Il Commento e il Vangelo del giorno
Monastero di S.Vincenzo Martire - Bassano Romano (VT)

L’insistenza con cui Giovanni invita a osservare i comandamenti del Signore, per dimostrargli un vero amore, ci fa pensare alla nostra durezza di cuore. Non facile ad arrendersi dinanzi alla pretesa di essere a posto con Dio perché compiamo qualche pratica religiosa. Il primo comandamento da osservare è quello dell’amore di Dio e quindi dell’amore del prossimo. Possiamo facilmente illuderci di amare Dio come conviene; per toglierci da questa illusione Giovanni ci propone una verifica: quella dell’amore del prossimo. «Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre». Amare come il Signore comanda, come lui ama, non è cosa facile. Amare l’altro significa donarsi completamente a lui, significa morire a noi stessi, e morire è assolutamente arduo. I sentimenti che noi possiamo provare verso l’altro, in genere, sono di simpatia, di indifferenza o di antipatia. La simpatia non è l’amore che Dio comanda, perché consiste nella ricerca del proprio vantaggio: potrebbe essere il trionfo dell’egoismo, velato da un falso altruismo. L’indifferenza uccide ogni sentimento di amore: è come il gelo. L’antipatia è un sentimento naturale che va corretto praticamente, anche se non si riesce sempre a estinguerlo, perché la natura non va distrutta. Il vero amore verso il prossimo si fonda su un motivo di fede: riconoscere e amare nell’altro Gesù stesso. Se si vive con la tensione di voler seguire l’insegnamento di Gesù, allora si può affermare di conoscerlo e di osservare i suoi comandamenti, perché, al dire di Agostino: «Ama e fa’ quello che vuoi». Sarebbe utile, per avere idee piu chiare, leggere il numero 18 della "Deus Caritas est" di Papa Benedetto XVI, dove si afferma: «Solo il servizio al prossimo apre i miei occhi su quello che Dio fa per me e come egli mi ama». Il brano del Vangelo di Luca ci conferma la piena disponibilità di Maria e di Giuseppe nell’osservanza della legge mosaica: era Figlio di Dio lui, vergine immacolata lei; non c’era bisogno né di riscatto né di purificazione, eppure eccoli in mezzo ad altre donne e bambini. Ma il Padre vuole rivelare almeno al vecchio Simeone la vera essenza di quella santa Famiglia: era in attesa di quel Bambino, ora può lasciare questo mondo, perché i suoi occhi hanno avuto la gioia di vedere il Salvatore; ma intravede anche ore tragiche che preannuncia alla madre: la tua anima sarà trafitta da una spada. Si profila cosi la vita di Gesù come Salvatore e quella della madre, che gli sarà accanto nel momento della prova suprema, sul Calvario.

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore - come è scritto nella legge del Signore: "Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore" - e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch'egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: "Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele". Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: "Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione - e anche a te una spada trafiggerà l'anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori".

Nella domenica che cade tra il Natale e il primo dell’anno, la riforma liturgica fa celebrare la festa della santa Famiglia di Nàzaret. Forse, sotto l’aspetto pastorale, non è una data più felice: la gente è troppo distratta dalle feste natalizie e quindi poco disposta a fissare l’attenzione sull’icona della santa Famiglia, esempio e modello di ogni famiglia cristiana e umana, anche se proprio quei giorni spesso da varie parti del mondo le parti delle famiglie distanti si ricongiungono. Comunque, la liturgia suggerisce preziosi insegnamenti, validi in ogni stagione. Nella prima lettura vengono raccomandati i doveri dei figli verso i genitori: onorare il padre e la madre, prendersi cura di loro nella vecchiaia e anche quando dovessero perdere il senno. Frutti di questi gesti di pietà sono la preghiera esaudita dal Padre celeste, la lunga vita, la gioia donata dai figli. San Paolo, scrivendo ai Colossesi, consiglia ad ogni famiglia di vivere nel Signore. Il vero legame della famiglia cristiana non sono tanto i sentimenti, che passano, tramontano e cambiano, quanto quella comunione profonda che avviene tra i coniugi nella fede nel Signore Gesù, che insegna a onorare, amare e rispettare nell’altro o nell’altra la sua immagine. Per giungere a questi sentimenti di reciproca attenzione, occorre attingere convinzioni profonde dalla Parola di Dio, che illumina i coniugi circa i propri limiti e li spinge ad accettare con pazienza quelli dell’altro. Il Vangelo situa la santa Famiglia in un momento di angoscia: il Bambino Gesù corre pericolo di vita, perché Erode ha deciso di uccidere tutti i bambini di Betlemme, dai due anni in giù, dopo la partenza dei magi per un’altra strada. Ma il Padre vigila sul suo Figlio e quindi segue l’avventurosa fuga in Egitto, con la trepidazione di essere raggiunti da un momento all’altro. Morto Erode, è ancora l’angelo che ordina a Giuseppe di rientrare in Palestina; egli obbedisce, però la sicurezza del Bambino lo consiglia a stabilirsi a Nàzaret anziché a Betlemme. Le famiglie cristiane apprendono dalla Sacra Famiglia il senso religioso della vita coniugale, il rispetto reciproco, la fiducia illimitata nella divina Provvidenza, la gioia di vivere insieme, la pace che fa superare tutte le immancabili difficoltà. Santificate e fortificate dal sacramento del matrimonio, a loro volta sono chiamate a svolgere la loro missione specifica presso altre coppie di sposi, con la testimonianza della vita e con l’annunzio del Vangelo. Si sa che l’istituto familiare vive un momento di crisi profonda, sia perché è oggetto di ostilità e di incomprensione da parte di lobby sociali e di certa politica, sia per la difficoltà delle giovani coppie a rimanere ferme nelle proprie scelte dinanzi a un mondo in continua e rapida evoluzione. Voglia la santa Famiglia di Nàzaret vegliare su tutte le famiglie e infondere in loro tutto lo slancio per diventare dovunque testimoni dell’amore di Cristo, attraverso la loro comunione di vita, nella piena armonia dei cuori.

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo». Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall'Egitto ho chiamato mio figlio». Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va' nella terra d'Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino». Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d'Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».

È la festa del discepolo prediletto del Signore, "il discepolo che Gesù amava", colui che nell'ultima cena pose il suo capo sul petto del Signore percependone l'intensità dei palpiti, colui che ai piedi della croce si sentirà ripetere da Gesù morente: "figlio, ecco tua Madre". È insieme a S. Pietro uno dei primi testimoni oculari della risurrezione di Cristo. È lui l'autore del quarto Vangelo e di due splendide lettere che inneggiano alla carità e all'amore e del libro dell'Apocalisse. Possiamo definirlo il grande teologo che afferma in modo inequivocabile la divinità del Cristo. È anche l'apostolo che, pur non narrandoci l'ultima cena, meglio degli altri approfondisce il mistero eucaristico e la teologia del pane di vita. Coglie in profondità anche il significato recondito del disegno divino della incarnazione e redenzione del Verbo che si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi, perché noi diventassimo figli di Dio. È lui a riferirci del Cristo Luce del mondo, è ancora lui che parla di segni più che di miracoli per smuovere alla fede autentica i suoi lettori. Viene da pensare che la sua prima fonte, dopo l'esperienza personale diretta, sia stata la Vergine Madre, non perché la citi particolarmente, ma per la profondità con cui tratta di Cristo e dei suoi misteri. Dobbiamo molta gratitudine a questo apostolo ed evangelista per le grandi verità che ci ha insegnato, formano ora il prezioso bagaglio della rivelazione a cui tutta la chiesa si ispira.

Le feste che seguono immediatamente il Natale hanno un nesso evidente con la nascita del Cristo: oggi la lapidazione del Diacono Stefano, primo martire e dopodomani la strage dei Santi bambini Innocenti, ci parlano in modo evidente della sorte che toccherà al Figlio di Dio, nato bambino. Ci parlano del prezzo del nostro riscatto, ci parlano delle trame oscure che gli uomini vanno ordendo da sempre contro di lui. Ci descrivono in anticipo una storia assurda, che si snoda nei secoli. Ci parlano del peccato del mondo e della storia vera della chiesa di Cristo. Si snoda già da oggi quel mirabile ed incessante duello tra le forze del male che vorrebbero chiudere definitivamente in un sepolcro di morte prima il Cristo e poi i suoi seguaci. Tutti i persecutori della chiesa dovrebbero finalmente capire che il sangue dei martiri, da Santo Stefano fino a quello dei nostri giorni, è stato sempre il seme che l'ha fecondata di nuovi figli e l'ha resa sempre più sposa degna del martire divino. Il martirio del Santo di oggi ricalca fedelmente, nei suoi tratti essenziali, quello di Cristo. Ancora una volta viene condannato un innocente, che si "vendica" con il suo perdono. Così egli diventa il vero vincitore e i cieli si aprono su di lui.

Si veglia questa sera per attendere l'Evento. Nel calore delle case, i pensieri degli uomini assumono una direzione unica: siamo tutti in viaggio verso una grotta, sentiamo dentro di noi un annuncio misterioso. Fra le migliaia di nascite che avvengono contemporaneamente nel mondo, c'è la nascita di un bimbo che coinvolge il mondo intero. Nasce in una grotta, ma è il Re dell'universo; nasce povero, ma è il re del cielo. La grotta che l'accoglie sembra una tomba e la sua culla è una mangiatoia, ma Egli è il Signore del mondo. Sentiamo ancora di guerre e di disastri, ma Egli è il Signore della pace. Lo annunciano, presente nel mondo, gli Angeli di Dio: annunziano la pace, cantano l'amore e la gloria del Signore. Accolgono l'invito gli umili pastori, loro che sono assuefatti al belare degli agnelli, e ben comprendono il vagito del Bambino: Egli si è umiliato nella carne. Siamo invitati anche noi ad entrare, numerosi più che mai, nelle nostre chiese, con la stessa umiltà di quei pastori. Ciò che è povero, ciò che è piccolo agli occhi della carne, diventa grande a quelli della fede. Anche noi gustiamo nel profondo la gioia di quella nascita nel tempo del Dio eterno: Egli si è fatto come noi per essere uno di noi. Vuole immergersi nella storia del mondo e di ognuno di noi. Egli viene a redimere la storia, a cancellare il peccato e a infondere una nuova energia vitale, che ricrea l'uomo nella giustizia e nella santità. Il presepio più vero è quello che celebriamo sull'altare: quei frammenti di pane diventano il suo corpo per nutrirci del divino; quel poco vino diventa sangue di quel bimbo che vuole ancora donarci del suo amore.

Questo cantico di ringraziamento è profetico e, nello stesso tempo, bene si addìce alla vigilia del grande evento della nascita del Salvatore. Evoca quello della sentinella notturna che attende l’aurora, la quale sfocia nel pieno giorno. È un’esplosione di gioia dopo la mutezza, ma anche un inno di gratitudine a Dio per aver mantenuto le sue promesse, che risalgono ad Abramo e poi a Davide, lontano circa mille anni da questi avvenimenti. Dio è fedele alle sue promesse e sorge già il giorno per la liberazione di Israele: una liberazione dai nemici materiali, ma in particolare dal peccato, dalla nostra ribellione al suo amore. La missione di questo bambino, di suo figlio, è proprio quella di preparare, come l’aurora, l’avvento del sole di giustizia, il Signore Gesù, che verrà a illuminare le coscienze, a rinsaldare i cuori nella fiducia, ad aprire agli uomini i sentieri della pace. È un cantico di speranza nella misericordia infinita e fedele del Signore. Per questo la liturgia lo pone tutte le mattine, nelle Lodi, sulle labbra dei salmodianti, come annunzio di fiducia in Colui che viene a visitarci come sole che sorge. L’imminenza del grande evento ci impone una preparazione, almeno oggi, se non l’avessimo fatta durante l’Avvento. Sei nelle tenebre del peccato, di una coscienza turbata per l’ingiustizia contro Dio, il prossimo e te stesso? Riacquista la tua personalità e la tua pace mediante un atto di umiltà, riconoscendo i tuoi errori e confessandoli a chi ha il potere di donarti il perdono e la pace. Allora sarà un sole brillante quello che sorgerà in te e che ti farà entrare nel mistero di amore che celebriamo.

In quel tempo, Zaccarìa, padre di Giovanni, fu colmato di Spirito Santo e profetò dicendo: «Benedetto il Signore, Dio d'Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo, e ha suscitato per noi un Salvatore potente nella casa di Davide, suo servo, come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d'un tempo: salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell'Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall'alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell'ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace».

Il brano evangelico della liturgia odierna ci fa rimanere ancora nella casa di Zaccaria per la celebrazione di due eventi meravigliosi: la nascita del Precursore del Signore e l’imposizione del nome nella circoncisione. Alla notizia che Elisabetta ha dato alla luce un bambino, dopo un primo momento di meraviglia e quasi di incredulità, segue un susseguirsi di liete congratulazioni da parte di parenti e conoscenti. La vita viene accolta con grande gioia da tutti, anche da Zaccaria, che in questo momento appare quasi appartato, trascurato, lasciato nella sua mutevolezza. Poi viene il giorno della circoncisione, quando si deve dare il nome al fanciullo. I parenti sono tutti d’accordo: avrà il nome del padre, Zaccaria. Ma Elisabetta non ama questa intromissione di persone ignare del messaggio profetico dell'Arcangelo, quindi, con fermezza, afferma: No, si chiamerà Giovanni. Si pensa che, data l’età, stia vaneggiando; forse è meglio allora sentire il padre, incapace di parlare perché muto. Gli viene data una tavoletta ed egli scrive: Giovanni è il suo nome. Una meraviglia incontenibile, aumentata dal fatto che la lingua di Zaccaria si scioglie ed egli inizia il suo cantico di lode a Dio e di annuncio profetico sulla missione del figlio Giovanni, il cui nome significa: Il Signore usa misericordia. Dinanzi a questi eventi inconsueti cessa il chiacchiericcio dei parenti, che esclamano meravigliati: Che sarà mai questo bambino? Un precursore del Messia, un testimone della sua presenza nel mondo, una voce che invita alla conversione. Ogni volta che, nel canto del "Benedictus", cantico di Zaccaria, si ripetono queste parole: E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo, mi viene in mente la scena della sua decapitazione nella prigione e la sua testa nelle mani di Erodìade, che sfoga la sua vendetta contro questa voce che condanna la sua vita di adultera. Il male ci prova sempre, ma sarà il bene a vincere, di vera vittoria, quella eterna.

In quei giorni, per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei. Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccarìa. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c'è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All'istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.

Spessissimo ci viene proposto questo sublime cantico di lode e di ringraziamento nella liturgia. La sua recita o il suo canto sono d’obbligo ogni sera nella celebrazione del Vespro, e nella voce dei monaci, dei religiosi salmodianti è presente tutta la Chiesa, tutti i fedeli. Mi sembra allora quanto mai naturale, al termine della giornata durante la quale tanti doni di Dio ci hanno accompagnato, ripetere con Maria: l’anima mia ringrazia, loda e riconosce la grandezza di Dio, che si china a donare le sue grazie non solo a Maria, ma a tutti noi. Noi, cosi poveri di ogni merito, stiamo sperimentando le meraviglie del Signore nel dono della fede, della speranza e della carità, nel susseguirsi dei tempi e delle celebrazioni liturgiche, che ci fanno rivivere, nelle loro varie fasi, il progetto di salvezza di Dio: dal battesimo, che ci ha resi figli ed eredi del paradiso e ci ha aperto le porte agli altri sacramenti, dispensatori di grazia, fino alla realizzazione dell’oggetto della speranza cristiana e dell’opera redentrice di Gesù, la salvezza eterna. Il ringraziamento, quindi, è doveroso. Vorrei suggerire ai celebranti di recitare questo cantico mentre lasciano l’altare, nel ritorno in sacrestia, ma lo vedo vantaggioso anche per i fedeli come espressione della propria gratitudine, non solo dopo la santa Comunione, ma anche in altri momenti nei quali si sente il bisogno di innalzare a Dio l’inno di lode per i benefici ricevuti. La gratitudine attira sempre nuovi favori, come nel caso dei dieci lebbrosi, dei quali uno solo ritorna a Gesù per ringraziarlo della guarigione fisica, ricevendo con essa un dono immensamente più grande, quello della fede.

Il dubbio, qualunque ne sia l’origine, genera angoscia e compromette la serenità interiore. Non a caso Gesù afferma che solo la verità rende liberi. Il dubbio di Giuseppe dovette essere atroce: riguardava l’innocenza, la purezza e l’onestà della sua promessa sposa, la Vergine Maria, già definita dall’angelo «piena di grazia» e visibilmente madre. Da sempre una donna concepisce per opera di un uomo: come poteva Giuseppe comprendere che ciò che vedeva era opera dello Spirito Santo, l’amore fecondo di Dio? Elisabetta comprenderà per dono dello Spirito; Giuseppe sarà aiutato da un angelo del Signore. Per noi l’unico soccorso davanti ai dubbi è la fede e la preghiera: sono le virtù che ci introducono nei misteri di Dio e ci consentono di accoglierli non per evidenza razionale, ma per dono divino. Occorre far tacere la logica umana e muoversi nella luce soprannaturale: è la via sicura del credente. Chi pretende di giudicare Dio con la sola fioca luce della ragione cade in dubbi, errori e negazioni gratuite. Dinanzi alle nostre debolezze dobbiamo ricorrere alla potenza del Signore, invocare lo Spirito Santo perché nella luce divina si sciolgano incertezze e dubbi. Anche il Natale esige una fede umile e vigile. «Nella tua luce, Signore, vediamo la luce»: senza la Luce, anche i presepi si oscurano e si svuotano del Cristo.

Due voci si incontrano e si comprendono: l’angelo Gabriele e Maria, l’inviato di Dio e l’umile ancella del Signore. L’angelo chiama Maria «piena di grazia»: amata da Dio con un amore unico per intensità. Vergine e immacolata, ella ha trovato grazia presso Dio ed è capace di accogliere quell’amore che il cuore dell’uomo non riusciva più a ricevere. Rimanendo integra nella sua verginità, per opera dello Spirito Santo, sarà madre del Cristo, tabernacolo vivente del Figlio dell’Altissimo. Così si ristabilisce pienamente il dialogo tra Dio e l’umanità: nella pienezza dei tempi il Figlio di Dio assume nel seno di Maria la nostra natura per essere il Salvatore del mondo. Ancora una volta il Signore lega il suo piano di salvezza all’assenso di una creatura: tutto il Cielo sembra attendere la risposta della Vergine. «Eccomi, sono la serva del Signore; avvenga per me secondo la tua parola». È il sì pieno e gioioso di Maria, grazie al quale ella diventa la nuova obbediente, la prima a dire sì a Dio dopo la disobbedienza dei progenitori. Sappiamo che sarà fedele fino alla croce, dove Gesù la proclamerà madre di tutti i viventi, madre della Chiesa, nostra madre. E ancora ci ripete, con le parole di Cana: «Fate quello che vi dirà»: siate obbedienti al mio Figlio, vivete il suo Vangelo, la lieta notizia.

La nascita prodigiosa di Giovanni Battista rivela la profonda unione tra Antico e Nuovo Testamento: l’approdo è Cristo. Tutto ciò che lo precede e tutto ciò che lo segue va visto e letto alla sua luce. La storia si presenta allora come una mirabile trama divina, un evento d’amore e di salvezza. «Ecco che cosa ha fatto per me il Signore!»: l’esclamazione di Zaccaria nasce dalla consapevolezza dell’intervento di Dio nella sua vita, divenuto padre quando ogni speranza umana era svanita. È l’eco del rendimento di grazie che sgorga dal cuore dei salvati: Dio ha fatto grandi cose, ha compiuto prodigi, ha tolto la vergogna del peccato. La fecondità miracolosa richiama l’aridità del deserto, il vuoto di tante vite, ma anche la fecondità della grazia e la santità di tanti fratelli e sorelle. Ricorda i doni ricevuti e la responsabilità che ne deriva: la nascita del Battista è orientata all’annuncio di Cristo; così ogni favore divino dovrebbe spingerci a diventare annunciatori del Regno e testimoni della bontà di Dio. C’è anche un invito esplicito • più volte ricordato dal santo padre • a non spegnere la speranza, anche quando le circostanze sembrano dire il contrario. Troppe volte il Signore ha smentito i nostri scoraggiamenti. Ci chiede di credere nella sua venuta, nella sua presenza e nel fervore della speranza. Solo la perdita della fede riduce al mutismo e all’inerzia.

Per noi credenti l’espressione «incinta per opera dello Spirito Santo» è comprensibile e rassicurante, sostenuta dalla fede. Ma come poteva Giuseppe, promesso sposo di Maria, comprendere pienamente il mistero che in lei si compiva? Le voci umane non bastano a spiegare i misteri di Dio, e lo sguardo dell’uomo si ferma spesso alle apparenze, dalle quali pretende di ricavare la verità dei fatti. Così gli uomini si giudicano e si feriscono. Era necessario che alla "confusione" di Giuseppe venisse in soccorso un angelo del Signore, per confermare la verità della prodigiosa maternità di Maria. Colpisce il suo silenzio: viene da pensare che talvolta il Signore ci coinvolga nei suoi misteriosi piani lasciandoci poi esposti al giudizio degli uomini. I due protagonisti del grande progetto di salvezza sono coinvolti nella sofferenza del dubbio e nel rischio di un ripudio: un’anticipazione della passione del Cristo? Un invito a comprendere che chi vuole essere con Lui deve diventare parte viva della sua storia? O, forse, per dirci che essere privilegiati da Dio non garantisce immunità dal dolore. La prediletta del Signore sarà la prima a condividere il martirio del Figlio, e la ritroveremo, dopo molte sofferenze, ai piedi della croce, ad offrire con gesto sacerdotale la vittima a Dio.

Il messaggio che Gesù porta agli uomini è un mistero; anche la sua persona, venuta dal Cielo, è un mistero profondo. Ma nel suo insegnamento egli vuole farsi capire dalla gente e dai capi del popolo, ricorrendo a esempi efficaci. Per denunciare l’ostilità con cui sacerdoti e anziani hanno accolto la predicazione di Giovanni, propone la parabola dei due figli: uno ossequioso a parole verso il padre, ma incoerente nei fatti («Sì, padre», ma non va a lavorare nella vigna); l’altro, più impulsivo e ribelle («Non ne ho voglia»), ma poi pentito, obbedisce. Alla domanda «Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?», rispondono: l’ultimo. Gesù allora esplicita l’insegnamento: Giovanni è venuto sulla via della giustizia e loro non gli hanno creduto, a differenza di pubblicani e prostitute. Come a dire: voi che vi credete giusti avete rifiutato la verità; i peccatori, che voi condannate, si convertono e seguono il cammino della giustizia. Nel servizio di Dio non bastano le intenzioni: occorre una fedeltà concreta, perché l’amore di Dio non consiste nel dire «Signore, Signore», ma nel fare la sua volontà. Il Signore ci liberi da una religiosità di parole senza opere.

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: "Figlio, oggi va' a lavorare nella vigna". Ed egli rispose: "Non ne ho voglia". Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: "Sì, signore". Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».

La gente umile e dal cuore semplice si accorge subito che il parlare di Cristo è diverso da quello degli scribi e dei farisei: «Rimanevano colpiti • dice l’evangelista • dal suo insegnamento, perché parlava con autorità e non come i loro scribi». Non era dunque necessario interrogarlo come fanno i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo: sarebbe bastato aprire mente e cuore per comprendere l’autenticità e la novità del suo messaggio. L’evangelista Marco conferma che «il Signore operava insieme con loro (con gli apostoli) e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano». Tutta la vita di Cristo è una splendida ed inequivocabile conferma della divina autorità che egli esercita per illuminare i cuori e redimere l’uomo dal peccato. È un’autorità umano-divina, che emanava dalla sua persona, dalle sue parole e dalle sue opere. Un saggio proverbio popolare afferma che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire: ci si tappano le orecchie quando in chi parla si vede un avversario o qualcuno che svela i nostri comportamenti sbagliati. Si chiudono orecchie, cuore e mente quando è in gioco la nostra piccola egemonia o il nostro potere; e anche chi riconosce la verità ma non ha il coraggio di conformare la vita agli insegnamenti ricevuti finisce per accecare i sensi dell’anima. Accade ancora oggi: esistono contestatori di mestiere e sordi cronici, sempre pronti a proporre una verità diversa purché contraria a quella annunciata. Se ciò è grave tra gli uomini, diventa peccaminoso nei confronti di Cristo. Egli incarna la verità, è la Verità, è la luce del mondo che illumina ogni uomo. Non dovrebbe più accadere che noi preferiamo le tenebre alla Luce. Rischieremmo di lasciar trascorrere invano uno splendido Natale.

In quel tempo, Gesù entrò nel tempio e, mentre insegnava, gli si avvicinarono i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo e dissero: «Con quale autorità fai queste cose? E chi ti ha dato questa autorità?». Gesù rispose loro: «Anch'io vi farò una sola domanda. Se mi rispondete, anch'io vi dirò con quale autorità faccio questo. Il battesimo di Giovanni da dove veniva? Dal cielo o dagli uomini?». Essi discutevano fra loro dicendo: «Se diciamo: "Dal cielo", ci risponderà: "Perché allora non gli avete creduto?". Se diciamo: "Dagli uomini", abbiamo paura della folla, perché tutti considerano Giovanni un profeta». Rispondendo a Gesù dissero: «Non lo sappiamo». Allora anch'egli disse loro: «Neanch'io vi dico con quale autorità faccio queste cose».

Quando l’attesa si fa più urgente, quando gli eventi del mondo sembrano precipitare nel bàratro del male, l’invocazione di un Salvatore diventa accorata. Lo stesso Giovanni, che aveva annunziato la presenza del Messia e l’aveva battezzato nel Giordano, raccoglie quest’ansia di certezza ed invia alcuni dei suoi discepoli per porgere a Gesù una precisa domanda: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?» Gesù rassicura Giovanni Battista e tutti noi. I segni e le opere che egli compie manifestano in modo evidentissimo che il Regno di Dio si sta attuando, è già presente nella sua persona e nelle sue opere, si è calato ormai in modo definitivo nella storia del mondo: «Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi ricuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l’udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella, e beato colui che non si scandalizza di me». Ecco come si manifesta concretamente il Regno di Dio: è la salvezza delle anime e dei corpi, è la potenza di Dio che si pone al servizio dell’uomo. Fa tristezza dover constatare che ancora oggi quell’interrogativo, a cui è già stata data la più piena ed esauriente risposta, venga ripetuto all’infinito. Ancora permane lo scandalo nei confronti di Gesù. Quel messaggio di salvezza, che ha coinvolto e coinvolge tutti gli uomini di tutti i tempi, con preferenza per gli oppressi, i malati nel corpo e nello spirito, viene ancora ignorato e rifiutato. Fin quando permane l’interrogativo: «Chi dobbiamo attendere?» e non sgorga la pienezza della fede, inevitabilmente Cristo non trova spazio ed accoglienza e altri regni tentano di instaurarsi sulla terra, altri salvatori si propongono. Coloro che si aprono alla Buona Novella potranno godere invece di una pienezza che Giovanni, pur essendo un grande profeta, tra i nati di donna non è sorto uno più grande di lui, non ha potuto raggiungere.

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: "Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via". In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

Ancora un pretesto per misconoscere la venuta del Messia. «Prima deve venire Elia» • asserivano gli scribi, fidandosi delle loro fasulle interpretazioni della Scrittura. «Elia è già venuto» • dice Gesù. Quanto è difficile leggere e interpretare i segni di Dio! Quanto sono diversi dalle nostre aspettative! Chissà quale spettacolo si attendevano gli scribi; certo non potevano immaginare, con le loro frenesie di grandezza, che colui che era l’atteso delle genti si manifestasse con tanta umiltà e tanta modestia. Tanto meno potevano tollerare che la venuta del Messia potesse significare lo sgretolamento del loro potere. Per questo, prima la voce di Giovanni Battista e poi quella dello stesso Cristo saranno come una voce nel deserto. Li scandalizza l’austerità del Precursore, ancor più li sconvolgerà l’annuncio messianico delle Beatitudini e del perdono. Gli stessi Apostoli non resistono alla tentazione di ritenere assurdo che il loro Maestro e Messia, capace di prodigi di ogni genere, dovesse soffrire a causa dei suoi avversari. Ancora oggi è incomprensibile a molti che l’avvento del Regno debba realizzarsi attraverso il martirio e la croce. Quell’evento è ancora motivo di scandalo, uno scandalo che trova le sue migliori giustificazioni proprio dinanzi agli eventi più tragici della storia, quando la violenza e la prepotenza degli uomini sembrano prendere il sopravvento sulla bontà e sulla pazienza di Dio. Allo scandalo della croce qualcuno oggi vorrebbe aggiungere lo scandalo del presepio!!!

Capita di frequente, e a molti, di ritenere che la scienza e la sapienza di questo mondo possano spalancare tutte le porte del sapere, anche quelle del cielo. Non accade però mai così; anzi, il Signore smentisce categoricamente questa umana presunzione e, esultando nello Spirito Santo, afferma: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto». Essere “piccoli” agli occhi di Dio significa adornarsi di quella interiore semplicità che rende disponibili all’ascolto, docili e pronti a eseguire la volontà divina. I piccoli vivono in purezza e semplicità di cuore, si nutrono di fede, accettano i doni di Dio e a questi conformano la propria vita. Così viene loro rivelata l’essenza stessa di Dio, il suo infinito amore di Padre, manifestato in Cristo. Vivono nello splendore di Dio e conseguono la santità. Sono invece frequenti le presunzioni umane, quelle che ci inducono a voler guardare Dio e le cose di Dio solo con la ragione; così ci si autocondanna a un inevitabile naufragio della fede, che sconfina spesso nel naufragio della vita. La vera dottrina, la vera sapienza, quella che viene dallo Spirito Santo, ci consente di varcare i confini del mondo e ci proietta verso le verità ultime, oggetto della nostra fede, della nostra speranza e della nostra attesa.

In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: "Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo". E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: "Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono".

La liturgia di oggi ci propone due prime letture dal profeta Isaia. Nell'anno A, poiché la prima è già letta ieri, è preferibile la seconda. Siamo in cammino verso il Natale e in questo viaggio ci accompagna una dichiarazione solenne da parte del Signore: Egli viene, viene tra noi ed ha un programma di salvezza per tutti i popoli, per ciascuno di noi. Egli sa di trovare ancora un'umanità malata e sofferente. Abbiamo urgente bisogno che qualcuno venga a curare i nostri mali. Siamo capaci di procurarceli da soli, ma non siamo capaci di liberarcene. Ci occorre Colui che può curare e sanare in profondità, estirpando il male alle sue radici. È significativo che sia un centurione romano a invocare l'intervento di Cristo per un suo servo. Egli si fa portavoce del mondo pagano, da cui proveniamo anche noi. Egli prega anche per noi. È l'avverarsi dell'annuncio profetico di Isaia: "Verranno molti popoli e diranno: 'Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri'". Il centurione non si ritiene degno di vedere Gesù percorrere la sua stessa strada; nella sua fede genuina ritiene che basti una sua parola perché il servo paralizzato guarisca. Quel "non sono degno che tu entri sotto il mio tetto" esprime la fede nella potenza del Figlio di Dio, ma anche lo stupore e la meraviglia che Egli si trovi a percorrere le nostre strade con la nostra stessa umanità inferma. Egli però non solo è entrato sotto il nostro tetto, ma ha voluto fondersi con la nostra umile carnalità, prendendo le nostre stesse sembianze.

In quel tempo, entrato Gesù in Cafàrnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava e diceva: "Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente". Gli disse: "Verrò e lo guarirò". Ma il centurione rispose: "Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, ma di' soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Pur essendo anch'io un subalterno, ho dei soldati sotto di me e dico a uno: "Va'!", ed egli va; e a un altro: "Vieni!", ed egli viene; e al mio servo: "Fa' questo!", ed egli lo fa". Ascoltandolo, Gesù si meravigliò e disse a quelli che lo seguivano: "In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede così grande! Ora io vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli".

“Come fu ai giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e marito, fino a quando Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e inghiottì tutti, così sarà anche alla venuta del Figlio dell’uomo”. Gli eventi della nostra storia, sin dal principio, sono contrassegnati da alternanze di fatti intrisi di male e di peccato e da interventi salvifici di Dio. Egli, prima ancora che inviasse il suo Figlio tra noi, è da sempre l’eterno Redentore del mondo. Le sue venute hanno sempre significato salvezza e redenzione per l’umanità. Mai, però, il buon Dio ha fatto violenza alla libertà umana; la sua è sempre una proposta motivata dall’amore gratuito. Proprio per questo accade e può ancora accadere che alla sua venuta ci troviamo impreparati e distratti dalle solite cose vane e futili della vita di ogni giorno. Può ancora succedere che arrivi un Natale e non ci si accorga del significato e dei coinvolgimenti che quella venuta dovrebbe comportare per ciascuno di noi. È in quelle tristi circostanze, a causa di distrazioni colpevoli, che la gratuità dell’amore diventa inevitabilmente motivo di giudizio e di condanna. L’invito a vigilare nell’attesa è quindi più che mai urgente. Troppe amare sorprese ci hanno già ripetutamente sconvolti; riusciamo a far finta di niente anche quando il male e la violenza diventano orribili tragedie e dilagano in modo quasi inarrestabile. Come è consolante, invece, sapere alla luce della fede e della storia sacra che Dio e il suo Figlio Gesù Cristo sono ancora una volta pronti a intervenire per sanare la storia e redimerci dai nostri mali! È prossimo il suo Natale, è prossimo l’evento della pace!

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l'altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo».

«State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso; come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere e di comparire davanti al Figlio dell’uomo». Sono sempre più frequenti le forme di alienazione inventate dagli uomini. Dovrebbero servire come fuga dalla realtà, soprattutto se penosa, dalle nostre responsabilità e dai nostri impegni. Ce ne parla oggi lo stesso Signore. Li definisce appesantimenti dello spirito: pesi che offuscano la vista dell’anima, che danno ebbrezza ma non chiarezza. Abbiamo l’impressione, suffragata dai fatti di ogni giorno, di essere troppo spesso ubriachi e non di vino, affannati per avere e possedere sempre di più senza mai sperimentare la sazietà. Càpita allora che l’ubriaco dorma e non vegli, che l’affannato non trovi più il tempo e la voglia di pregare e, di conseguenza, ciò che accade ci piomba addosso cogliendoci sempre impreparati. Vegliare e vigilare è proprio di chi attende e non conosce in quale ora della notte o del giorno sopraggiungerà l’ora fatidica della prova, della chiamata, del rendimento di conto. Pregare è proprio di chi è ben consapevole di non avere in sé l’energia e la luce necessarie per riconoscere, amare e praticare il bene ed evitare il male. L’umile e il sapiente chiedono al Signore quanto riconoscono di non possedere e di cui hanno indispensabile ed urgente necessità. Per questo un cieco del Vangelo chiese a Gesù: «Che io riabbia la vista» e Gesù: «Va, la tua fede ti ha salvato!».

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all'improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere e di comparire davanti al Figlio dell'uomo».

Abbiamo imparato senza sforzo a comprendere l’avvicendarsi delle stagioni attraverso i segni che la natura stessa spontaneamente ci fornisce. Quando il fico comincia a mettere i propri fiori, che diventeranno il frutto gradevole che conosciamo, diciamo che l’estate è vicina. Anche i fatti che accadono intorno a noi e dentro di noi hanno un loro linguaggio. L’avvento del Regno ha le sue manifestazioni concrete nella storia, anche se percepirne i segni non può essere frutto del semplice intuito umano. È come un granellino di senapa gettato nel campo, quasi invisibile a occhio nudo; occorrerà del tempo prima che cresca e diventi un arbusto. Serve la luce dello Spirito e la divina sapienza per avvertirne la presenza e la crescita. L’arrivo e lo schieramento dell’esercito romano preannunceranno la prossima distruzione di Gerusalemme. L’espandersi del messaggio di Cristo tra le genti, anche se tra inevitabili persecuzioni e lotte, sarà il segno che Dio sta recuperando spazio nella storia del mondo e nei cuori degli uomini. I cambiamenti saranno radicali: le novità importanti e decisive esigono che le cose vecchie scompaiano per far posto al nuovo. La verità esalta e distrugge allo stesso tempo, ma l’unico risultato è l’avvento del Regno, la conferma della storia alle verità perenni di Cristo. Il mondo subirà le sue trasformazioni cosmiche nel corso dei secoli: i cieli e la terra passeranno, ma - dice Gesù - «le mie parole non passeranno». Siamo quindi confortati da verità perenni e inconfutabili. Una di queste ci ripete, in questi giorni conclusivi dell’anno in cui spesso ascoltiamo profezie di eventi catastrofici: «Non temete. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: «Osservate la pianta di fico e tutti gli alberi: quando già germogliano, capite voi stessi, guardandoli, che ormai l'estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno».

Il Vangelo ci ripropone l’episodio del piccolo Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, che cercava di vedere Gesù. Fin quando egli rimane confuso tra la folla, per la sua piccola statura • e non solo per questo • non gli è consentito di vedere. Prima deve elevarsi arrampicandosi a un albero e poi dovrà scendere in fretta per accogliere a casa sua Colui che cercava nascondendosi tra i rami. Voleva solo vedere Gesù ed ecco che si sente chiamare per nome, invitato da Gesù a scendere in fretta “perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Il Signore ci dà molto di più di quanto osiamo sperare da lui. Zaccheo, anche se ricco di soldi, sa di essere un povero peccatore; lo confesserà poi umilmente all’Ospite divino. Il suo obiettivo era soltanto quello di “vedere quale fosse Gesù”. Mai e poi mai si sarebbe sognato di poterlo avere come ospite di casa sua; ancor meno poteva lontanamente sperare i frutti di grazia che poi sarebbero sgorgati da quell’incontro. La presenza del Signore smuoverà la sua coscienza a riconoscere i propri peccati e le ingiustizie commesse; sentirà poi il bisogno di affidare i suoi errori alla misericordia del Signore, si sentirà impegnato a riparare il malfatto e il maltolto, si sentirà interiormente smosso alla solidarietà verso i poveri, poi ascolterà commosso il perdono e la completa assoluzione: “oggi la salvezza è entrata in questa casa”. La conclusione del brano evangelico ci apre il cuore alla speranza: «Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto». Chi di noi non ha già sperimentato, e rischia di sperimentare, di perdersi? Gesù già ci sta cercando per salvarci!

Gli apostoli stentano a credere al loro Maestro; specialmente quando egli parla di passione e di morte sembra che le loro orecchie siano ermeticamente chiuse a quelle parole: evidentemente la loro fede è ancora debole e non si sono ancora aperti alla luce divina. Il cieco, mendicante lungo la strada, venuto a sapere che passa Gesù di Nazareth, comincia a gridare la sua preghiera. La cecità del corpo e dello spirito non consente di valutare le distanze che ci separano da Cristo e la pochezza della fede fa sì che la preghiera diventi un grido accorato verso Dio. Egli implora la pietà di Cristo. Gli astanti, invece, presi da falso zelo, sgridano il povero cieco e lo invitano a tacere; il dolore però ha le sue legittime esigenze e nessuno può pretendere che taccia e rimanga soffocato nell’angoscia della solitudine e dell’abbandono: quante volte si ripete questa scena per le strade del mondo. Il povero e il malato che gridano devono tacere perché disturbano la quiete dei sani! Gesù chiama a sé quel poveretto e vuole da lui solo che espliciti meglio la sua richiesta di aiuto. “Signore, che io riabbia la vista”, e la risposta di Gesù: “Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato”. I suoi occhi si aprono e la fede brilla nel suo cuore: segue Gesù e dà lode a Dio. Il popolo, che prima aveva cercato di far tacere il suo grido di preghiera, ora finalmente si unisce al miracolato nella preghiera di lode al Signore. Questa è la vera e completa guarigione: la nascita della fede, l’aprirsi alla luce divina, il vederci chiaro con l’occhio dello spirito.

Mentre Gesù si avvicinava a Gèrico, un cieco era seduto lungo la strada a mendicare. Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. Gli annunciarono: «Passa Gesù, il Nazareno!». Allora gridò dicendo: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!». Quelli che camminavano avanti lo rimproveravano perché tacesse; ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù allora si fermò e ordinò che lo conducessero da lui. Quando fu vicino, gli domandò: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». Egli rispose: «Signore, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato». Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio. E tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio.

Capita anche ai nostri giorni di soffermarsi dinanzi ai nostri templi per ammirarne le belle pietre, i doni votivi e per godere di ciò che per noi rappresentano. Si era formato un gruppo dinanzi al tempio di Gerusalemme, orgoglio del popolo d’Israele, costruito dal re Salomone per volere di Dio. Non mancavano davvero i motivi per restarne ammirati e stupiti di fronte a tanta bellezza. La maestosità e la solidità di quel tempio davano l’idea di una costruzione destinata a sfidare i secoli; ed ecco però l’intervento di Gesù: «Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta». Non ci viene riferita la reazione degli astanti, ma possiamo ben supporre lo sgomento che li assalì e forse anche la vibrata protesta contro il Cristo, che appariva loro come profeta di sventura. Gesù prende l’occasione per parlare di un’altra fine e dei difficili tempi che stanno per sopraggiungere: «Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno, e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo». Tutto ciò riguarda le inevitabili, ricorrenti guerre e i fenomeni naturali avversi e catastrofici. Non meno grave è quanto viene preannunciato per i suoi discepoli: «Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome. Questo vi darà occasione di rendere testimonianza». Quanto preannunciato è già in gran parte puntualmente accaduto. La Chiesa, fino ai nostri giorni, ha sofferto persecuzioni, e il numero dei martiri è praticamente una schiera che nessuno può contare. Non dobbiamo mettere l’accento sugli aspetti minacciosi che il testo evangelico potrebbe contenere: il Signore non vuole spaventarci, ma al contrario garantirci la sua costante ed efficace protezione in tutte le vicende che possono accaderci. È interessante infatti la conclusione a cui Gesù vuole condurci: lo Spirito Santo si ergerà a nostro difensore nei tribunali degli uomini, e poi aggiunge: «Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi; sarete odiati da tutti per causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime». Dobbiamo perciò guardarci da coloro che, interpretando a modo proprio questo Vangelo, vanno facendo terrorismo religioso, passando di casa in casa e ingenerando immotivate paure, senza ricordare le altre consolanti parole del Maestro divino: «Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna».

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: "Sono io", e: "Il tempo è vicino". Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

Pregare sempre, senza stancarsi mai, potrebbe apparire, per noi così affaccendati in mille cose, un’esortazione impraticabile. Sperimentiamo quanto facilmente ci si stanca anche solo per qualche minuto in più da dedicare alle nostre preghiere e liturgie settimanali. Gesù ci sta chiedendo innanzitutto la perseveranza nella preghiera e vuole poi raccomandarci un’intima e ininterrotta comunione con lui. Come può un figlio, sempre bisognoso di aiuto, dimenticarsi del proprio Padre o smettere di chiedergli quanto egli necessita? La preghiera ci consente di essere costantemente orientati verso Dio e di mirare ai beni del cielo. Ci serve per ricordare la nostra mèta ultima e dotarci dei mezzi per raggiungerla; ci serve per prendere coscienza onestamente della nostra debolezza e sperimentare l’infinita bontà e potenza divina; ci serve per creare una giusta gerarchia di valori, per poi prediligere i veri beni e operare un sano e doveroso distacco da quelli della terra. Diventiamo così, pur restando abitanti di questo mondo, cittadini del cielo. Sperimentiamo la paternità di Dio, la sua presenza operante tra noi, la fratellanza tra gli uomini e il dono della misericordia e della pace. Così ogni giorno alimentiamo la nostra fede e l’adorniamo di opere di bene, e così infine il Signore ci renderà giustizia dinanzi alle ingiustizie del mondo!

È facile per noi cadere nella dimenticanza di Dio! È facile lasciarsi prendere dalle vicende ordinarie della vita ed essere impreparati e distratti di fronte ai segni divini: accadde al tempo di Noè, quando stava per sopraggiungere il diluvio; accadde ai tempi di Lot, quando il fuoco distruttore stava per piovere sulla terra; accade anche oggi, quando la terra trema, quando il fango scende dalle montagne, quando onde anomale invadono le case o terremoti seminano distruzione e morte per migliaia di persone. La rivelazione e la manifestazione del Cristo risorto possono sopraggiungere in ogni istante, e dobbiamo perciò tenerci pronti all’inevitabile e insindacabile giudizio divino. Il peccato, il rifiuto di Dio, ci rendono come cadaveri su cui piombano famelici gli avvoltoi. Comprendiamo così che il castigo è la conseguenza inevitabile dei nostri errori: diventiamo distruttori di noi stessi, e Dio ne è solo il triste testimone. È la mancanza di amore a generare l’odio, ed è dall’odio che sgorgano le vendette incrociate, le guerre che osiamo poi chiamare “sante”. Essere vigilanti, per noi credenti in Cristo, significa vivere nella fede, essere desti nell’attesa del Signore che viene, significa vivere la fraternità universale, anche quando questa dovesse costarci sacrifici e morte. A noi non è più concesso, dopo l’evento Cristo, di leggere la storia come cronaca di fatti più o meno importanti: dobbiamo far sì che la nostra sia davvero una storia sacra, in cui l’intervento di Dio è sempre presente. Portiamolo sempre nel cuore e siamo vigilanti.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come avvenne nei giorni di Noè, così sarà nei giorni del Figlio dell'uomo: mangiavano, bevevano, prendevano moglie, prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca e venne il diluvio e li fece morire tutti. Come avvenne anche nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano; ma, nel giorno in cui Lot uscì da Sòdoma, piovve fuoco e zolfo dal cielo e li fece morire tutti. Così accadrà nel giorno in cui il Figlio dell'uomo si manifesterà. In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza e avrà lasciato le sue cose in casa, non scenda a prenderle; così, chi si troverà nel campo, non torni indietro. Ricordatevi della moglie di Lot. Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva. Io vi dico: in quella notte, due si troveranno nello stesso letto: l'uno verrà portato via e l'altro lasciato; due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l'una verrà portata via e l'altra lasciata». Allora gli chiesero: «Dove, Signore?». Ed egli disse loro: «Dove sarà il cadavere, lì si raduneranno insieme anche gli avvoltoi».

Quando tra di noi parliamo dei regni umani, il pensiero si indirizza subito a tutte le caratteristiche che li connotano: lo sfarzo, la gloria, il potere… I farisei, da sempre sognatori di potere, chiedono a Gesù quando verrà il Regno di Dio. La loro attesa è fortemente legata a criteri umani: sperano che la manifestazione divina sia accompagnata da bagliori di grandezza e dal ripristino di glorie passate. La risposta del Signore certamente li delude, ma per noi invece è di grande conforto: «Il Regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: “Eccolo qui”, o: “Eccolo là”, perché il Regno di Dio è in mezzo a voi!». La presenza di Cristo ha già determinato l’avvento del Regno; l’accoglienza del suo Vangelo e il vivere in conformità ad esso fanno sì che il Regno sia dentro di noi. Occorre però mantenere limpido lo sguardo della fede per “vedere” il giorno del Signore, per accorgersi dell’evento salvifico che egli porta a tutti noi, per godere della sua salvezza ed essere certi della sua e nostra risurrezione. A conclusione del brano Gesù ci ricorda una grande verità, che ci accompagnerà sempre: «Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga ripudiato da questa generazione». Anche ai nostri giorni, anche noi del terzo millennio, stiamo ripudiando il Signore e ripetendo la sua crocifissione; ma, ancora una volta, dentro l’assurdo del peccato del mondo, egli si erge a vittima e salvatore nostro. È l’inevitabile passaggio nei meandri della sofferenza, da cui Dio sa trarre i motivi della salvezza!

In quel tempo, i farisei domandarono a Gesù: «Quando verrà il regno di Dio?». Egli rispose loro: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà: "Eccolo qui", oppure: "Eccolo là". Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!». Disse poi ai discepoli: «Verranno giorni in cui desidererete vedere anche uno solo dei giorni del Figlio dell'uomo, ma non lo vedrete. Vi diranno: "Eccolo là", oppure: "Eccolo qui"; non andateci, non seguiteli. Perché come la folgore, guizzando, brilla da un capo all'altro del cielo, così sarà il Figlio dell'uomo nel suo giorno. Ma prima è necessario che egli soffra molto e venga rifiutato da questa generazione».

Il tempio, nella storia del popolo d’Israele, ha avuto un’importanza vitale. Situato nella città santa, Gerusalemme, era considerato il luogo sacro della presenza di Dio. In senso traslato, Gesù ha parlato del tempio del suo corpo. La Chiesa si definisce tempio del Dio vivente. San Paolo ci ricorda che siamo templi dello Spirito, perché abita in noi la divinità. Tutte le chiese, prima di essere adibite a luogo di culto, con una speciale liturgia vengono consacrate, rese cioè a uso esclusivo dei fedeli per le celebrazioni delle sacre liturgie e per la preghiera. Ogni anno si fa memoria della consacrazione e dedicazione della propria chiesa con una celebrazione che, capitando sempre in giorni feriali, sfugge alla stragrande maggioranza dei fedeli. Oggi, con particolare solennità, ricordiamo e celebriamo la dedicazione della cattedrale di Roma, la Basilica Lateranense, cattedrale del Papa, la Mater et Caput, la madre e il capo di tutte le chiese. Il Vangelo di Giovanni ci fa riflettere sul fatto che il tempio, se non adornato di veri adoratori in spirito e verità, perde ogni suo valore e non rimane che pietra su pietra. Adorare in spirito e verità significa dare il giusto culto a Dio con la preghiera e con la vita. Non dovremmo cioè cadere nell’errore che suscita un acuto rimprovero da parte del Signore verso il suo popolo eletto: “Questo popolo si avvicina a me solo a parole, mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me, e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani”. Il valore e la sacralità del tempio dipendono quindi dalla verità e dallo spirito che lo animano. È il luogo della comunione con Dio e tra noi, che, senza abusare del titolo, ci definiamo fratelli. Oggi dovremmo rafforzare il santo proposito di rispettare il luogo sacro dove celebriamo i divini misteri, rivedere i nostri comportamenti e soprattutto interrogarci se davvero siamo veri adoratori o solo comparse.

Quando un padre smette di amare i propri figli, diventa per loro padrone e despota, e i figli diventano di conseguenza sudditi e schiavi. Non mancano nelle vicende umane storie di questo genere. Non solo gli uomini hanno il potere di soggiogare i propri simili, ma anche le cose del mondo, e il denaro in modo particolare, esercitano un potere assurdo e subdolo. Nasce così l’alternativa, la scelta che ognuno nella propria vita è chiamato coerentemente a compiere. Di questa scelta il Signore oggi ci parla, volendo innanzitutto distoglierci dall’equivoco di non scegliere e dal pericolo disastroso di voler far coesistere in noi valori diversi e contrastanti. Rischiamo così una forma morbosa di schizofrenia personale e collettiva. Gesù vuole svelarci il potere ingannatore che il denaro esercita talvolta su di noi: può accaderci di diventarne schiavi e di lasciarci illudere dal suo fascino bugiardo, perché ciò che è esaltato fra gli uomini è cosa detestabile davanti a Dio. Ciò anche perché l’animo umano, se non illuminato dallo Spirito, è insaziabile nelle sue bramosie. Dio non è padrone, ma Padre di noi tutti, e ci vuole come figli, liberi dagli inganni e dalle seduzioni. Se scegliamo di servirlo, possiamo godere già in questa vita del suo amore e sentirci appagati e sazi nell’anima. I desideri migliori, poi, noi credenti li orientiamo nella speranza verso i beni futuri, che non periscono perché eterni.

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza». I farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose e si facevano beffe di lui. Egli disse loro: «Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole».

Il Signore Gesù, pur di rendere comprensibili i suoi messaggi di salvezza, ricorre anche al paradosso. Nel Vangelo di oggi viene lodata l’astuzia di un autentico imbroglione che, vistosi scoperto nella sua infedeltà verso il padrone e prossimo al licenziamento dal suo incarico, cerca con abilità e scaltrezza di accaparrarsi la benevolenza dei creditori, per poi sperare di godere della loro protezione. È fin troppo evidente che il Signore non vuole che imitiamo l’astuzia e ancor meno la disonestà dell’amministratore infedele; vuole invece che, come figli della luce, ci adoperiamo alacremente, da veri sapienti, per conseguire i beni migliori che Egli stesso desidera donarci. Egli ci ha avvertiti che stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita. Per passare per una porta stretta occorre chinarsi e farsi piccoli, diventare umili; per poter percorrere una strada angusta occorrono abilità, destrezza e prudenza. Ecco allora le virtù e la sapienza che Gesù vuole siano praticate dai suoi seguaci. Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono. La violenza praticabile dal cristiano è il diuturno sacrificio con cui affronta gli ostacoli della vita, è l’abbraccio volontario della propria croce, è la salita faticosa verso il monte dei risorti. Abbiamo il conforto dello Spirito Santo di Dio che ci illumina e ci fortifica, ci rende astuti e sapienti, coraggiosi e intrepidi. Se tanta pusillanimità ancora serpeggia nel mondo dei cristiani, ciò dipende dalla mancanza di fede e di fiducia nel Signore, dalla mancanza di preghiera e dalla perenne tentazione dell’autosufficienza. Tutto questo ci rende deboli e paurosi, rischia di riportare la Chiesa nel buio delle catacombe e soprattutto di farla cadere nei facili compromessi con il mondo. Forse è ancora vero che i figli di questo mondo, verso i loro pari, sono più scaltri dei figli della luce.

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: "Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare". L'amministratore disse tra sé: "Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua". Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: "Tu quanto devi al mio padrone?". Quello rispose: "Cento barili d'olio". Gli disse: "Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta". Poi disse a un altro: "Tu quanto devi?". Rispose: "Cento misure di grano". Gli disse: "Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta". Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce».

"Vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione". È la gioia di Dio e di tutto il paradiso che oggi viene solennemente proclamata. Peccato che tale gioia non sia sempre condivisa dagli uomini! Ciò accade forse perché noi, nei confronti degli altri esigiamo la giustizia e per noi stessi invece la misericordia. L'intensità della gioia di ritrovare ciò che era perduto è proporzionata all'amore che abbiamo per ciò che si è perso. Ciò si può sperimentare anche nelle nostre esperienze umane. Esulta il pastore che ritrova la pecora smarrita e vuole rendere partecipi del suo gaudio anche gli amici. Dio ci ama di un amore immenso ed incontenibile. Tutta la storia della salvezza ne è una chiarissima e splendida dimostrazione. Dal momento del peccato il Signore si è messo alla ricerca dell'uomo, nudo, spaurito e fuori del paradiso terrestre. In Gesù l'opera divina ha trovato il suo culmine quando per ritrovare l'uomo e redimerlo dal peccato ha immolato se stesso sulla croce. La gioia poi è diventata perenne, sicura e garantita nella risurrezione sua e nostra. È diventata la gioia pasquale!

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: "Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta". Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione. Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: "Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto". Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

È duro il linguaggio che Gesù usa per invitare i suoi e tutti noi a seguirlo in modo totale: egli esige un superamento radicale da ogni legame terreno, anche dagli affetti più spontanei. Arriva a dirci che dobbiamo avere una interiore disposizione a dare perfino la nostra vita, se questa ci viene richiesta, come testimonianza di fedeltà a lui. Per nostra fortuna abbiamo esempi luminosissimi ed innumerevoli di sante e di santi, di martiri e di eroi, che con tutta la loro vita hanno testimoniato la loro completa dedizione al Signore. Possiamo dunque dedurre alla luce della storia che la radicalità evangelica, per quanto difficile, è comunque praticabile con la forza della fede, l'intensità dell'amore a Dio e soprattutto con la sua grazia. Sono ancora tanti e tante a lasciare tutto per seguire Cristo ed affermare concretamente il suo primato. Nonostante la crisi di vocazioni religiose e sacerdotali, sono ancora migliaia e migliaia nel mondo le persone che, sulla scìa dei primi discepoli e sull'esempio di Cristo, obbediente, povero e casto, lasciano tutto, ma veramente tutto, per dare la vita a lui. Il materialismo, il consumismo, la brama dei beni terreni, distolgono ai nostri giorni dalla sequela del Signore: ci vogliono fede e coraggio non comuni per lasciare tutto ciò che il mondo può offrire, cedere volontariamente ad una povertà totale e sperare solo nei beni futuri. Il mondo ha comunque urgentissimo bisogno di esempi chiari di distacco dalle cose materiali e di una visione più spirituale della vita. È il ruolo a cui il Signore ha chiamato i monaci e tutta la schiera dei consacrati.