Il Commento e il Vangelo del giorno
Monastero di S.Vincenzo Martire - Bassano Romano (VT)
Mentre gli Apostoli pensano, nel loro cuore, che sia ormai vicino il momento in cui Cristo instaurerà il Regno, scacciando e annientando gli oppressori, il Maestro annuncia invece la propria passione e morte. È un contrasto tremendo tra i disegni di Dio e quelli degli uomini. Per i discepoli è una profonda delusione: vedono svanire i loro sogni e devono affrontare il mistero della croce. È scandalo per chi vive la religiosità come garanzia di immunità e di grandezza. È smarrimento per chi rifiuta la croce e non ne riconosce il valore che Dio stesso le ha dato. È oscurità per chi legge la storia solo con logica umana e non sa illuminarla con la fede. Per chi vede nella morte soltanto la fine della vita e il buio di una tomba, non c’è speranza. Ma quel «il terzo giorno risorgerà» deve restare impresso come sigillo di immortalità in ogni mente umana. Deve diventare il senso della vita e il conforto nella morte, attesa come passaggio gioioso verso il premio eterno. In questa luce assumono un significato diverso anche le leggi umane, come il pagamento delle tasse per il tempio. Il Signore, che si proclama Figlio del Re, per evitare sospetti e accuse, provvede comunque a quel debito. La moneta, estratta dalla bocca del pesce, diventa segno della provvidenza di Dio che non viene mai meno. Ci ricorda Gesù che non rifiuta la sua condizione umana e accetta, con umiltà, le esigenze della vita terrena.
In quel tempo, mentre si trovavano insieme in Galilea, Gesù disse ai suoi discepoli: «Il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà». Ed essi furono molto rattristati. Quando furono giunti a Cafàrnao, quelli che riscuotevano la tassa per il tempio si avvicinarono a Pietro e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa?». Rispose: «Sì». Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: «Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?». Rispose: «Dagli estranei». E Gesù replicò: «Quindi i figli sono liberi. Ma, per evitare di scandalizzarli, va' al mare, getta l'amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d'argento. Prendila e consegnala loro per me e per te».
Come viandanti e pellegrini ignari del momento e dell’ora della partenza, ma sicurissimi di dover partire, o come le dieci vergini in attesa, nel cuore della notte, dell’arrivo dello sposo, o come dei servi che aspettano l’arrivo del padrone di casa, o più semplicemente come fedeli che si nutrono di speranza. Non solo quindi vigilanti in vista di una partenza e di un incontro finale, ma anche pronti a cogliere il momento che passa, il momento della grazia, della conversione o magari l’occasione quotidiana che ci viene offerta di compiere il bene. La liberazione di Dio dalla schiavitù dell’Egitto avviene nel cuore della notte, una notte già preannunciata dai profeti, ma di cui si ignorava il momento preciso: ecco allora la necessità della vigilanza e dell’attesa. Noi ne diventiamo capaci quando la nostra fede in Dio si traduce in completo abbandono alla sua volontà e certezza della sua indefettibile fedeltà. Sgorga così l’obbedienza anche dinanzi a quanto potrebbe sembrare impossibile o assurdo alla nostra vista: l’esperienza di Abramo, nostro padre nella fede, è illuminante. Del resto soltanto conformandosi alla volontà di Dio ci diventa possibile aderire alle sue proposte: superare le nostre ataviche paure, essere certi nella fede di entrare nel Regno di Dio, riempire le nostre borse non con cose frivole e caduche, ma con ciò che vale e dura per l’eternità. Vigilanza e sapienza nell’esperienza dei santi sempre si abbinano e producono i frutti migliori. Dinanzi alle continue sollecitazioni del mondo è davvero illuminante per noi la Parola di questa domenica che potrebbe coglierci distratti, in vacanza o magari più rilassati e disponibili.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: "Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell'alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo". Allora Pietro disse: "Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?". Il Signore rispose: "Chi è dunque l'amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: "Il mio padrone tarda a venire", e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l'aspetta e a un'ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più".
Le letture bibliche per le feste dei santi hanno lo scopo di farci comprendere come questi amici di Dio hanno vissuto e incarnato eroicamente la Parola di Dio con perfetta coerenza. Santa Teresa Benedetta della Croce, Edith Stein, Vergine e martire, è rimasta affascinata da una voce misteriosa che l'ha convinta e avvinta con profondi e inscindibili legami di amore allo Sposo divino. È questa in sintesi la storia della sua conversione e della sua piena adesione a Cristo. «Ecco, la condurrò nel deserto». Sì, proprio da un dialogo e da una proposta divina di intimità sgorga la convinta risposta di un totale dono di sé al Signore. «Parlerò al suo cuore. Mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza». È un vero atto sponsale con cui in antico Dio solennemente legava a se il suo popolo con una alleanza perenne: «Io sono il tuo Dio, tu sei il mio popolo». Era una promessa di reciproca fedeltà sempre mantenuta da Dio, molte volte tradita e disattesa dal popolo eletto. Ora alle anime predilette e pronte a rispondere, il Signore dice amorevolmente: «Ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell'amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore». La sposa che "conosce", ama e si sente amata è vigilante e trepidante quando è in attesa dello sposo, come le vergini sagge del brano evangelico. Poiché la sposa è ignara dell'ora dell'arrivo dell'amato, ha con se ardente la lampada dell'amore e un buon rifornimento di olio, che significa la perseveranza, la vigilanza e la prontezza nell'ascolto. Sono le condizioni per entrare a far parte del gioioso corteo nuziale degli eletti e poi per essere ammessi con l'abito nuziale al festoso banchetto. «Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: "Signore, signore, aprici!". Ma egli rispose: "In verità io vi dico: non vi conosco". Dinanzi a Dio non sono mai ammessi colpevoli ritardi: Dobbiamo affermare sempre il suo primato nella nostra vita. «Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora».
La «sequela» è un elemento essenziale in tutte le religioni. Implica non solo il seguire materialmente un maestro, un «gurù», un sapiente, ma soprattutto comporta l’imitazione e poi la testimonianza. I veri maestri infatti sono portatori di una dottrina e il loro compito è quello di farla conoscere e poi tramandarla nei secoli futuri. Gesù oggi, in modo molto breve ma con espressioni dense di profondi significati, detta le regole, le condizioni per essere suoi veri discepoli. Li sintetizza così: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua». Il rinnegamento di sé significa l’interiore predisposizione a rinunciare alle proprie convinzioni per abbracciare incondizionatamente quelle del maestro. È la prima condizione. Si tratta poi di prendere la croce: per noi credenti è il peso del ritorno a Dio dopo la disavventura del peccato, diventare capaci non tanto di soffrire le inevitabili contrarietà della vita, ma ancor più di offrirle come motivo e prezzo di espiazione e di partecipazione alle sofferenze redentive del nostro divino maestro. Ci dice poi il Signore Gesù che dalla sequela, come Egli ce la propone, dipende la nostra salvezza eterna. Mettere la nostra esistenza al servizio di Dio significa garantirsi la salvezza. Al contrario, pretendere di salvarci di nostra iniziativa significa incorrere in un tragico fallimento. Gesù lo afferma così: «Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà». E così motiva la sua verità: «Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima?». Questa è una convinzione che non ci dovrebbe abbandonare mai.
Incontrare una persona ed innamorarsene è un momento esaltante della propria vita. Ed è in tale situazione che si sperimenta come l’entrare in simbiosi, il prendere modi di agire e di pensare, faccia parte della dinamica stessa dell’amore: tutto avviene senza sforzo, senza nemmeno accorgersene. L’amore è davvero il trovare un tesoro nascosto, è la perla preziosa, è quanto trasfigura il nostro essere, oltre che il nostro volto, rendendolo simile all’oggetto amato. E siccome due più due fa quattro, voi starete pensando: ora ci rifila la solita solfa sull’amore di Dio che è molto più grande; e i consunti: se amiamo così una persona, tanto più Dio, e così di seguito… Beh! Il pensiero c’è. Ma non è quello che voglio dire. Se io amo qualcuno di un amore totale e gratuito, quell’amore è già Dio. Se la persona amata è la perla preziosa, è un tale amore che mi trasfigura. Troppe volte i passi letti sono stati applicati alla scelta di vita consacrata, ma non è così, anche perché il Vangelo non è stato scritto per frati e suore. Dunque, perché non considerare gli affetti che mi circondano, la persona di cui sono innamorato, il mio amico più caro, la mia famiglia, la comunità con cui condivido la mia esperienza di fede come l’espressione dell’immenso amore di Dio, che si dona attraverso l’altro? E poi, l’esperienza dell’incarnazione vorrà pur dire qualcosa! Impegniamoci a trasfigurarci l’uno nell’altro, e questo atto d’amore sarà inabitato da Dio.
La liturgia benedettina associa alla memoria di Marta quella di Maria e Lazzaro definiti ospiti del Signore. Il brano evangelico, tratto da San Luca è caratterizzato proprio dall'accoglienza del Signore. Le due sorelle, in due modi diversi accolgono lo stesso Gesù. L'una è preoccupata a pulire la casa e rendere accogliente l'ambiente che deve essere degno di ricevere Gesù. Maria invece è interessata ad accogliere la Parola stessa di Gesù in un atteggiamento raccolto da sua discepola. I due atteggiamenti non devono essere contrapposti, anzi possiamo unirli in un'unica esigenza per chi si accinge a partecipare alla Santa Messa. Per accogliere degnamente Gesù, nella forma Eucaristica dobbiamo prima purificare il nostro cuore. La Chiesa ci suggerisce come diventare degni di partecipare al banchetto eucaristico e richiede, quando necessario, la confessione sacramentale. In questo imitiamo Marta che pulisce la casa. E' anche importante il nostro atteggiamento che favorisca l'unione intima con Gesù. In questo, invece imitiamo Maria che si è scelta la parte migliore.
Nelle letture del giorno prosegue il racconto della storia della salvezza. Mosè riceve la legge ed Aronne invece permette che si costruisca un vitello d'oro (leggete un toro, infatti è usato “vitello” in un’accezione dispregiativa e diminutiva), immagine potente dei culti cananei. Due figure emblematiche: la prima per la profezia, la seconda per il ministero sacerdotale. E qui, come al solito nella Sacra Scrittura, la profezia ha la meglio, nel senso che richiama ai valori più genuini della fede. Mentre Aronne è ingabbiato nel culto, Mosè è liberato dalla parola di Dio e sa opporsi con fermezza al male. È un messaggio duro per noi, come lo fu per gli Israeliti. Non si è, a volte, più propensi ad andare dietro le statue dei santi che a seguire la legge di Dio? Quanto spazio diamo al magico nel nostro credere? È più semplice dare credito a tanti piccoli idoli, donando loro, come il popolo eletto, tutti i nostri averi (v. 24) • si pensi a coloro che spendono milioni per maghi e fattucchieri • invece di affrontare la fatica dell’attesa (v. 23) che Dio si manifesti. Mentre con la magia vogliamo piegare Dio ai nostri voleri, con la fede ci abbandoniamo nelle mani di un Dio provvidente. E come ci insegna il discorso parabolico di Marco, il Regno del Signore è piccolo nel suo apparire ma diventa una grande realtà: basta saper attendere e fidarsi.
«Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto…» Questa è la sintesi della Parola di Dio per oggi, della Parola di Dio di questa domenica del Tempo ordinario. Cercare, trovare, bussare, pregare… La preghiera, un tema caro a tutti gli uomini religiosi, a tutti gli uomini e donne di ogni tempo, di ogni cultura, di ogni religione. È una caratteristica dell’uomo, la preghiera. Solo l’uomo è un essere che prega. E tutti pregano, anche chi si dice ateo. Qualcuno però potrebbe chiedere: se tutti pregano, qual è lo specifico della preghiera cristiana, qual è la caratteristica della preghiera dei cristiani, quali sono le condizioni perché la preghiera sia riconosciuta dei cristiani, quali sono le condizioni che la preghiera sia riconosciuta degna di un discepolo di Cristo?… E a risposta ci dà proprio l’evangelista Luca. Noi dobbiamo pregare guardando Gesù che prega, partendo dalla sua preghiera… È proprio questo che chiedono gli Apostoli a Gesù: «Signore, insegnaci a pregare…». Imparare a pregare, perché qualcuno può non saper pregare. Può non accorgersi che prega… Può essere esperto in preghiera e desiderare altri modi di pregare… E sì… perché ci sono diversi modi di pregare… c’è chi loda il Signore, c’è chi ringrazia, c’è chi chiede qualcosa, chi prega leggendo, meditando le Sacre Scritture… Tutti i modi buoni, tutti belli… Ma oggi la liturgia ci invita a tornare all’essenziale, alla sorgente della preghiera cristiana: la fiducia nel Padre. Il cuore della celebrazione è la relazione filiale che ci lega a Dio, una relazione viva, fiduciosa, quotidiana. C’è ne uno ancora migliore…, un modo che ci ha insegnato Gesù stesso… Ci dà una lezione di come si deve pregare… Lezione suggerita, provocata dalla domanda dei discepoli: «Signore insegnaci a pregare». E Gesù acconsente, insegna ancora… «voi, quando pregate dite così: Padre nostro…». Questa di oggi è una delle pagine più belle del Vangelo ma anche delle più importanti, così importanti che tutti i cristiani la imparano a memoria, le mamme, le nonne la insegnano non appena i figli o nipotini riescono a dire una parola… Il “Padre nostro” riassume tutto ciò che noi siamo, tutto ciò per cui viviamo, tutto ciò di cui abbiamo bisogno, tutto ciò che ci qualifica come veri figli di Dio, veri discepoli di Cristo. Inizia con la parola “Padre”. A lui rivolgiamo tutte le nostre preghiere, le nostre suppliche, perché la radice di ogni preghiera è il riconoscere, è il confessare la nostra figliolanza, il nostro essere figli suoi. Nella prima parte poi c’è la preghiera di desiderio: «sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, come in cielo così in terra…». Ogni cristiano, ognuno di noi desidera ardentemente che Dio sia riconosciuto santo, adorato, glorificato, e da tutti… Nella seconda parte invece supplichiamo Dio per le nostre necessità, per le esigenze umane. Tutti i figli chiedono al Padre il pane quotidiano. Lo chiediamo anche noi, perché non ci manchi non solo il pane che nutre il nostro corpo ma anche il pane che sazia la nostra anima… Chiediamo poi il perdono dei peccati, la forza nelle tentazioni… Nella preghiera del Padre nostro noi lo facciamo, lo chiediamo per noi stessi ma anche per gli altri, per tutti gli uomini, come Abramo nella prima lettura che non cerca il proprio interesse, non prega, non chiede per se stesso, ma per gli altri, anche per coloro che gli fanno del male, per i nostri nemici… Ecco il senso liturgico profondo di questa domenica: riscoprire la preghiera non come una pratica da compiere, ma come respiro dell’anima, come dialogo fiducioso con il Padre, come stile di vita che ci accompagna in ogni momento. Ecco un altro specifico della preghiera cristiana… noi preghiamo anche per i nostri nemici, come il Signore, che dal suo patibolo pregava il Padre per coloro che lo crocifiggevano. Tutto questo ci aiuta a fermarci sulla nostra preghiera. A chiederci: qual è allora la mia preghiera, com’è la mia preghiera, come prego, cosa dico, che cosa chiedo, per che cosa ringrazio il Signore… Non smettiamo mai a chiedere al Signore, chiedere con le parole degli Apostoli: «Signore, insegnaci a pregare…» e lui, nella sua benevolenza, senz’altro esaudirà la nostra voce, come ha ascoltato gli Apostoli…
Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli". Ed egli disse loro: "Quando pregate, dite: "Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione"". Poi disse loro: "Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: "Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli"; e se quello dall'interno gli risponde: "Non m'importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani", vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!".
Ricordiamo oggi nella liturgia i genitori della Beata Vergine Maria. Un piccolo commento lo inseriamo qui sotto. Per la lectio continua invece seguiamo le letture del giorno. Tanto il Primo quanto il Secondo Testamento, quando parlano dell’alleanza, fanno sempre riferimento a un sacrificio di sangue: gli Israeliti ne sono aspersi e Gesù lo dona per la salvezza di tutti. Il brano della prima lettura di oggi presenta una scena grandiosa che un po’ ci fa dimenticare quella accozzaglia di gente in fuga dall’Egitto, ma come sempre bisogna ridimensionare: ciò che la memoria propone è sempre più grande e maestoso di quanto gli avvenimenti lo siano stati nella realtà. Questo non vuol togliere niente alla centralità dell’episodio; al contrario, ci mette in guardia dal non ricercare Dio nella grandezza degli eventi. A tal proposito si potrebbe rileggere 1Re 19,9-13, in cui il profeta Elia scopre Dio nella brezza leggera e non certo nei terremoti e nel vento impetuoso. Il celebrare l’alleanza con Dio ha una dimensione comunitaria che si esprime nel gesto liturgico-cultuale, ma a fondamento c’è un rapporto personale. La liturgia odierna, infatti, ci ricorda che ogni celebrazione eucaristica rinnova quell’alleanza nel sangue di Cristo, rendendoci partecipi non solo di un rito, ma di una relazione viva con Dio. Ogni volta che ascoltiamo la Parola e condividiamo il Pane spezzato, siamo chiamati a rinnovare la nostra risposta personale e comunitaria all’invito di Dio. Il passo dell’Esodo oggi proposto è preceduto da continui colloqui tra Dio e Mosè, senza considerare che sovente, nell’Antico Testamento, il popolo eletto è ritenuto una persona, anzi, in molti casi, la sposa. Ed è nel rapporto di intimità con Dio che riusciamo ad accettare la parabola del grano e della zizzania. Spesso, guardandoci intorno, ci chiediamo il perché di tanto male e non sappiamo dare una risposta. Da cristiani, però, dovremmo poter offrire una speranza a noi stessi e a quanti ci chiedono ragione del nostro credere “nonostante tutto”. La speranza risiede in Cristo e nel suo Regno che, anche se non in maniera eclatante, cresce e si stabilizza nell’attesa dell’esplosione gioiosa del bene.
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”. E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”».
«Dì che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». È la madre dei due figli di Zebbedeo, soprannominati "Figli del tuono" che parla ed implora per loro un posto di privilegio nel futuro regno. Come ogni buona mamma aspira a vedere i suoi due figli al primo e al secondo posto nel "Regno". Dalla risposta di Gesù appare evidente che a sollecitare la raccomandazione sono stati gli stessi due suoi figli Giacomo e Giovanni. Del resto non erano estranei a simili discorsi neanche gli altri apostoli. Mentre il Signore sta preannunciando la sua prossima passione, sente i suoi che lo seguono discutere su chi di loro dovrà essere il primo. Dice loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Il divino maestro non indugia ad indicare di che trono si tratti e quale è la condizione per sedervi. Il suo regno non è di questo mondo e aggiunge che vuole essere il primo deve essere l'ultimo di tutto e il servo di tutti. Si tratta di bere il calice amaro della passione, di offrirsi in libagione come vittime. Gesù dinanzi a quella passione atroce invocò il Padre suo celeste: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». Dovranno arrivare i giorni della passione, dello scandalo della croce, della fuga e della paura per comprendere che cosa significhi bere il calice. Sia Giacomo che Giovanni berranno allo stesso calice di Cristo e coroneranno con la palma del martirio la loro vita. Così ci si svela il vero valore della sofferenza e del martirio: è la partecipazione al sacrificio di Cristo, la condivisione di una crudeltà assurda che sgorga dal peccato per infliggere la morte, ma quella morte che ormai per la forza di Cristo ci conduce alla risurrezione.
La liturgia di oggi ci propone santa Brigida come esempio per tutta l’Europa. Abbiamo due Vangeli a scelta nella liturgia della Messa. Prediligiamo il secondo, in quanto il primo sarà certamente commentato dai sacerdoti durante la celebrazione. È un Vangelo provocante, per il celebre paragone di Gesù che disse ai suoi discepoli: “Voi siete il sale della terra…, voi siete la luce del mondo”. Si noti la dimensione universalistica, espressa in “la terra” e “il mondo”: sono l’intera umanità. Grandissima missione: essere uomini e donne che danno sapore e senso alla vita, che danno luce e convinzioni agli altri. Con altrettanta evidenza, tuttavia, c’è il rischio di essere insipidi, di perdere quella novità a cui tutti dovrebbero poter guardare per imparare a sperare in Dio. Se i discepoli venissero meno al loro compito rispetto al mondo, non servirebbero più a nulla, anzi rischiano di essere “gettati via e calpestati dagli uomini”. In quel “voi siete”, c’è una grande fiducia da parte del Signore per i suoi discepoli! Grande responsabilità per i discepoli nei confronti di coloro a cui sono mandati! “Voi siete” costituisce già un’entità, data certo come dono, in unione con Gesù, vera “luce degli uomini”. La luce, che non può essere nascosta come una città elevata e che sarebbe assurdo metterla sotto il moggio come la lucerna in casa, sono le “buone opere” dei discepoli. Si tratta di quelle opere che rendono visibili “la giustizia, la misericordia, la pace, l’impegno sociale” dei discepoli, per mezzo delle quali si rivelano autentici figli di Dio. Infatti, questo dovere coerente e pratico dei discepoli è un irraggiamento di quella luce che deve condurre gli uomini a riconoscere la fonte luminosa e sapienziale: il Padre che è nei cieli. E se volessimo leggere ancora quel “voi siete…” nella luce della festa della patrona d’Europa, santa Brigida? “Voi, siete… per il mondo”? Non risuonano forse queste parole come profezia?, come compito…, come funzione, come dovere? Di fronte al “mondo” che vede nelle cose materiali il valore supremo… l’Europa deve dare il sapore giusto all’umanità. Che compito, che missione… che responsabilità…
Su Maria Maddalena, iconografia, letteratura e quant’altro si sono sbizzarriti nel delineare il personaggio, spesso confondendolo con altre Marie dei Vangeli. Oggi, la liturgia ce la presenta nella scena del “Giorno dopo il sabato”, tratteggiata nel Vangelo di Giovanni, e ce la presenta con il titolo di Apostola degli apostoli, perché è lei la prima ad annunciare agli apostoli, appunto, la buona novella sulla risurrezione del Maestro Gesù. È un momento pieno di pathos e di drammaticità, in cui pianto, dolore, ricerca, delusione, gioia si mescolano a formare un quadro quanto mai realistico. Nel corso del racconto, scopriamo il percorso non solo di fede, ma umano, di ognuno di noi, e scorgiamo come, nell’arco di poco tempo, vengano racchiuse tutte le espressioni interne ed esteriori dell’agire dell’uomo. Maria Maddalena, così, da personaggio pio, che la devozione ha trasformato rendendolo alquanto languido, può assurgere a donna forte, a modello di umanità. In lei e con lei ogni persona può esclamare: “Rabbunì”, riconoscendo e accogliendo il Cristo come il Signore della vita e come Colui che ci fa partecipi della sua missione salvifica. Ci insegna la forza di cercare il Signore, e Lui ci mostra che, anche quando i nostri occhi non lo riconoscono, non lo vedono, Egli è sempre con noi. Ci viene additata oggi come esempio della “apostolorum apostola”, prospettando il ruolo di ciascuno di noi. Siamo tutti apostoli, annunciatori della buona novella del Vangelo, anche agli stessi apostoli, se mai dovesse essere necessario. E l’annuncio è bello: "Non è morto, è vivo. Io l’ho incontrato e te lo annuncio". Perché è bello essere cristiani e darne testimonianza.
Quando la fede va alla ricerca del miracoloso, del meraviglioso, della soddisfazione visiva, del segno, vuol dire che o è in crisi oppure non è mai cresciuta, non è mai divenuta adulta. Il “credere” si sostiene nella rinuncia del “vedere”. In tale ottica, prima e seconda lettura paiono essere in antitesi. Infatti, mentre la prima è l’apoteosi dello straordinario, la seconda mette in guardia, anzi rimprovera, chi chiede un prodigio. In Esodo, gli Israeliti rimpiangono la loro condizione servile: ciò voleva dire anche riconoscere la superiorità degli dèi stranieri rispetto all’unico Dio, poiché, per la concezione antica, il popolo era libero quando poteva mostrare la potenza della divinità preposta alla sua difesa. La liberazione, il passaggio, avviene mediante un atto di coraggio richiesto da Mosè (v. 13). È il medesimo coraggio di cui si ha bisogno nel credere senza appoggi sensibili. Come il popolo riluttante si affida a Dio, così la fede, benché tante volte non supportata da prove manifeste, dovrebbe abbandonarsi senza richiedere tante dimostrazioni. Non basta avere in testa delle teorie metafisiche che mettono in pace la nostra ragione, poiché davanti a un evento qual è la resurrezione, accennato dall’evangelista (v. 40), tutti i sistemi, anche i più complessi, crollano. Il credere, dunque, non può essere sostenuto solo dal ragionamento; anzi, questo, in certi momenti, è di ostacolo: deve quindi essere informato dall’amore. Credere ed amare fanno parte della stessa modalità di rapportarsi alle persone e, di conseguenza, a Dio. Credere e amare, però, richiedono un po’ di follia, che dia il coraggio di saltare i precipizi o, per dirla biblicamente, attraversare un mare a piedi!
Nel cammino liturgico di questa domenica, la Parola di Dio ci invita a riflettere sul valore dell’accoglienza, tema centrale tanto nella Sacra Scrittura quanto nella nostra vita cristiana. Il senso dell’ospitalità era ed è molto sviluppato nelle culture orientali, come ci viene confermato dalla Bibbia e dai brani proposti alla nostra considerazione. La mancanza di tante strutture alberghiere faceva sì che il pellegrino si affidasse al buon cuore della gente. La nostra civiltà, invece, più complessa e individualista, rende più difficile questa apertura, a differenza del mondo orientale, dove la semplicità della vita favorisce ancora oggi l’accoglienza. San Benedetto, consapevole dell’importanza di questo aspetto, dedica il capitolo 53 della sua Regola al modo di ricevere i pellegrini, affermando un concetto fondamentale di fede: nel pellegrino si accoglie Cristo stesso. Così fa Abramo che, nei tre misteriosi personaggi, riceve la visita dell’Eterno, dal quale, anche come premio della sua premura, viene annunciato il tempo dell’adempimento della promessa: “Avrai un figlio”. Anche Gesù è ospite in casa di Lazzaro, Marta e Maria. La gioia dell’accoglienza viene però turbata dai diversi atteggiamenti delle due sorelle: Maria si gode la parola del Signore rimanendo estatica ai suoi piedi, mentre Marta si affanna per i molti servizi. Il suo lamento rivela un turbamento interiore, generato dall’impazienza dinanzi alle tante cose da preparare: non bisogna accogliere solo Gesù, ma anche i suoi apostoli, che certo non soffrono di inappetenza. Tuttavia, il Signore prende le difese di Maria: è necessario provvedere a ciò che serve per la vita, ma è ancora più necessario ascoltare la parola di Dio, perché è essa a dare senso anche all’attività umana. Gesù non vuole mettere in contrapposizione contemplazione e azione, ma richiamare chi è immerso nell’agire apostolico o nel lavoro alla priorità dell’ascolto, senza per questo dispensare dal lavoro chi si dedica alla contemplazione. San Benedetto ai suoi monaci scandisce con chiarezza i tempi della preghiera, della lectio divina (meditazione) e del lavoro manuale o intellettuale. Parlando ai sacerdoti il Papa ricordava che la lectio divina non è un’attività opzionale per chi è impegnato nella pastorale, ma una esigenza e condizione per vivere fedelmente la propria vocazione e rendere fruttuoso il lavoro apostolico. In fatto di ospitalità, oggi la nostra società è chiamata a interrogarsi. Era anche un tema caro a Papa Francesco. Quante volte ad alta voce si interrogava: quale atteggiamento teniamo dinanzi a tanta povertà, dinanzi a tanti stranieri? Ci chiudiamo in noi stessi, rassicurati dalla nostra apparente sicurezza, o accogliamo il povero come accoglieremmo Cristo stesso? La Parola di Dio ci spinge a considerare tutto alla luce del Vangelo: “Ciò che avrete fatto a uno di questi miei fratelli più piccoli, l’avrete fatto a me. Avevo fame e mi avete dato da mangiare; ero forestiero e mi avete accolto…”. E' semplicemente l'insegnamento del Vangelo.
In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: "Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti". Ma il Signore le rispose: "Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c'è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta".
Stiamo seguendo, nella prima lettura, la storia di Mosè, il quale ora si trova di fronte alla difficile missione che Dio gli affida. Egli comprende quanto sia ardua l’impresa alla quale il Signore lo manda. Vorrebbe rinunciare a questo incarico, opponendo tante difficoltà che prevede nella loro realtà, sia da parte del faraone sia da parte del suo popolo, di dura cervice. Gli si obietterà: “Chi ti manda a liberarci? Come si chiama questo Dio che ti ha parlato?”. Tu dirai al popolo: “IO SONO mi manda”. È un nome che manifesta tutta l’infinitezza e la pienezza di vita del Creatore, ma anche la sua infinita bontà e misericordia verso il suo popolo oppresso. Mosè dovrà chiedere il permesso al faraone di recarsi nel deserto, a tre giorni di cammino, per sacrificare al loro Dio: il faraone negherà questo permesso, e allora interverrà la potenza dell’Altissimo. Il breve brano del Vangelo è un invito dolce e consolante alla fiducia per quanti vivono sotto il peso della sofferenza. Gesù è venuto a guarirci dai nostri peccati, le cui conseguenze deleterie sono le afflizioni di vario genere che tormentano la povera umanità. Egli ci insegna la via per la quale possiamo trovare la nostra pace anche nelle tempeste che agitano la nostra vita: accettare la propria esistenza così come si svolge, con cuore mite e umile, come ce ne offre l’esempio Lui stesso. Forse abbiamo tante volte fatto l’esperienza che la croce accettata con amore si raddolcisce e diventa meno pesante; presa invece con animo ribelle, diventa insopportabile. Vogliamo vivere sereni? Il Maestro ci indica la via: mitezza e umiltà di cuore.
In quel tempo, Gesù disse: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Nella prima lettura continua la storia di Mose: Mosè, lasciato l’Egitto, si ritira nel deserto, dove rimane a servizio di Ietro, sacerdote di Màdian, diventandone anche il genero. Si reca nel deserto fino al monte Oreb a pascolare il gregge del suocero, quando nota una cosa strana: un roveto che arde senza consumarsi. Vuole avvicinarsi per osservare questo fenomeno, ma viene trattenuto da una voce che lo chiama per nome: “Non avvicinarti… lèvati i sandali… poiché il suolo su cui tu stai è una terra santa… Sono il Dio dei tuoi padri… Ho udito il grido degli Israeliti… io stesso ho visto l’oppressione con cui gli Egiziani li tormentano… Ora va! Io ti mando dal faraone. Fa’ uscire il mio popolo dall’Egitto”. Mosè, dinanzi a questa proposta e missione, rimane sconcertato… ma la voce di Dio insiste: “…quando avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte”. Ogni vocazione sgomenta e getta nel turbamento… ma come Dio ha dato certezza della riuscita a Mosè, così la dà anche a noi, se sappiamo obbedire alla sua voce. Però il Signore vuole anime docili, pronte a fidarsi di Lui. Gesù, nel breve brano evangelico, ringrazia il Padre perché agli umili di cuore rivela i misteri più profondi del suo essere e della vita. Ognuno di noi ha una chiamata, una vocazione, a realizzare • in noi e in quanti ci sarà concesso di incontrare nella vita • il piano di salvezza del Signore. Nulla avviene a caso, come nulla è avvenuto a caso nella vita di Mosè. Sia il nostro impegno quello di essere di aiuto ai fratelli nel cammino spirituale, con l’esempio della vita e la testimonianza della parola.
Con la prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, inizia la storia di Mosè, salvato dalle acque del Nilo per l’intervento provvidenziale della figlia del faraone. Dopo lo svezzamento, egli vive ed è educato alla corte del faraone… ma quando viene a conoscere la sua vera origine, ha il coraggio di rinunciare ai privilegi che la sua posizione gli riserva, per sentirsi solidale con il suo popolo, oppresso ingiustamente da leggi razziali. In questa solidarietà con il suo popolo disprezzato vediamo una figura della kènosi, dell’annientamento del Figlio di Dio che, nascondendo la sua divinità, si fa simile a noi, poveri peccatori, in tutto, eccetto che nel peccato. Ma il popolo ebreo non è pronto a intraprendere il cammino della libertà; perciò Mosè, dopo aver dimostrato il suo zelo nel difendere un connazionale maltrattato ingiustamente da un Egiziano, deve scegliere la via dell’esilio per salvare la propria vita. Quante rassomiglianze con Gesù, che non viene accolto dalla sua gente… fino a decretarne la morte. Questa condotta sorda ai richiami del Signore interessa anche la vita di ciascuno di noi. Gesù ci richiama a questa responsabilità rimproverando le città di Corazin, di Betsàida e di Cafàrnao, dove tanti segni compiuti dalla sua bontà e onnipotenza non sono riusciti a convincere gli animi della popolazione a convertirsi al meglio. Chi ha più ricevuto, si prepari a rendere di più. Non potrebbe essere un avvertimento anche per noi, che viviamo al centro della cristianità e che tanto abbiamo ricevuto dalla grazia del Signore, a differenza di altri popoli che vivono ai margini della Chiesa?
Il ricordo del beneficio ricevuto dovrebbe suscitare nell’animo sentimenti di riconoscenza e di gratitudine. Non di rado, invece, esso induce alla dimenticanza o, quel che è peggio, a rimuovere completamente la situazione di bisogno vissuta, perché giudicata come offensiva alla propria reputazione personale. È, lo sentiamo nella prima lettura di oggi, il comportamento degli Egiziani nei confronti degli Ebrei, discendenti di Giuseppe e dei suoi fratelli. La loro presenza, stimata come una benedizione di Dio nel momento della carestia, ora pesa sul popolo, preoccupato del numero in continuo aumento degli Israeliti, come una terribile minaccia. Che cosa fare? Rendere loro la vita sempre più difficile con lavori pesanti e sopprimere fin dalla nascita tutti i loro bambini maschi. Ma Dio non cessa di benedire il suo popolo. Il discorso si fa molto più aspro nelle parole che Gesù rivolge ai suoi discepoli. Non solo vi saranno contrasti tra nazione e nazione, tra le diverse etnie, ma la spada della divisione giungerà fin nell’ambito familiare. Nel nuovo Regno, i nemici dell’uomo saranno i suoi stessi familiari. Anzi, il discepolo deve essere pronto a preferire il Signore Gesù ai propri genitori, ai figli o ai parenti: una scelta che non ammette eccezioni. Chi si comporta diversamente, “non è degno di me”. La persona del discepolo diventa sacra come quella del Maestro: accoglierlo è come accogliere Gesù stesso, anzi, il Padre. E non resterà senza ricompensa nemmeno un bicchiere d’acqua fresca offerto in suo nome. Appartenere a Lui costa alla natura umana, ma è anche un guadagno: viene identificata con la persona di Gesù, invitata a vivere la sua stessa consacrazione al Padre. È il caso di ripetere con i Padri della Chiesa: considera, o cristiano, la tua vocazione!
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l'uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d'acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa». Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli, partì di là per insegnare e predicare nelle loro città.
La liturgia della Parola di questa domenica è molto ricca e molto attuale. Mosè afferma che la Parola di Dio è molto vicina all’uomo: non occorre andarla a cercare lontano, perché essa è nel suo stesso cuore, nella sua coscienza. Nella seconda lettura, san Paolo, scrivendo ai Colossési, rivela la vera essenza della persona di Gesù, immagine del Dio invisibile. Per mezzo di lui sono state create tutte le cose. Egli è prima di tutto e tutte le cose sussistono in lui. Nella parabola del buon samaritano, Gesù ci presenta un esempio meraviglioso di amore verso il prossimo, anzi, verso il nemico. Come il dottore della legge, anche noi siamo tentati a volte di chiederci: chi è il mio prossimo? Siamo pronti a dimostrarci pieni di preoccupazione per le persone lontane, per i bisognosi del mondo, per combattere la fame nei vari continenti… senza poi accorgerci che intorno a noi, forse tra i nostri familiari o parenti, vi sono persone alle quali neghiamo amore, aiuto e comprensione. È facile amare chi è lontano, che non disturba la nostra vita… ma quanto è difficile donarci disinteressatamente a chi vive al nostro fianco, che con le proprie esigenze potrebbe portare pesanti cambiamenti ai nostri programmi di vita. Voglia il Signore aprirci gli occhi! Ogni uomo è nostro prossimo perché figlio dello stesso Padre, ma la nostra carità e comprensione devono iniziare in famiglia, nella comunità, tra i parenti, nelle nostre associazioni, in parrocchia, e così estendersi sempre di più in tutte le direzioni. Accade spesso che, uscendo di casa, ci mettiamo una maschera di perbenismo, da cui ci liberiamo appena rientrati tra le mura domestiche, dove ci sentiamo in dovere di essere nervosi, irascibili, intrattabili. Quale ipocrisia! Gesù ce la rimprovera pesantemente, come a moderni farisei…
In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: "Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?". Gesù gli disse: "Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?". Costui rispose: "Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso". Gli disse: "Hai risposto bene; fa' questo e vivrai". Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: "E chi è mio prossimo?". Gesù riprese: "Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: "Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno". Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?". Quello rispose: "Chi ha avuto compassione di lui". Gesù gli disse: "Va' e anche tu fa' così".
Nel brano che ci viene proposto oggi, il vecchio Giacobbe termina i suoi giorni. Una morte circonfusa di mistero, ma anche di tanta luce. Egli viene riunito ai suoi antenati. Non c’è ancora la luce di Cristo che fa pensare alla risurrezione, ma Giacobbe, con gli altri Patriarchi, aspetta quel momento felice in cui la morte sarà vinta proprio dall’Autore della vita. La morte è sempre un grande mistero… la Bibbia ce la presenta come un passaggio: andare incontro al Signore. È anche il momento dei grandi messaggi, che dovrebbero perpetuare la memoria dei padri. Raccomandazioni, consigli, dettati sul letto di morte, sono come un’eredità preziosa che, mentre mantiene viva la memoria, spinge a far rivivere nelle scelte dei figli le gesta virtuose degli antenati e costituisce un legame che fa parte della nostra storia. La scomparsa di Giacobbe getta un grande timore nell’animo dei suoi figli, colpevoli di aver venduto schiavo il fratello Giuseppe per una insana invidia. Questi li rassicura con animo mite e pieno di affetto, interpretando la loro indiscussa cattiveria come una permissione del Signore per i suoi fini, che si sono manifestati nella grande carestia. Verrà il momento in cui il popolo israelita lascerà l’Egitto per ritornare nella terra di Canaan. Allora anche i resti mortali di Giuseppe riceveranno sepoltura nel sepolcro di famiglia, vicino ad Abramo, Isacco, Sara… e al padre Giacobbe. Nel brano del Vangelo, Gesù esorta i suoi discepoli a mantenersi fedeli alla sua parola e al suo insegnamento. La predicazione del Regno attirerà loro persecuzioni e incomprensioni, a volte anche prigionia e morte. Egli li rassicura: non temete chi ha il potere di uccidere il corpo; temete invece chi può far perire l’anima e il corpo. Ogni vita umana vale più dei passeri. E un incoraggiamento ancora più forte: chi mi avrà confessato presso gli uomini, sarà da me riconosciuto dinanzi al Padre mio. Vivere in questa fiducia significa dare pace e serenità al nostro spirito. Qualunque sia la mia situazione, io valgo più di tanti passeri… Ti ringrazio, Signore, della tua paterna e… materna tenerezza!
Ci fa da guida in questo giorno particolarmente solenne per noi monaci e per tutta la chiesa, la splendida immagine evangelica della vite e dei tralci. La leggiamo nel contesto monastico e ci lasciamo guidare dallo stesso Patriarca S. Benedetto. Egli con un linguaggio altamente teologico e biblico vede la vita del monaci come un faticoso e gioioso "ritorno" a Dio, da cui ci eravamo allontananti per la disobbedienza. Il ritorno, come accadde al popolo d'Israele, implica una liberazione dalla schiavitù, un passaggio attraverso le acque del mare rosso, un lungo percorso nel deserto e l'approdo finale nella terra promessa. È un cammino di conversione e di salvezza, è un prodigioso innesto alla vite nuova che è Cristo. È la splendida esperienza di veder rinverdita l'esistenza, è ancora una gioiosa corsa verso Cristo con "il cuore dilatato". La vita del monaco, ma ciò vale anche per ogni cristiano, mediante l'ascolto, la preghiera, la lettura sapienziale della parola di Dio, la ricerca incessante della perfezione e la sequela di Gesù, è proposta e vissuta come una gioiosa esperienza pasquale. Ciò scaturisce come naturale esigenza dell'innesto alla vite: per essere con Cristo dobbiamo essere disposti a seguirlo coraggiosamente ovunque, fino alla croce, fino al sepolcro per avere così la certezza che l'innesto ha prodotto il suo splendido frutto, la vita nuova in Cristo, la nostra personale risurrezione. In questa prospettiva la preghiera e il lavoro, che scandiscono essenzialmente la vita del monaco, ma che ogni cristiano in situazioni diverse sperimenta quotidianamente, diventano motivi di fecondità e di gioia. La sua Regola, non solo ha ispirato ed ispira ancora la vita di migliaia di monaci in ogni parte del mondo, ma ha fatto il suo ingresso in ogni ambiente, nelle famiglie, nelle caserme, ultimamente nelle fabbriche e ovunque si trovano adunate persone che cercano un sano equilibrio nelle mutue relazioni e una vera santificazione del lavoro; per questo le Abbazie e i Monasteri a loro volta si stanno aprendo sempre più all'accoglienza per operare un nuovo e vitale innesto tra la vita del mondo e quella dei consacrati. Per ricordare e rinsaldare questo innesto, già operato gloriosamente nei secoli passati, S. Benedetto è stato proclamato meritatamente Patrono d'Europa. Anche questo è un innesto che deve però trovare ancora la piena realizzazione in altre realtà della vita sociale. Molti, pare, vogliano ignorare le radici storiche e religiose che hanno evangelizzato e civilizzato la nostra Europa. Speriamo di non dover costatare che il distacco dalla vite feconda non riduca i tralci alla essiccazione e alla sterilità.
La sofferenza ha uno scopo? Oggi la lettura dell’Antico Testamento pare dirci che tutto ha un senso, che tutto si risolve secondo i piani di Dio. Giuseppe, dopo essere stato venduto come schiavo ed essere diventato un “pezzo grosso” alla corte del faraone, diventa mezzo per salvare gli stessi fratelli, eredi della promessa, che lo hanno tradito. Sembra una storia un po’ troppo già definita, dove tutto avviene secondo schemi precostituiti e in cui nessuna libertà è concessa, nemmeno quella del male, che si volge • come già in altre parti del medesimo libro • in bene. È, in tutti i modi, un grande messaggio di speranza per l’uomo. Invece, leggendo il brano evangelico, sembra proprio che non vi sia possibilità di salvezza per chi rifiuta l’annuncio del Regno. Ma vi è anche fiducia in Dio, che non abbandona chi si mette al suo servizio. Una magnifica lezione di fedeltà da parte di Dio ci viene da queste due letture. I personaggi non sono grandi, le situazioni non sono epiche e i fatti sono ordinari: l’unica grandezza viene da Dio, che, nonostante tutto, mantiene la parola data e • come nel Vangelo • porta l’uomo a collaborare al suo piano di salvezza.
In quel tempo, disse Gesù ai suoi apostoli: «Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento. In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. In verità io vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sòdoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città».
Lo ricordiamo tutti come l'Apostolo incredulo, come colui che volle mettere la mano al posto della ferita della lancia e il dito al posto dei chiodi. Egli volle così attingere la fede piena alla fonte stessa dell'amore. È importante credere alla altrui testimonianza, ma non possiamo assolutamente condannare chi vuole comprendere il prezzo dell'amore e toccare i segni della grazia. Molto probabilmente Tommaso, più degli altri era rimasto salutarmene scosso dalle parole che il suo Gesù aveva pronunciato non molti giorni prima, nella sera dell'ultima cena: "questo è il mio corpo, questo è il mio sangue sparso per voi". Ora Tommaso vuole comprendere fino in fondo, per quanto è possibile alla fragilità umana, il significato pieno di quel dono. Volendo toccare il corpo di Cristo con i segni della sua passione, egli vuole stabilire una intensa ed indefettibile comunione con Cristo. Egli vuole riconoscere quel corpo, che non aveva visto inchiodato alla croce, ma che desidera legare e fondere con il suo, per essergli poi fedele fino alla morte. I segni dei chiodi e le ferite del costato che egli tocca gli consentono di salire con il suo maestro fino al Calvario, fino alla croce per poi godere nel vederlo vivo e risorto, lì presente dinanzi a lui, ancora pronto a fugare ogni dubbio. L'intensità dell'amore talvolta supplisce alla debolezza della fede. Vediamo infatti nella storia di Tommaso l'esplosione simultanea della fede e dell'amore quando dichiara che Cristo è il suo Signore e il suo Dio: «Mio Signore e mio Dio!». E', tutto considerato, un bel percorso quello che Tommaso compie; egli volge lo sguardo e poi tocca Colui che hanno trafitto. Ci porge un invito che tutti possiamo raccogliere: guardare il crocifisso per immergerci in Cristo, per imprimere nel nostro cuore i germi fecondi della gratitudine della fede e dell'amore.
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Alla luce delle Sacre Scritture, nessuno può dubitare della presenza di satana nella storia dell’umanità. Fa la sua funesta apparizione sin dal principio: appare come il menzognero, il nemico di Dio e dell’uomo, capace di insinuarsi in modo subdolo nelle nostre scelte per indurci al male. Ha vari nomi: il serpente, il maligno, satana, diavolo, lucifero, tentatore; è ribelle a Dio, avendo rifiutato il progetto dell’incarnazione di Cristo e il progetto di salvezza che Egli, come Padre, ha pensato per noi nella sua infinita misericordia. Ha osato tentare lo stesso Cristo dopo il digiuno di quaranta giorni nel deserto e nel momento della sua agonia sulla croce. Ha creato il suo regno in aperta contrapposizione a quello di Dio. In esso domina l’odio, il disordine, il tormento e la morte. Si scaglia contro di noi nel tentativo di vanificare l’opera redentiva di Cristo e attirarci a sé, nel suo inferno. Talvolta, con particolare violenza, s’insinua nello spirito dell’uomo, sostituendosi alla sua volontà, infliggendogli ogni sorta di tormento e inducendolo al male verso se stesso e verso gli altri. È capace di pervadere vasti strati della nostra società; semina ovunque zizzania, anche nel campo della Chiesa, dove lo stesso Signore sparge a piene mani il seme buono della sua parola e della sua grazia. Oggi ascoltiamo il grido satanico contro Cristo: «Che cosa abbiamo noi in comune con te, Figlio di Dio? Sei venuto qui prima del tempo a tormentarci?». Non c’è più comunione tra Dio e satana, e la Verità di Cristo, il suo essere vero Dio e vero uomo, il suo essere salvatore del mondo e liberatore dal male, la sua stessa presenza gli è motivo di tormento e causa di rovina. Pur essendo nella menzogna, non possono fare a meno di riconoscere Cristo vero Dio, ammettere la sua missione liberatrice per l’uomo e sentire che Egli ha la forza di scacciarli dagli indemoniati: «Se ci scacci, mandaci in quella mandria». Egli disse loro: «Andate!». Ed essi, usciti dai corpi degli uomini, entrarono in quelli dei porci; ed ecco, tutta la mandria si precipitò dal dirupo nel mare e perì nei flutti. Dobbiamo comprendere lo stile evangelico e il reale significato che Matteo vuol dare alla narrazione: andare nei porci significa che lì, nell’immondizia, il male ha la sua dimora, e precipitare nel burrone ci induce a pensare agli inferi, al luogo della morte e dei dannati. Ciò che però più interessa è convincerci che Cristo è il nostro liberatore, che Egli è più forte del male e che tutta la sua missione è un annuncio e una realizzazione storica e perenne di salvezza. Va anche riscoperta la verità sul demonio alla luce della Rivelazione, purificando ogni tendenza a misconoscerne la presenza nel nostro mondo o ad attribuirgli poteri che non gli appartengono.
In quel tempo, giunto Gesù all’altra riva, nel paese dei Gadarèni, due indemoniati, uscendo dai sepolcri, gli andarono incontro; erano tanto furiosi che nessuno poteva passare per quella strada. Ed ecco, si misero a gridare: «Che vuoi da noi, Figlio di Dio? Sei venuto qui a tormentarci prima del tempo?». A qualche distanza da loro c’era una numerosa mandria di porci al pascolo; e i demòni lo scongiuravano dicendo: «Se ci scacci, mandaci nella mandria dei porci». Egli disse loro: «Andate!». Ed essi uscirono, ed entrarono nei porci: ed ecco, tutta la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare e morirono nelle acque. I mandriani allora fuggirono e, entrati in città, raccontarono ogni cosa e anche il fatto degli indemoniati. Tutta la città allora uscì incontro a Gesù: quando lo videro, lo pregarono di allontanarsi dal loro territorio.
È sorprendente leggere nel Vangelo di oggi che Gesù dorme mentre si sta scatenando una violenta tempesta che scaglia onde minacciose sulla barca dei suoi discepoli. È ancora più sorprendente constatare, nella storia e nella vita, che lo stesso Signore appaia talvolta disinteressato e assente mentre vicende minacciose si abbattono sul mondo, sulla sua Chiesa e sulle singole persone. Quel sonno e quel distacco hanno scandalizzato e scandalizzano molti, hanno generato e generano spesso crisi di fede, hanno indotto molti a parlare del silenzio di Dio, dell’assenza di Dio dal nostro mondo. Qualcuno è giunto a parlare della «morte di Dio» e, sulla stessa scia, ha fortemente dubitato del suo amore per noi. Forse ci siamo dimenticati della causa della primordiale paura, già percepita in modo intenso dai nostri progenitori quando si sono ritrovati fuori del paradiso terrestre: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». È stato prima l’uomo a nascondersi a Dio: egli si è accecato nella presunzione di diventare come lui. Il rapporto uomo-Dio era basato sull’amore; dopo il peccato lo vediamo contrassegnato dalla paura e dalla nudità. Il recupero avviene ora mediante la fede, che ci consente di vedere solo attraverso un velo. Quando manca la fede, le burrasche assumono dimensioni distruttive. È quasi sempre l’uomo a scatenarle, ma non è capace di riconoscere le proprie responsabilità, di apportare i necessari rimedi; anzi, le attribuisce a Dio e osa incolparlo, emana condanne contro quel Dio che egli volutamente ignora. Non è quindi il silenzio o il disinteresse, o ancor meno l’assenza o la morte di Dio, la causa delle nostre disfatte, ma l’oscuramento dell’anima, il buio della fede, che genera tempeste, violenze, sopraffazioni; ed è ancora la stessa mancanza a scatenare la paura in coloro che le subiscono. È di qualche giorno fa l’ammonimento del Signore che ci ricordava di non aver paura di coloro che possono uccidere il corpo, ma piuttosto di coloro che possono distruggerci dentro, creando l’inferno nella nostra vita. Ai nostri giorni malessere profondo e decantato progresso convivono assurdamente insieme, e sono pochi coloro che, con intelligenza e sapienza, ne sanno scrutare difetti e valori. Il salmista così ci ammonisce: «Non vantatevi!». E agli empi: «Non alzate la testa! Non alzate la testa contro il cielo, non dite insulti a Dio». Lo stesso Signore, dopo la sua passione e risurrezione, così ci rassicura: «Vi ho detto queste cose perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!».
In quel tempo, salito Gesù sulla barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco, avvenne nel mare un grande sconvolgimento, tanto che la barca era coperta dalle onde; ma egli dormiva. Allora si accostarono a lui e lo svegliarono, dicendo: «Salvaci, Signore, siamo perduti!». Ed egli disse loro: «Perché avete paura, gente di poca fede?». Poi si alzò, minacciò i venti e il mare e ci fu grande bonaccia. Tutti, pieni di stupore, dicevano: «Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?».
Quando si rimane affascinati da qualcuno o un ideale forte preme dentro di noi, ci accompagna spesso la convinzione che stiamo per intraprendere un percorso pieno di sicurezze e di garanzie. Non accade così con il Signore: egli, cominciando da Abramo, chiama a sé, propone il suo progetto, ma senza dare indirizzi precisi e, ancor meno, prospettive di successo. Allo scriba che gli si accosta e, mosso da sicura ammirazione, fa la sua offerta di mettersi alla sua sequela: «Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai», Gesù risponde: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». Egli così sta proclamando non tanto la sua povertà, ma il necessario e indispensabile distacco dalle cose del mondo. Sta ribadendo al suo interlocutore, e a tutti noi, che dobbiamo cercare tesori che non periscono. Dobbiamo guardare le cose di lassù e non quelle della terra. Vuole ancora dirci che in lui dobbiamo riporre ogni nostra fiducia: è lui il tesoro nascosto che ci è dato di scoprire, lui la nostra vera ricchezza. Gesù lo scandirà ancora ai suoi, quando affiderà loro la missione di andare ad annunciare il suo Regno: «Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». La caratteristica del cristiano è il distacco dai beni del mondo per mettere al primo posto il Signore. I suoi ministri hanno il dovere di andare “sgombri” di ogni peso e liberi da ogni umana preoccupazione. È difficile, oggi, convincersi che il distacco dai beni materiali e l’abbandono fiducioso alla provvidenza divina possano essere motivo di interiore libertà e garanzia di vera ricchezza. Gesù mette sullo stesso piano, per chi vuole seguirlo nel suo Regno, il distacco dalle umane sicurezze e quello dagli affetti umani: «Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli rispose: «Sèguimi e lascia ai morti seppellire i loro morti». San Benedetto dice ai suoi monaci che nulla debbono anteporre all’amore di Cristo; questo, però, vale anche per ogni cristiano.
Gli antichi avevano sintetizzato le norme di giustizia nel famoso detto: «Occhio per occhio, dente per dente». È la cosiddetta “legge del taglione”, che mirava a rendere equa la pena in rapporto alla trasgressione commessa e proporzionata la reazione all’offesa ricevuta. Non era, evidentemente, espressione di amore. Gesù, sulla scia di ciò che ha detto e fatto, in forza del comandamento nuovo, ci invita a una testimonianza eroica, fino a “perdere la faccia”, fino a privarci perfino dell’indispensabile mantello e a percorrere volentieri miglia di strada anche con il nemico, pur di ricondurlo sulla Via. Questa è la strada per spegnere ogni focolaio di odio: così il cristiano imita realmente Cristo, deriso e schiaffeggiato, angariato dai suoi nemici, spogliato delle sue vesti e condotto sulla dura via del Calvario. Siamo invitati a valutare sapientemente, alla luce di questo Vangelo, e a guardare con l’occhio della fede le apparenti sconfitte che, inevitabilmente, accompagnano la vita dei fedeli di Cristo. Capita spesso che eventi comunemente ritenuti sciagure siano, per noi, fonte di merito, annuncio di salvezza e autentica testimonianza cristiana.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete inteso che fu detto: "Occhio per occhio" e "dente per dente". Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l'altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da' a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle».
In Dio sono perfette sia l’unità che la Trinità. Dio è unico nell’unità di una sola natura e trino nelle persone. Siamo di fronte al mistero. I misteri di Dio ci si svelano nella misura in cui siamo capaci, accogliendo i doni di grazia e lasciandoci illuminare dallo stesso Spirito, di viverli e incarnarli in noi. San Giovanni ci dice che Dio è amore, ma aggiunge che per amore Egli ha dato la vita per noi, e non esiste amore più grande di questo. Se osserviamo i suoi comandamenti, se diventa continua e crescente la nostra comunione con il Padre, con il Figlio Gesù Cristo e con lo Spirito Santo, allora la Trinità beata viene a noi e prende dimora presso di noi. San Paolo lo diceva ai primi cristiani: “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi”. È vero che esiste un limite invalicabile oltre il quale la mente umana non può vedere, ma è anche vero che Dio non pone ostacoli alla sua conoscenza, non pone limite alcuno al suo amore. Siamo noi a perdere di vista le realtà del cielo perché invischiati nelle cose della terra o offuscati dal male. Il peccato è la vera barriera che noi costruiamo verso Dio Uno e Trino. L’esperienza cristiana ci dice che la fedeltà di Dio non viene mai meno, neanche quando la nostra naufraga penosamente. Egli vuole rivelarsi e farsi conoscere per essere da noi riconosciuto e amato. Egli non solo nella Scrittura sacra si rivela, ma meglio e ancor più nella vita di ogni giorno, nella storia del mondo e in particolare in quella della Chiesa. Splende nei suoi santi la gloria della Trinità. Nella nostra redenzione viene esaltato l’amore misericordioso. Nei travagli e nelle vittorie della Chiesa splende la luce dello Spirito Santo, che la rende martire ma invincibile. Nella comunione fraterna concretamente espressa, la Trinità trova la migliore espressione. Quello che perfettamente vive nei cieli si trasferisce per noi sul nostro mondo. E noi siamo il tempio di Dio, del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Il raggiro, la doppiezza, il sotterfugio, l’inganno, la menzogna sgorgano sempre da un animo inquinato interiormente, da chi ha bisogno di nascondere la verità, di prevaricare sull’altro, di difendersi o difendere qualcun altro in modo maldestro e mendace per le proprie o altrui malefatte. Si può arrivare fino a stravolgere totalmente la verità, minando in radice la giustizia. Sappiamo delle bugie dei bambini, che spesso hanno tutte le caratteristiche di una legittima difesa dalle violenze indebite degli adulti, ma conosciamo anche le bugie dei grandi, quelle che causano gravi danni alle persone. Il ricorso al giuramento è proprio di chi dubita della verità o vuole farla riconoscere come tale anche quando è palese menzogna. Si vuole chiamare Dio a testimone di quanto asseriamo, e non è difficile comprendere come si incorra nello spergiuro quando poi non si proclama la verità. È un grave peccato, che trova le sue reali dimensioni nell’offesa che si reca a Dio • convocato e nominato invano e inopportunamente • e nel danno che si procura con la falsità proclamata. Talvolta siamo chiamati a giurare anche nei tribunali del mondo, che hanno il compito di definire la giustizia in fatti contenziosi: anche lì, il nostro dire deve assolutamente essere conformato alla verità che conosciamo, anche se nella stragrande maggioranza dei casi, in quelle circostanze, non si giura più su Dio o sul Vangelo. Il cristiano comunque, come ci dice lo stesso Signore, non deve giurare affatto: “Né per il cielo, perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è lo sgabello per i suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”. Teniamolo oggi in mente.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”; “No, no”; il di più viene dal Maligno».
Già guardare una donna con desiderio significa commettere adulterio con lei. Il peccato, come anche le opere di bene, provengono dalle nostre interiori convinzioni, dall’orientamento che abbiamo impresso nel nostro cuore. L’azione che ne segue è solo la manifestazione esteriore di ciò che prima è maturato dentro di noi. I nostri occhi, definiti la finestra dell’anima, ci trasferiscono immagini e causano sensazioni che, se non filtrate dalla nostra coscienza • che deve operare una selezione • ci spingono all’azione cattiva, non conforme alla norma divina. Ecco perché il Signore arriva a dirci che, se il nostro occhio ci è motivo di scandalo, dobbiamo essere pronti anche a cavarlo pur di entrare nel regno dei cieli. L’inquinamento dell’anima è un fatto molto più debilitante della perdita di un nostro organo fisico, come l’occhio o la mano. Siamo così sollecitati a considerare con la migliore attenzione i valori del nostro corpo, pur meritevoli di cure e attenzioni, e quelli dello spirito, che dobbiamo conservare integro per la vita eterna. Viene da pensare che, ai nostri giorni, talvolta siano più affollati gli ambulatori dei medici che non i confessionali e le chiese. Spesso capita di vedere gente che si affanna più per la dimora terrena che non per quella definitiva e celeste. Soffriamo momenti di confusione e di capovolgimento dei valori, anche perché il nostro sguardo non è più assuefatto a svolgere con sapienza la dovuta introspezione dell’anima. C’è troppo chiasso intorno, e la fretta morde il nostro incedere nel mondo. Riflettere, meditare, esaminarsi interiormente è virtù di pochi. Forse anche per questo il discorso sulla fedeltà coniugale, per molti • come ai tempi di Cristo • non è più un valore. Diamo noi invece la buona testimonianza rendendo gloria a Dio per ogni bellezza creata.
Dopo quaranta giorni dalla Risurrezione, Gesù, vincitore del peccato e della morte, come aveva ripetutamente preannunciato ai suoi discepoli, sale glorioso e trionfante al cielo. “Vado a prepararvi un posto”, aveva detto loro. Verrebbe da pensare a una conclusione, a una fine, a un distacco o a un addio, ma non è così: Egli ci precede nella gloria, ma ci attende tutti nella stessa beatitudine eterna. Mai come oggi possiamo comprendere fino in fondo il significato che Gesù voleva dare alla parola “via” quando diceva: “Io sono la via, la verità e la vita”. La via è Cristo stesso, che ci indica il cielo come meta finale dell’esistenza umana, l’approdo verso cui tendere. È stato Lui a renderci possibile il ritorno al Padre: è il frutto della redenzione, il trionfo dell’amore di Dio per noi peccatori. Il cielo si riapre, e l’uomo ritrova la sua patria; rientra in comunione con il Padre e, con la forza dello Spirito Santo, vede alimentata la speranza nel possesso dei beni futuri. Oggi, per tutti i credenti, si innalza la preghiera di Cristo: Egli implora l’unità perfetta e la vera fraternità tra i suoi, chiede al Padre che tutti siano con Lui, che tutti possano contemplare la sua gloria, che tutti diventino testimoni dell’amore. Gesù ripropone ancora oggi la via del cielo, ci indica con chiarezza lo scopo ultimo della vita. A noi, ancora immersi nel tempo, parla di cielo, di eternità, di paradiso; cerca di distoglierci almeno un poco dalle cose della terra per farci contemplare i cieli aperti e la gloria di Dio. Desideriamolo quel posto promesso, desideriamolo davvero quel cielo, dove, con il Padre e nello Spirito Santo, Egli ci attende con la corona della vita eterna.
La festa della Visitazione, che prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II si celebrava il 2 luglio, è stata anticipata al 31 maggio per concludere il mese dedicato alla Madonna e armonizzarla meglio con la sequenza evangelica dell’anno liturgico, collocandola tra l’Annunciazione del Signore (25 marzo) e la nascita di San Giovanni Battista (24 giugno). I testi liturgici proposti alla nostra meditazione ci invitano ad ammirare lo spirito di carità di Maria verso la parente Elisabetta, anch’essa in attesa, ma anche il suo desiderio ardente di farsi missionaria del Signore che porta in grembo. La sua presenza nella casa di Elisabetta rende viva la profezia di Sofonìa: “Il Signore tuo Dio in mezzo a te è un salvatore potente”. L’incontro tra Maria ed Elisabetta è segnato da un’intensa gioia profetica, dove lo Spirito Santo agisce e rivela: Elisabetta, piena di Spirito Santo, riconosce in Maria la Madre del Salvatore e la proclama beata per la sua fede: “Beata te che hai creduto…”. Giovanni Battista, ancora nel grembo, esulta, e Maria, confusa e umile di fronte a un tale saluto, innalza il suo “Magnificat”, un canto di lode che esalta la misericordia divina, proclama le grandi opere del Signore e afferma con umiltà il proprio nulla. Maria, nel suo “Fiat” all’angelo, ha accolto la volontà di Dio con piena disponibilità, rendendosi umile serva del progetto divino. Con la sua fede semplice e salda, ha dato al mondo il Verbo incarnato, cooperando in modo unico e irripetibile al disegno della salvezza. In lei vediamo la prima discepola, colei che, per prima, ha risposto all’amore di Dio con totale fiducia, diventando modello perfetto di obbedienza e dedizione. In ciascuno di noi, Dio continua a compiere meraviglie; riconoscerle è il primo passo per lodare il Padre della misericordia, che non cessa di chiamarci a collaborare alla nostra e all’altrui salvezza.
Quante volte ci assale la tentazione di credere che coloro che vivono lontani da Dio e camminano per i propri sentieri, ignari di ogni norma e incuranti di qualsiasi legge, siano più felici di noi e godano della vera libertà. L’allegria del mondo, per quanto falsa possa apparire, ci affascina comunque. Il tutto e subito può persino dare l’illusione dell’onnipotenza. Se però proviamo a scrutare con maggiore intelligenza, non ci vuole molto a scoprire che, sotto le mentite spoglie di una superficiale allegria, si nasconde il vuoto di una profonda insoddisfazione. Gesù predice ai suoi: “Il mondo si rallegrerà, voi sarete afflitti”. Subito però aggiunge: “Ma la vostra afflizione si cambierà in gioia”. Solo nella prospettiva futura emergerà la verità. Il travaglio della vita è paragonato al travaglio del parto, che provoca momentanea sofferenza alla madre, ma poi la gioia della maternità fa dimenticare ogni dolore. È evidente che Gesù voglia ricordarci la sua crudelissima passione per farci comprendere e gustare la gioia della sua risurrezione. Il suo percorso ora è la nostra via: anche noi dobbiamo inevitabilmente portare i nostri pesi, anche quelli che ci feriscono e ci inducono al pianto, ma non possiamo e non dobbiamo dimenticare che quei pesi, portati con Cristo e offerti a Lui, diventeranno la nostra forza per risorgere. Con quei pesi costruiamo i nostri calvari: sono sacchi di terra arida e riarsa che, irrigati dal Redentore divino, si trasformano in terra fertile dove crescono alberi frondosi e fecondi. I sacchi di terra arida che invece restano sulle spalle degli uomini ignari di Cristo e della sua croce, diventano sempre più pesanti fino a farli crollare, trasformandosi così nella tomba buia di ciascuno: lì si annida la più profonda tristezza. È l’inferno costruito dalle mani dell’uomo. La nostra gioia, invece, si vive prima nella fede e nella speranza cristiana, poi nella patria beata. Nell’attesa, siamo chiamati a esercitare la virtù della pazienza e a nutrirci di comunioni con Cristo, così intense da anticipare sin da ora la gioia futura.
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «In verità, in verità io vi dico: voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia. La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia. Quel giorno non mi domanderete più nulla».
“Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia.” Solo alla luce della storia di Cristo e della sua Chiesa ci è dato comprendere il significato recondito di queste parole, che risuonano ancora come un paradosso, cariche di apparenti contraddizioni. Il pianto e l’afflizione, nella nostra esperienza umana, sono generati da un malessere interiore, dal sentirsi inadeguati di fronte agli impegni della vita, da tutto ciò che contrasta e ostacola le nostre migliori aspirazioni. E nessuno di noi, con le proprie forze, è in grado di tramutare la tristezza in gioia e l’afflizione in gaudio. Gesù, con discrezione, allude alla sua passione e morte, ma ci orienta verso la gioia della risurrezione, della sua e nostra Pasqua. Egli vuole ribadire che, misteriosamente e secondo un disegno arcano di Dio, tutta la fatica dell’uomo, il peso della vita e il dolore del mondo sono ormai definitivamente innestati nel sacrificio redentore di Cristo. Da Lui, liberati dal peccato, attingiamo la vera gioia e la salvezza definitiva. Ce ne danno testimonianza, dopo di Lui, la schiera innumerevole dei santi e dei martiri, compresi quelli dei nostri giorni.
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete». Allora alcuni dei suoi discepoli dissero tra loro: «Che cos'è questo che ci dice: "Un poco e non mi vedrete; un poco ancora e mi vedrete", e: "Io me ne vado al Padre"?». Dicevano perciò: «Che cos'è questo "un poco", di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire». Gesù capì che volevano interrogarlo e disse loro: «State indagando tra voi perché ho detto: "Un poco e non mi vedrete; un poco ancora e mi vedrete"? In verità, in verità io vi dico: voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia».