di #farerete, perché a nostre richieste di chiarimenti, riportate sulla loro chat interna, non è stata data risposta. Eppure sarebbe utile per tutti capire bene perché il progetto è naufragato. Una possibile spiegazione è che forse non tutti avevano le stesse motivazioni per stare insieme, oppure c’era un disequilibrio visti i “pesi” diversi fra le varie associazioni. Forse c’erano anche troppi generali che pensavano di fare le “loro” battaglie contando sulle truppe di altri. Secondo alcune indiscrezioni col passare delle settimane si sarebbe fatto sempre più evidente il tentativo di egemonia “politica” che voleva esercitare qualche sigla. È forse il caso di Ambasciatori del Gusto, la piccola associazione di cuochi per lo più stellati, strettamente legata ad Identità Golose, che aveva peraltro avuto il merito di lanciare il progetto di #farerete.
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 24 Agosto 2020. Da isola Covid-free a incubatoio di contagi da esportare sul continente? Secondo una stampa un po’ troppo sensazionalista, in neanche un mese la Sardegna sarebbe passata dalle stelle alle stalle per quanto riguarda la gestione dell’epidemia. Eppure, al di là di alcuni focolai circoscritti, al momento non c’è stato alcun ricorso alle terapie intensive e i pur motivati allarmi per la crescita dei contagi non sono certo da zona rossa. Non è Codogno e nemmeno Nembro. Ci sono tanti asintomatici, ma come in tutta Italia, e non sono certo situazioni paragonabili ai malati seri accertati a marzo. È vero che la Regione ha collezionato alcuni fra gli esempi forse più negativi a livello nazionale per quanto riguarda l’emergenza sanitaria. Ma gli assembramenti sulle spiagge e il troppo affollamento nelle discoteche non sono certo i peggiori esempi di questa estate italiana un po’ anarchica. Eppure, poche notizie hanno affossato il primato positivo che l’isola si era conquistata nei tempi del lockdown. Quasi che la terra dei Nuraghi possa diventare una nuova Wuhan. E tutto questo perché è l’unica regione italiana oltre alla Sicilia in cui in teoria è possibile controllare chi entra o chi esce perché si deve per forza passare da porti e aeroporti. Il comportamento dei sardi è stato in realtà ineccepibile: dalla Nurra a Cagliari, distanziamento, mascherine e file per entrare nei negozi erano e sono ancora la regola. Quel che ha permesso il diffondersi di tanti piccoli focolai è stata forse la mancanza di un controllo più rigoroso delle istituzioni sul comportamento dei turisti, a partire dalla Costa Smeralda, dove è stato come se nei mesi scorsi non fosse accaduto nulla. Su tutti la vicenda del Billionaire, un esempio da manuale di come affossare l’immagine di un territorio e quello di pubblici esercizi come le discoteche, a torto o a ragione nell’occhio del ciclone. In effetti va detto che se la Sardegna è ingiustamente balzata alle cronache negative nazionali lo si deve alla supponenza di un personaggio come Briatore, negazionista e irresponsabile, che alla fine ha chiuso il locale perché pieno di dipendenti contagiati: non si sa se per la presenza di troppa gente rispetto a quanto consentito dalle normative o per la scarsa tutela dei dipendenti. Altro che inventare piazzate da tv populista contro il sindaco di Arzachena che aveva “corretto” in senso più restrittivo il via libera della Regione sulle discoteche. Ma per il Billionaire e tante discoteche si sarebbe potuto evitare questo epilogo se solo si fossero fatti dei controlli. Altro che dare la colpa ai giovani. Se il Governatore che nei mesi scorsi voleva essere il più rigoroso di tutti ha poi aperto le discoteche senza regole, perché i giovani non avrebbero dovuto frequentarle? Parliamo di un Governatore che mesi fa voleva imporre un passaporto sanitario senza basi scientifiche per accedere all’isola, salvo poi trasformarlo in una app di cui praticamente nessuno ha controllato l’utilizzo all’ingresso dell’isola in aeroporti o porti. È stata solo una grande operazione di pura immagine e scarsa sostanza, come del resto è la pretesa adesso di fare tamponi alle decine di migliaia di persone che lasceranno l’isola in questi giorni. Un’operazione impossibile che fa il paio solo con quella decisa in poche ore dal Governo per fare tamponi a chi proviene da Paesi a rischio Covid, ma solo per chi viaggia in aereo. Una vera buffonata per il ritardo con cui ci si è mossi e per alcune modalità che dovrebbero fare riflettere sulla superficialità di certi scienziati o politici. Premesso che, se servono test per eventuali contagi, li devono fare a tutti e non solo a chi si prenota, perché questo dovrebbe valere solo per chi viaggia in aereo? Chi viene in auto o in treno da Grecia, Croazia o Spagna perché non dovrebbe fare il tampone? Obiettivamente sarebbe difficile intercettarli... ma allora a che serve questo teatrino solo negli aeroporti? E perché non abbiamo posto restrizioni per andare in quei Paesi? È più che giusto controllare i contagi, ma bisogna che qualcuno chiarisca che i casi rilevati finora, pur facendo salire la soglia di allarme, non sono come quelli di mesi fa, quando si facevano pochi tamponi e solo a persone quasi in fin di vita. Ora i malati seri sono molto meno e si fanno test più ampi e mirati che accertano tantissimi asintomatici, soprattutto fra i giovani. Bisognerebbe distinguere meglio la situazione, anche se non si può sottovalutare il pericolo, anzi. Ed è da irresponsabili sia enfatizzare la situazione sia banalizzarla ad invenzione giornalistica. Purtroppo ci sono troppe domande senza risposta su questa estate dove sembra che ci si interessi solo della follia dei banchi delle scuole. Alla fine questo clima di paura forse un po’ esagerata rischia di riportarci indietro e di vanificare quei pochi segnali positivi di recupero che ha dato il nostro turismo, mentre per alberghi e ristoranti resta sempre la preoccupazione per una ripresa dell’attività ancora lontana. Speriamo solo che dopo settembre, smaltita l’inevitabile crescita di contagi col rientro dalle ferie, si possa tornare a quel rigore che ci aveva caratterizzato, evitando l’incubo di un nuovo lockdown che si aggiungerebbe alla inevitabile crisi economica già attesa.
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 31 Agosto 2020. Se c’era bisogno di una qualche conferma ufficiale ora è giunta l’Istat che certifica che a fine giugno il fatturato dei ristoranti aveva chiuso con un crollo del 64,2% negli ultimi tre mesi, il che equivale ad una perdita di circa 13 miliardi di euro. Numeri che da soli indicano qual è lo stato drammatico della maggior parte delle imprese del comparto che in quel periodo avevano appena cominciato a tentare una ripartenza. Questi 13 miliardi di perdite, come evidenzia la Fipe, si sommano ai 17 miliardi di rosso segnati fra gennaio e marzo, e pongono una pesantissima ipoteca sul futuro a breve di molte imprese. Difficile immaginare a oggi cosa succederà nei prossimi mesi quando speriamo ci sia la vera “ripartenza”. Se con realismo bisogna considerare che l’attività fra luglio ed agosto è stata positiva in alcune località di mare o di montagna (dove per altro molti locali sono rimasti chiusi), lo stesso non si può certo dire delle città o dei centri storici, dove l’assenza degli impiegati per il lunch o dei turisti stranieri è stata devastante. Si può ipotizzare che la contrazione del fatturato dei ristoranti, mediamente a livello nazionale, durante le ferie possa essersi fermata ad un -40%. Che ovviamente è un dato statistico, perché per molti locali di Milano, invece che a Roma, Firenze o in tanti centri minori, il calo è arrivato anche all’80%. Un trend che, se confermato, porterebbe a oggi ad una perdita prevista di oltre 22 miliardi per tutto il comparto su base annua. La speranza di tutti è che ci sia una lenta ripresa. Sempre che non si rischi un altro lockdown (che le follie dei negazionisti alla Sgarbi o Briatore potrebbero favorire) e che settembre davvero non segni quella caduta a picco che si teme per la paura dei contagi e dei focolai sparsi per l’Italia, che troppa stampa stupidamente ha forse ingigantito. Ma come garantire una ripresa? Per ora il dato su cui si può ragionare è quello che spiega il direttore generale di Fipe, Roberto Calugi, secondo cui «sicuramente la parte centrale di agosto e in generale il mese, per i luoghi legati ai posti di villeggiatura, come mare e montagna, non è andata male, è stata solo una boccata di ossigeno per bar e ristoranti, perché c'è stato il turismo italiano, mentre nelle città d'arte, dove è mancato tantissimo il turismo straniero, la situazione è drammatica». E da qui si deve partire. Se dunque il turismo costiero e montano ha dato una boccata d'ossigeno, che arriva dopo un periodo disastroso, cosa succederà dal 1° settembre, quando non ci sarà più nessuno in vacanza? Questo è il tema che Governo e Regioni dovranno affrontare al più presto. Fin dall’inizio della pandemia avevamo insistito sul fatto che molti ristoranti non avrebbero più riaperto. E in città come Milano, Firenze, Venezia e Roma molti ristoranti e bar non hanno proprio riaperto, soprattutto se troppo piccoli (e quindi nell’impossibilità di garantire il distanziamento obbligatorio) o se da tempo un po’ “snaturati” rispetto alla mission di somministrare cibo. È il caso di molti locali “fighetti” o di tendenza (a volte anche stellati) dove gli eventi e il marketing (attività di fatto azzerate) contribuivano in maniera determinante al fatturato. Se poi i muri non sono nemmeno di proprietà la situazione si complica ancora di più. La ripresa, o ripartenza vera che sia, in ogni caso non potrà essere come un ritorno al passato.
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 18 Maggio Ora dobbiamo incrociare le dita e augurarci la grinta necessaria per ripartire alla grande. Sono state le aziende in assoluto più colpite dal lockdown, ma sono anche quelle da cui dipende il futuro di tutta la filiera dell’agroalimentare di qualità, dell’industria delle attrezzature, degli hotel e del turismo. Insomma, attorno a bar e ristoranti gira più di un terzo del Pil italiano, nonché molta parte della nostra immagine del mondo: sono uno dei simboli del nostro stile di vita che più piace agli stranieri. Al di là delle oltre trecentomila insegne del comparto e di qualche milione di addetti, è l’intero sistema economico del Paese che non poteva permettersi ulteriormente un blocco di queste imprese.
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 25 Maggio Altro che buonismo e canzoni condivise dai balconi. È bastato allentare un po’ i vincoli del lockdown e tutta la solidarietà e il senso di responsabilità che come italiani avevamo dimostrato sembrano scomparsi. È un po’ come la fantastica qualità dell’aria che avevamo respirato in quei giorni anche in città: è bastato un po’ di traffico e siamo ritornati alle polveri sottili che da sole causano più morti ogni giorno del covid-19. Ma tantè, dobbiamo pur tornare alla “normalità”, secondo il mantra che ci sentiamo ripetere da politici o tecnici di cui pochi ormai pochi si fidano.
Editoriale del direttore Alberto Lupini dell'11 Maggio 2020 Bar, ristoranti e alberghi aspettano al varco Conte sulla questione tavoli. L’ennesima, inutile, indiscrezione circolata sabato sull’ipotesi di distanziare i tavoli di almeno 4 metri ha ulteriormente irritato, e preoccupato, gestori e dipendenti, tutti consapevoli che con quelle misure in pochi potranno riaprire e l’accoglienza italiana sarà condannata a morte. Non ci sono se o ma che tengano. Il Governo deve chiarire subito quali regole dovranno essere rispettate per riaprire in sicurezza. Il lasciare circolare proposte folli, degne solo di esperti incompetenti o burocrati superpagati, è un atto che si può definire criminale perché si gioca sulla pelle di chi non ha mai ricevuto molto dalle istituzioni, pur svolgendo un ruolo centrale per quello stile di vita che è il nostro vanto e marchio distintivo nel mondo. E ugualmente durissima è la posizione di Confindustria Alberghi che contesta alla base le indiscrezioni sul Dl Rilancio che non terrebbe in alcun conto della posizione drammatica anche degli alberghi, dove il 97% del personale è oggi in cassa integrazione, al punto che se non ci fossero novità si minaccia la chiusura di tutte le strutture alberghiere.
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 27/04/2020 I finanziamenti alle piccole imprese sono bloccati dalle banche e ai dipendenti non arriva la cassa integrazione in deroga, ma il Governo non si impegna e rinvia la riapertura all'1 giugno. Il comparto lasciato in crisi, quasi che qualcuno giochi ad una selezione a vantaggio dei più forti e della criminalità
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 4/05/2020 Per il RE-START del 1° giugno ormai si è capito cosa si deve fare. Ristoranti e bar devono però rivedere tutta la proposta dei menu: piatti più semplici e torna la tradizione. Con brigate meno numerose in cucina si punterà su proposte meno elaborate e da "esperienza". Ma ora servono regole per la sanificazione e le presenze
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 20/04/2020 La task force di Colao fa filtrare indiscrezioni su tabelle di rischio per ogni attività, ma non le spiega e non le conferma. Un comportamento irresponsabile che crea solo equivoci e dubbi. E intanto lascia che si facciano congetture su quando riapriranno i ristoranti, ma non si danno indicazioni su cosa si dovrebbe fare Già dalla data indicata ci si può fare l'idea che chi dovrebbe valutare come a quando riaprire ristoranti e bar forse non sa nemmeno bene come funziona il comparto: il 18 maggio, data ipotizzata dai più, è un lunedì. Giusto il giorno della settimana in cui la maggior parte dei locali è chiusa per turno. Ma tant’è, nella task force presieduta da Vittorio Colao non c’è un solo esperto di turismo e di accoglienza e non ci si può aspettare molto di più. A meno che non si tratti di un calcolo bizantino per partire con pochi locali, così da non avere subito l’impressione che molti potrebbero non aprire. Con questa classe dirigente c’è da aspettarsi di tutto… Troppa confusione sulle riaperture Classi di rischio, chi le ha definite? Ma al di là della data (potrebbe essere anche l'11 maggio o addirittura il 4 in alcune regioni, forse non la Lombardia…), quel che sorprende è l’assoluta superficialità (o disinteresse) con cui, a oggi, i supertecnici sembrano affrontare i problemi di un comparto che rappresenta il 15% del Pil nazionale e dà da vivere a qualche milione di italiani. Fare girare indiscrezioni (solo alla stampa amica) su Tabelle che dovrebbero misurare i livelli di "rischio integrato" delle diverse attività è un nonsense. Tanto più che sulla base di queste tabelle il Governo dovrebbe stabilire calendari di re-start e adempimenti da assolvere. Peccato che queste pseudo classificazioni al momento generano forse illusioni e falsi ottimismi. Tanto che non sarebbe male se la task force o il Governo ne confermassero l’esistenza o le smentissero. Anche perché così sembrano fatte solo per sondare il terreno, vedere le reazioni della gente. Una logica che dovrebbe preoccupare non poco. Per completezza d’informazione riportiamo questa tabella che peraltro è incompleta e, come detto, al momento priva di ufficialità. La si può consultare in coda all'articolo o nell'allegato pdf. In base a questa tabella la ristorazione (codice generale Ateco 56) avrebbe un indice “medio-basso” di rischio integrato, così come le attività commerciali (quelle dove può accedere solo un cliente alla volta se ci sono 40metri quadrati…). Certo il ristorante non può essere paragonato all’assistenza sanitaria o al trasporto aereo (con rischio integrato “alto”), ma va detto che medio-basso è anche quello dei trasporti, dello sport, dei servizi sociali, della scuola e delle colf, tutte attività ad alta aggregazione sociale e con livello di aggregazione di 3 su 5, che sono sospese o con grandissime limitazioni. Ora bisogna prestare attenzione anche alla "classe di aggregazione sociale" che è un'altra novità delle ultime ore, che non ha avuto alcuna ufficialità. Si tratta dell’eventuale apertura al pubblico dell’azienda e terrebbe conto del rischio di essere contagiati mentre si lavora e prevede un maggiore rispetto del distanziamento sociale durante le mansioni svolte. Il documento dovrebbe offrire al Comitato dei 17 esperti guidati da Colao una prima mappa per definire i criteri della riapertura. Ma il lavoro è complesso perché la situazione è fortemente disomogenea. La pandemia ha colpito più duramente alcune aree geografiche e la stessa classificazione in base ai codici Ateco è stata definita «anacronistica» dal neo presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, al quale ci associamo per segnalare che costruire ipotesi su situazioni già da tempo considerate vecchie e superate dal mondo dei consulenti del lavoro dovrebbe fare capire come il lavoro di questa task force sembra una navigazione a vista guidata al massimo da burocrati già screditati di loro. La gran parte delle industrie come degli uffici, dalle banche (praticamente vuote) agli studi professionali, presenterebbe oggi indici di aggregazione 1 e rischi integrato “basso”. Probabilmente perché si pensa che lì sia possibile attuare i provvedimenti di distanziamento sociale e protezioni varie, senza in più il rischio del contatto con utenti o clienti. Ma le banche sono di fatto inattive perche il sindacato ha paura del contagio... Non mancano poi le contraddizioni, come ad esempio quella riferita agli hotel (codice Ateco 55) che pur avendo un livello di aggregazione alto per la commissione avrebbe un rischio di pericolosità basso… Il che francamente ci stupisce un po’ perché l’albergo, al di là che possa avere un ristorante che ha magari è considerato come altra attività, contempla la prima colazione che non può certo essere considerata meno a rischio di un bar o di una trattoria… Troppa confusione sulle riaperture Classi di rischio, chi le ha definite? Misteri dei super esperti (non di turismo) della task force, dai quali dipenderebbe però la ripartenza. E qui ci permettiamo qualche semplice considerazione, senza illuderci che possano giungere delle risposte. A) Su che basi sono stati creati questi indici? L’indice di rischio di un’attività esiste da tempo ed ogni codice Ateco ne ha uno fisso che vale in condizioni normali e riguarda i dipendenti nell’esercizio delle loro funzioni. Ora, questi indici sembrerebbero essere stati modificati tenendo conto della possibilità di contagio e, quindi, sono definiti "integrati" ma senza norme attuative rischia solo di creare confusione nella gestione del personale. In tal senso è davvero da irresponsabili diffondere tabelle di presunto rischio senza dare indicazioni precise. A oggi non c’è ancora un solo documento ufficiale che indichi il rischio di contagio che può comportare lo svolgere un’attività invece che un’altra. Eppure questo "rischio integrato" sembra indicare la "pericolosità" di un'attività, ma mischia il dato per i dipendenti con quello degli utenti. E a questo punto è un elemento base per i piani di sicurezza che valgono per ogni azienda, anche del parrucchiere che lavora da solo, o no? Cosa si deve fare? E se in questo caos ci verificano nuovi contagi di chi è la responsabilità? B) Per la ripartenza delle attività, ciò che purtroppo conta oggi (questo è il punto), è solo il livello di rischio di contagio …e questo, in assenza di altri parametri, secondo gli scienziati (e non gli esperti di Colao) si abbassa tanto più c’è distanziamento sociale e igienizzazione di ambienti e strumenti. Giusto ciò che Italia a Tavola va ripetendo da settimane. E al di là di cosa potrà valutare la commissione Colao, le indicazioni degli epidemiologi sono chiarissime: niente ressa ai banconi del bar, servizio solo ai tavoli (distanziati di 2 metri) e mascherine e guanti per il personale. Tutto il resto sono forse chiacchiere per illudere qualcuno, mentre i soldi promessi per affrontare la crisi non arrivano. C) Quelle che arriveranno saranno disposizioni solo temporanee, ma che dureranno almeno fino a quando il covid-19 non sarà definitivamente sconfitto. E non c’è da illudersi che sia a breve se troveranno conferma i dati allarmanti della Corea del sud, dove crescerebbe il numero di contagiati per la seconda volta, persone che già erano state malate, e poi guarite, per questo coronavirus. Purtroppo bisogna fare i conti con questa realtà e ci si deve attrezzare per tempo. Il rischio è che, nei tira e molla vergognosi fra Governo e Regioni, senza tanti preavvisi ad un certo punto verrà annunciata una data di riapertura e molti esercizi pubblici potrebbero non essere in grado di riaprire perchè non hanno avuto per tempo indicazioni precise su cosa fare. Troppa confusione sulle riaperture Classi di rischio, chi le ha definite? Troppa confusione sulle riaperture Classi di rischio, chi le ha definite? © Riproduzione riservata HOME > EDITORIALI > > Troppa confusione sulle riaperture Classi di rischio, chi le ha definite? - Italia a Tavola Le classi di rischio coronavirus delle attività economiche (Scarica allegato) LEGGI GRATIS LA RIVISTA MENSILE RESTA SEMPRE AGGIORNATO! 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Presentata a Milano presso la Unicredit Tower Hall l’edizione 2020 del “Rapporto sul turismo enogastronomico italiano”, a cura di Roberta Garibaldi sotto l’egida della World food travel association e l’Associazione italiana turismo enogastronomico. Un lavoro ponderoso di 735 pagine di dati e analisi per delineare sia l’offerta del “sistema Italia”, comparato a livello europeo e nazionale, sia il profilo del turista internazionale di Francia, Regno Unito, Canada, Stati Uniti d’America, Messico e Cina. Due i volumi, “L’offerta”, autore Roberta Garibaldi, con il supporto di UniCredit e PromoTurismoFvg e il patrocinio di Enit-Agenzia nazionale del turismo, Federculture, Fondazione Qualivita, Ismea, Touring club italiano, e “La domanda”, versione italiana del “Food travel monitor 2020” redatto della World food travel association. Main sponsor è il Quebec. L’incontro è stato moderato da Alberto Lupini, direttore di Italia a Tavola. In sala, oltre a Roberta Garibaldi, che ha illustaro la ricerca, Giorgio Palmucci, presidente Enit, Bruno Bertero, direttore marketing PromoTurismoFv, Massimo Costantino Macchitella, head of small business & financing products UniCredit. Quest'ultimo, facendo gli onori di casa, ha presentato "Made4Italy”, il nuovo programma UniCredit nato con gli obiettivi di promuovere un sistema integrato turismo-agricoltura e supportare lo sviluppo di progetti di valorizzazione del territorio. Con Made4Italy UniCredit mette a disposizione 5 miliardi di euro di finanziamenti per le Pmi italiane nel triennio 2019-2021 per favorire l’imprenditorialità e rafforzare le identità regionali tipiche. Giorgio Palmucci, dal canto suo, riflette sugli arrivi internazionali, parlando di crescita/costanza, «praticamente nessuna decrescita». «Non disponiamo ancora di tutti i dati - ha spiegato - ma sicuramente sulla base delle informazioni definitive circa gli arrivi internazionali negli aeroporti italiani fino a settembre 2019 e l'andamento osservato nell'ultimo trimestre dell'anno passato, possiamo dire che continuiamo a crescere. Le previsioni del turismo durante il primo trimestre 2020, grazie al circa l'80% degli operatori intervistati dai nostri 28 uffici all'estero, presentano un turismo in crescita o al massimo stabile». Dal rapporto è emerso che il ruolo dell’enogastronomia nel turismo è sempre più centrale: il 71% delle persone in viaggio vuole vivere esperienze enogastronomiche che siano memorabili, mentre il 59% dei turisti dichiara che le esperienze a tema li aiutano a scegliere tra più destinazioni. Con focus l’enogastronomia, si possono suddividere i turisti in due grandi gruppi. Circa il 50% è “onnivoro”: durante il viaggio desidera vivere un insieme di esperienze arricchenti e l’enogastronomia, già di per sé multisensoriale, emozionale e culturale, soddisfa al meglio questi bisogni sfaccettati bisogni. Alle esperienze enogastronomiche si abbinano con maggiore probabilità, rispetto ai turisti generalisti, anche altre attività, per esempio lo shopping (indicato dall’85% contro il 68% dei turisti generalisti) o i festival musicali (66% vs 45%). Il turista ricerca proposte integrate che abbinano una varietà di esperienze a tema enogastronomico con altre attività culturali e ludiche. I turisti internazionali di tutte le nazionalità mappate si definiscono prevalentemente “eclettici” nella scelta delle esperienze, solo per i francesi prevale il tema dell’autentico, del locale e del gourmet. «In assoluto - ha ricordato Roberta Garibaldi - si consolida l’interesse dei turisti verso l’enogastronomia nei Paesi occidentali. In forte crescita i turisti enogastronomici da Cina e Messico. Dal 2016 si evidenzia un incremento rispettivamente del +12% e +10%. Il totale di chi ha dichiarato di avere svolto almeno un viaggio con questa motivazione negli ultimi due anni a livello internazionale è pari al 53%. I Millennials guidano il trend tra le generazioni, mentre si affacciano i nuovi “super foodie”, i nati della Generazione Z: viaggiatori frequenti che già mostrano un alto interesse verso il cibo». Tra le esperienze più ricercate sul web, più vissute e più valorizzate dai tour operator e il posizionamento del nostro Paese emergono i “food truck” (cibo di strada), i ristoranti e i bar storici, le dimore storiche sede di aziende di produzione agroalimentare, le visite ai produttori extra vino, i corsi di cucina. La pizza emerge come prodotto trainante per il nostro Paese e dovrebbe diventare un asset su cui puntare in modo più forte per il turismo.
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 13/01/2020
Editoriale del direttore Alberto Lupini del 07/01/2020
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