"Se un ribelle spento passa il testimone siamo pronti a prenderlo?" Questa è la domanda centrale del brano di Fronte Unico "L'ultimo respiro fa da testamento", una canzone che cita moltissimi personaggi storici che hanno segnato la storia del mondo attraverso la ribellione e la rivolta. In questo podcast li ricordiamo uno per uno, cercando di tratteggiarne un ritratto.
Il 5 Maggio 1981 muore un uomo nel carcere di Long Kesh, a Belfast. La sezione in cui muore è nuovissima, è stata realizzata solo 5 anni prima e viene chiamata Maze (che vuol dire labirinto), o anche H-Blocks, Blocchi H, perché è costituita da 8 edifici a un piano in cemento armato a forma di H. Il carcere di Long Kesh e la sezione «Maze» sono protagonisti fissi di tutte le canzoni di lotta dell'Irlanda del Nord; è là che il «Governo Autonomo Nordirlandese» («Home Rule Government») di Faulkner rinchiudeva i repubblicani e i militanti dell'IRA, è là che fu impiantato il lager degli internati. L'uomo di cui parliamo oggi non è morto lì, ma nell'ospedale della prigione, perché stava male, molto male. Era da 66 giorni in sciopero della fame e l'annuncio della sua morte dà il via a rivolte che durano diversi giorni in tutta l'Irlanda del Nord. L'uomo che muore il 5 Maggio 1981 si chiama Bobby Sands, ha 27 anni e da venticinque giorni è un membro del Parlamento di Westminster, sarà uno dei mandati più corti della storia. Lascia i genitori, i fratelli, una sorella e un figlio piccolo, Gerard, nato dal suo matrimonio finito durante il suo secondo periodo in carcere. Bobby Sands è anche un membro dell'IRA, l'esercito repubblicano Irlandese che lotta, anche con le armi, per la fine del dominio britannico in Irlanda del Nord e per la riunificazione dell'Irlanda. Altri nove uomini (6 dell'IRA e 3 dell'INLA, l'ala marxista) moriranno a causa degli scioperi della fame dopo Bobby Sands tra maggio e agosto del 1981. Al funerale di Bobby Sands 100.000 persone si schierano ai lati del percorso, dalla sua casa a Twinbrook, West Belfast, fino al cimitero cattolico di Milltown, dove sono sepolti tutti i caduti dell'IRA di Belfast.
Dedichiamo la prima puntata speciale di Se un ribelle spento alla Festa della Liberazione, che si celebra ogni 25 Aprile in Italia. Una festa fondamentale per la nostra repubblica, che celebra la liberazione dell'Italia dall'occupazione nazista e dal regime fascista. In molti si chiedono se abbia ancora senso festeggiare questa giornata, e credo che il fatto che siano in tanti a chiederselo sia una delle principali tesi che giustificano questa celebrazione, soprattutto in un momento storico dove i fascismi eterni descritti da Umberto Eco si stanno riproponendo in Italia, in Europa e nel resto del mondo. Soprattutto quando molti uomini politici in Italia cercano di equiparare la Resistenza alla Repubblica Sociale Italiana, cercando di trasformare la liberazione dal nazifascismo nella commemorazione dei caduti della guerra che ci fu in Italia tra l'8 Settembre del 1943 e il Primo Maggio del 1945. Cercheremo in questa puntata di ripercorrere le date fondamentali di questa guerra, di parlare di quello che ha significato la resistenza e di quello che può significare ancora per noi oggi il 25 Aprile. Sarà necessariamente una narrazione veloce e superficiale, perché è impossibile dare una lettura approfondita di un fenomeno così complesso nel tempo standard di una puntata di Se un ribelle spento. Cominciamo dalla scelta della data: il 25 Aprile è il giorno in cui, nel 1945, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) – il cui comando aveva sede a Milano ed era presieduto da Alfredo Pizzoni, Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini e Leo Valiani – proclamò l'insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti, indicando a tutte le forze partigiane attive nel Nord Italia facenti parte del Corpo Volontari della Libertà di attaccare i presidi fascisti e tedeschi imponendo la resa, giorni prima dell'arrivo delle truppe alleate. Il 25 Aprile è la data in cui si libera Milano; Bologna e Genova si erano già liberate rispettivamente il 21 e il 23 Aprile, mentre Venezia verrà liberata il 28. La resa definitiva delle forze nazifasciste all'esercito alleato, si avrà solo il 3 maggio 1945, come stabilito formalmente dai rappresentanti delle forze in campo durante la resa di Caserta firmata il 29 aprile 1945.
Con questa puntata andiamo al carcere di Charlestown, a Boston, la notte tra il 22 e il 23 Agosto 1927. Sotto le sue alte mura di mattoni scuri si è radunata una folla di migliaia di persone, controllate da tantissimi poliziotti in assetto da battaglia, con mitragliatrici e riflettori sui tetti delle case che circondano la prigione. La città è paralizzata, perché quel giorno è stato indetto uno sciopero generale, ed è dal mattino che si susseguono scontri che causano numerosi feriti e centinaia di arresti. Man mano che il sole tramonta la tensione sorge. Alla luce delle fotoelettriche aumentano i cori, gli slogan, le urla. Fino a mezzanotte, quando all'improvviso cala un silenzio totale. La folla alza gli occhi verso il carcere, anche se non lo vedono, nascosto dietro i mattoni scuri. Noi invece a differenza loro possiamo sapere cosa sta succedendo quando è appena cominciato il 23 Agosto 1927. C'è un uomo che entra nella stanza della sedia elettrica del carcere. Entra e guarda negli occhi tutti gli uomini presenti. Si siede sulla sedia elettrica, e quando finiscono di sistemare le cinghie e il casco ha ancora la forza per gridare: “Viva l'Anarchia!”. Il boia ha bisogno di due scariche elettriche per porre fine alla sua vita. Subito dopo entra un altro uomo, che è stato arrestato e condannato insieme al primo. I suoi folti baffi nascondono uno strano sorriso. Prima di venire legato alla sedia elettrica stringe la mano a tutti i guardiani e dice: “Voglio ribadire che sono innocente. Ho commesso i miei peccati, ma mai un delitto. Ringrazio tutti quelli che si sono battuti per dimostrare la mia innocenza”. Mentre gli calano il casco sul capo, aggiunge: “Desidero perdonare le persone che mi stanno facendo questo”. Anche per lui serviranno due scariche di corrente. Si conclude in meno di mezz'ora una delle più controverse storie giudiziarie degli Stati Uniti d'America, quella del processo a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici di origine italiana, durata sette anni e destinata a far parlare di sé ancora per decenni.
Un sabato di Agosto del 1954, nel paesino di Bois-Saint- Denis c'è un signore anziano di 75 anni che organizza una festa per i bambini del vicinato, come spesso fanno i nonni quando vivono da soli. Offre loro la merenda e quando la festa finisce torna dentro la sua modesta casa un po' isolata e comincia a scrivere una lettera ai suoi amici. “Ho vissuto un'esistenza piena di avventure e sventure, e mi considero soddisfatto del mio destino. Dunque, voglio andarmene senza disperazione, il sorriso sulle labbra e la pace nel cuore. Voi siete troppo giovani per apprezzare il piacere di andarsene in buona salute, facendo un ultimo sberleffo a tutti gli acciacchi e le malattie che arrivano con la vecchiaia. Ho vissuto. Adesso posso morire.” Poi un poscritto: “Vi lascio qui due litri di vino rosato. Brindate alla vostra salute”. Questo settantacinquenne accarezza il vecchio cane, un cocker di diciannove anni che si chiama Negro, cieco e sordo, poi gli fa un'iniezione di morfina, che lo uccide. Quindi ricarica la stessa siringa con una dose letale di morfina e se la inietta. Si distende sul letto, e si addormenta serenamente. Sorridendo. Questo vecchietto era stato in carcere per 25 anni, dal 1903 al 1928. Si chiamava Alexander Marius Jacob e che voi ci crediate o meno, è il vero Lupin, ladro gentiluomo, la fonte originale degli scritti di Maurice Leblanc e poi del famoso manga giapponese.
La nostra puntata di oggi comincia in Bolivia, a Vado del Yeso, nel tratto in cui il Rio Grande scorre incassato tra le rocce. È un luogo dove siamo già stati parlando del ribelle per eccellenza, Ernesto Guevara. Anche il periodo è lo stesso, perché in quel tratto del Rio Grande ci sono 9 guerriglieri della colonna di Guevara che cercano di guadare il fiume. Solo che sull'altra riva del guado di Puerto Mauricio, ad attenderli, ci sono i militari boliviani avvisati da un contadino, il delatore Honorato Rojas. In quel gruppo di guerriglieri c'è una donna bionda, smagrita e pallida ma ancora bellissima – così l'avrebbero descritta successivamente i militari – in pantaloni mimetici, scarponi anfibi, camicetta a righe bianche e verdi scolorita e lacera, zaino in spalla e fucile a tracolla. I militari li falciano sul bagnasciuga. Il corpo della donna verrà ritrovato solo una settimana più tardi dai soldati. Nel suo zaino trovano alcuni taccuini con liste di brani musicali, testi di canzoni popolari, un nastro con musiche della Bolivia orientale, pochi capi di vestiario e un piatto di alluminio con un foro di proiettile al centro. Le sue ossa verranno recuperate soltanto nel 1998, messe in una cassetta di legno pregiato avvolta in una barriera cubana e riportate a Cuba, dove verranno seppellite nel Mausoleo di Santa Clara accanto a quelle di Che Guevara e a tutti i compagni caduti nella tragica esperienza boliviana. La donna morta in Bolivia, la nostra ribelle spenta di oggi, ha 29 anni e si chiama Tamara Bunke, ma è diventata famosa con il nome di Tania la Guerrigliera.
ABologna c'è il porticato più lungo d'Europa; seicentosessantasei archi su colonne per quasi quattro chilometri, che collegano il centro storico con il santuario di San Luca, posto sulla cima di un colle, dove da secoli viene custodita l'immagine sacra della Madonna protettrice dei bolognesi. La strada parte dall'arco del Meloncello, incrociando via Saragozza e un'altra strada che risale verso nord che si chiama Via Irma Bandiera. Sotto quell'arco c'è una lapide, dedicata proprio ad Irma Bandiera. Recita: «Irma Bandiera Eroina nazionale 1915 – 1944 Il tuo ideale seppe vincere le torture e la morte La libertà e la giovinezza offristi Per la vita e il riscatto del popolo e dell'Italia Solo l'immenso orgoglio attenua il fiero dolore Dei compagni di lotta Quanti ti conobbero e amarono Nel luogo del tuo sacrificio A perenne ricordo posero» Irma Bandiera era una partigiana, un'operativa, non una staffetta. Il 7 Agosto 1944 aveva trasportato delle armi alla base della sua formazione a Castel Maggiore. La sera viene arrestata a casa dello zio, insieme ad altri due partigiani, e rinchiusa alle scuole di San Giorgio. Viene trasportata a Bologna, dove viene torturata per sei giorni e sei notti, i fascisti della Compagnia Autonoma Speciale, guidati dal Capitano Renato Tartarotti, arrivano anche ad accecarla con una baionetta. Irma non parla, non dice nulla. Il 14 Agosto 1944 alla fine la portano al Meloncello di Bologna, vicino alla casa dei suoi genitori, e la giustiziano con alcuni colpi di pistola, lasciando il corpo esposto per un'intera giornata, come monito. Viene portata all'Istituto di Medicina Legale di via Irnerio dove un custode, amico della Resistenza, scatta le foto del viso devastato dalle torture. In suo onore, nell'estate del 1944, una formazione di partigiani operanti a Bologna prenderà il nome di Prima Brigata Garibaldi “Irma Bandiera”. A lei verranno inoltre intitolate una brigata SAP (Squadra di azione patriottica) che operava nella periferia nord di Bologna ed un GDD (Gruppo di Difesa della Donna).
C'è un uomo in una stanza buia, nel manicomio di Rieti. È seduto, e batte ripetutamente il palmo della mano destra sulla gamba destra. Lo fa da anni. Dicono che la stoffa dei pantaloni si è consumata, a forza di quel gesto. Forse gli serve solo a far passare il tempo, a far passare la monotonia di quel luogo; forse si immagina di prepararsi a un nuovo assalto, contro le trincee nemiche come nella prima guerra mondiale. Il 17 Marzo 1942 quella mano smette di battere su quella gamba. Quello di Rieti non era il primo manicomio che lo imprigionava. Prima era stato a Montefiascone, e prima ancora a Camerino, dove viveva nel 1924. Qualcuno diceva che era pazzo. E forse era vero, perché ne avrebbe avuto motivo: il 31 Ottobre 1922, pochi giorni dopo la Marcia su Roma, era stato aggredito da alcuni fascisti armati di mazze che, colpendolo ripetutamente sulla testa, gli avevano provocato una commozione cerebrale, oltre ad una ferita alla regione parietale destra. Non si sarebbe più ripreso dall'aggressione subita. O forse era più semplicemente un modo per farlo sparire dalla circolazione, visto che suo fratello Epaminonda, medico cardiologo negli Stati Uniti, aveva tentato invano di farlo espatriare per poterlo curare. Richiesta che il regime fascista aveva sempre respinto. Il suo funerale per ordine della questura, che temeva il verificarsi di disordini, si svolge in forma privata. Riposa nel cimitero monumentale di Rieti. Il ribelle spento di oggi è Argo Secondari, capo degli Arditi del Popolo, che muore in quel manicomio, dopo 18 anni di prigionia, a 46 anni.
Nel museo della Guardia Civil a Madrid, come trofei di guerra, sono esposti tra gli altri un Mitra Thompson, una pistola semiautomatica Colt calibro 45 e un binocolo. Sono oggetti di una sola persona, che si chiama Francisco Sabaté, ma che gli anarchici spagnoli conoscono con il soprannome di El Quico. È stato l'anarchico più ricercato di tutta la spagna dal 1936, anno in cui Franco sale al potere, fino al giorno della sua morte, il 5 Gennaio 1960. Riescono a prenderlo solo dopo la più grande caccia all'uomo mai organizzata in Spagna, con uno spiegamento di forze immane. Pattuglie su tutti i passi dei Pirenei, posti di blocco su ogni strada, vie d'accesso ai paesi piantonate, squadre di pronto intervento dotate di jeep con mitragliera, cecchini appostati sui campanili e alle finestre dei piani più alti delle case coloniali. L'avevano individuato il 31 Dicembre 1959 nei pressi di Belasu, ma era riuscito a dileguarsi nella boscaglia con i quattro anarchici che stava scortando attraverso i Pirenei. Il 3 Gennaio trovano la casa in cui si nascondono, la circondano con cento uomini e la assaltano. Muoiono i quattro anarchici e i contadini che avevano dato riparo a El Quico. Lui riesce a fuggire di nuovo, anche se deve strisciare perché è ferito a una gamba. E scompare di nuovo. Riescono a prenderlo soltanto il 5 Gennaio a San Celoni, dove stava cercando il dottore del paese. La gamba è infetta e Francisco ha la febbre alta e la vista annebbiata. Non riesce più a fuggire, né a sperare di difendersi. Francisco Sabaté El Quico giace in un lago di sangue in mezzo alla strada. Forse è agonizzante, o forse già morto. Ma la Guardia Civil continua a sparare caricatori a bruciapelo, solo per fare scempio del suo corpo inerte.
È il 17 agosto 1944 e siamo a Ca' Cornio, vicino a Modigliana, un piccolo comune dell'Appennino Tosco Emiliano che adesso è in provincia di Forlì-Cesena. C'è una baracca, e all'interno della baracca ci sono quattro uomini e una donna. La donna è ferita, si chiama Iris Versari, e il giorno prima l'esplosione di un fucile Sten difettoso le ha colpito una gamba e l'ha costretta al riposo. Attorno alla baracca ci sono gli uomini scelti del Reparto Mussolini e la Prima Divisione Alpen Jager, circa trecento armati, avvisati dal traditore Franco Rossi che i principali partigiani della banda più ricercata di Faenza sono proprio lì, in quella baracca. Quando i fascisti e i tedeschi cercano di entrare si scatena una battaglia feroce fatta di spari e bombe a mano, ma stiamo comunque parlando di 5 contro trecento. L'unica via di scampo è il burrone su cui si affaccia una finestra sul retro, dal quale è possibile raggiungere il bosco alle pendici del monte e cercare di far perdere le proprie tracce. Ma Iris Versari non può scappare con la gamba ferita. E allora non vuole scappare nemmeno il suo compagno, che si chiama Sirio Corbari, nome di battaglia Silvio, ed è il capo della banda. Quando un fascista riesce a fare irruzione Silvio lo uccide, ma Iris coglie l'attimo per suicidarsi, l'unico modo per convincere Silvio a tentare di salvarsi. Così Corbari tenta la fuga insieme agli altri due partigiani, Adriano Casadei e Arturo Spazzoli. Dalla finestra si lanciano nel burrone e rotolano per i fianchi della collina, mentre fascisti e tedeschi aprono il fuoco su di loro. Arturo Spazzoli viene colpito più volte, ha le gambe sfracellate e una ferita al ventre. Adriano e Silvio arrivano sul fondo, Silvio ha entrambe le caviglie slogate. Adriano cerca di raggiungere gli alberi e coprire la ritirata del compagno, ma Sirio Corbari cade dall'argine del torrente e si frattura il cranio. Dalla ferita si vede la materia cerebrale. Adriano non ha più voglia di scappare, e decide di rimanere lì con Silvio. Li trovano così gli uomini del Battaglione Mussolini e i tedeschi della Prima Divisione Alpen Jager. Finiscono Arturo Spazzoli con un colpo di pistola, e costringono Corbari e Casadei a seguirli fino a Castrocaro. È lì che li impiccano. Corbari muore senza aver ripreso conoscenza. Casadei si infila da solo il cappio. I fascisti tirano la corda con eccessiva foga, e si spezza. Dopo qualche minuto la corda è pronta di nuovo, e Adriano Casadei commenta in dialetto emiliano: “Siete marci anche nella corda”. Il pomeriggio i corpi vengono trasferiti a Forlì e impiccati per la seconda volta in Piazza Saffi, come monito per la cittadinanza. Il giorno dopo vengono impiccati anche i cadaveri di Arturo Spazzoli e Iris Versari.
Il 22 Marzo 2008 muore un uomo nella clinica di San Donà di Piave, alla vigilia di Pasqua. Con lui ci sono le sorelle e i nipoti, e nessun altro. Aveva quasi 84 anni e si è spento per un malore improvviso, una malattia che chiude una vita, come succede a tanti. Anche il funerale sembra un funerale come tanti, il funerale di un uomo anziano che ha tanti conoscenti, tanti parenti, ma che è normale che muoia, magari dopo una vita lunga e felice. Al funerale ci sono i vessilli dell'ANPI, l'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia, perché quest'uomo ha combattuto nella resistenza dopo l'armistizio del 1943. Come tanti, fortunatamente, che sono nati nei suoi anni e in quel periodo erano quasi ventenni. Ma qualcosa di strano c'è. C'è una bandiera Cubana, che quell'uomo portava sempre con sé. Ancora più strano è che ci sono quattro gigantesche corone di rose rosse. Ogni corona ha un nastro bianco con una dedica scritta a mano, in rosso. Le quattro dediche dicono: A Gino, dall'Ambasciata di Cuba A Gino, dai suoi compagni del Granma A Gino, da Raul Castro Ruz A Gino, da Fidel Castro Ruz
In provincia di Piacenza ci sono tra i poli logistici più importanti di Italia. Tutti i beni che vengono stoccati e consegnati nel nostro paese passano da lì, da quelle piattaforme logistiche. E dai piccoli furgoni dei lavoratori che li consegnano. Tra questi corrieri c'è la GLS, che dà in appalto alcune strutture logistiche ad altre aziende, come la Seam. I piccoli lavoratori, che guidano quei furgoni che ci portano a casa la merce che acquistiamo online sono in sciopero, e stanno facendo un picchetto davanti all'azienda. C'è un tir nel piazzale dell'azienda. Che ha caricato della merce adesso deve andarsene a distribuirla. Ma c'è il picchetto, e non riesce a passare. Sono le 23:45 del 14 Settembre 2016. Un impiegato dell'azienda lo incita a forzare il picchetto, gli urla: «Parti! Vai!». Il camion parte, va. Parte all'improvviso, percorre pochi metri, abbozza una virata a destra, frena subito. Una manciata di istanti e si vede una dozzina di persone precipitarsi alla testa del temibile autotreno. Poi in molti tornano indietro, qualcuno si mette le mani nei capelli. Probabilmente urlano, vanno avanti e indietro. Sono disperati. Sull'asfalto è rimasto un operaio egiziano di 53 anni, che si chiama Abd El Salam Amed El Danf.
Siamo a Chicago, ed è il 4 Dicembre 1969. Siamo vicini al Lago Michigan, in una zona verde con parecchi parchi che si chiama Monroe Street. È molto tardi, sono le 4 di notte, quando 14 uomini pesantemente armati si avvicinano ad un appartamento. Otto si fermano davanti all'ingresso principale, sei vanno verso il retro. E aspettano. Alle 4:45 scatta l'irruzione: un uomo di colore che sta facendo la guardia viene freddato da alcuni proiettili al petto, che lo uccidono immediatamente. Dal fucile che ha in mano parte un solo colpo, dovuto ad uno spasmo involontario mentre muore. Il commando continua a sparare verso un appartamento, lo bersaglia con un centinaio di proiettili e poi entra. Nell'appartamento ci sono quattro uomini e una donna incinta di 9 mesi tutti afroamericani. Un uomo in particolare nonostante sia ferito da alcuni proiettili alle spalle sembra intontito, non reagisce, è come se si fosse drogato pesantemente. Il commando armato lo trascina giù dal materasso, lo porta alla soglia della camera e gli spara due colpi a bruciapelo in testa. Poi dà fuoco all'appartamento, costringendo i tre uomini rimasti ad arrendersi prima di morire bruciati vivi. Solo che i tre uomini vengono arrestati e non uccisi, perché il commando armato non è la mafia o qualche organizzazione criminale. Il commando che assalta quell'appartamento è composto da agenti di polizia di Chicago, a inviarli è stato il procuratore Procuratore della Contea di Cook Edward Hanrahan, e quell'appartamento è abitato da alcuni membri di un'organizzazione rivoluzionaria statunitense afroamericana che si chiama Black Panther, Pantere Nere. L'uomo morto che era di guardia all'ingresso si chiama Mark Clark, ed è un membro delle Pantere Nere. L'uomo che sembra drogato non è un drogato, è stato drogato. È l'obiettivo del raid della Polizia di Chicago, e a sedarlo è stato un infiltrato dell'FBI nell'organizzazione che si chiama William O'Neal, che alla cena della sera prima gli ha fatto assumere a sua insaputa una dose di barbiturici. L'uomo giustiziato dalla polizia di Chicago è giovane, la settimana prima aveva assunto il ruolo di portavoce nazionale e capo dello Staff del Comitato Centrale delle Pantere Nere. Si chiama Fred Hampton.
C'è una foto che in tanti ricordano, diventata famosa e che nessuno una volta vista dimentica mai. In questa foto in bianco e nero un AK-47, un fucile mitragliatore di fabbricazione russa ideato da Kalashnikov, da cui spesso prende il nome, occupa tutta la diagonale della fotografia, dall'angolo in basso a sinistra a quello in alto a destra. Lo impugnano due braccia coperte a metà dalle maniche di una camicia scura arrotolate sui gomiti. Il volto del soggetto di questa foto è concentrato, sta mirando a qualcosa ed è pronto a sparare. Ma non ha il volto di un criminale, non sembra un assassino e nemmeno un soldato. Porta gli occhiali, e ha dei capelli corti che cominciano ad ingrigire, acconciati come andava in quegli anni, i primi anni Settanta, soprattutto in Sud America. Siamo in Cile, nella capitale Santiago, ed è l'11 Settembre 1973. Prima dell'11 Settembre 2001 è una data storica in America. Perché in Cile stanno facendo un colpo di Stato per deporre il presidente in carica e il suo governo socialista. A comandare il colpo di Stato è un generale, si chiama Augusto PInochet, e negli ultimi mesi ha portato il Cile sull'orlo di una guerra civile. Scioperi, un altissimo tasso di inflazione ma soprattutto la mancanza di materie prime dovute al boicottaggio degli Stati Uniti d'America hanno aumentato le fila degli oppositori di Allende. Boicottaggio che peraltro serviva proprio a far deporre Allende e a instaurare una dittatura. Pinochet marcia su Santiago, bombarda La Moneda, il palazzo del governo, e arresta o uccide tutti gli oppositori del Golpe che cercano di fermarli. 11 Settembre 1973. Mentre il generale Pinochet avanza verso il palazzo, il presidente del Cile, Salvador Allende, fa un discorso alla radio. Dice: «È possibile che ci annientino, ma il domani apparterrà al popolo, apparterrà ai lavoratori. L'umanità avanza verso la conquista di una vita migliore. […] Lavoratori della mia Patria, ho fede nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l'uomo libero, per costruire una società migliore.» Finito il discorso il presidente si rinchiude all'interno degli uffici della Moneda insieme alla sua guardia personale, la sua segretaria che si chiama Miria Contreras e un uomo che sarebbe poi diventato un futuro scrittore, Luis Sepulveda. Nonostante cerchino di organizzare la sua fuga, il presidente non vuole scappare. Non ha mai usato un'arma, ma ne ha una in ufficio, un fucile mitragliatore AK-47, che molti chiamano Kalashnikov per il nome del suo inventore. Gliel'ha regalato un suo amico, che si chiama Fidel Castro. Lo imbraccia, va a una finestra, e mira. Perché il soggetto di quella foto che abbiamo visto prima è proprio lui: Salvador Allende, presidente del Cile.
Siamo a Vallegrande, in Bolivia, ed è il 9 Ottobre 1967. È un obitorio e ci sono molte persone, sono giornalisti, convocati per vedere il cadavere di un uomo e testimoniarne la morte. La foto che viene presa in quel momento è quella di un uomo con capelli e barba lunghi, con gli occhi aperti e lo sguardo verso l'infinito, con inquadratura a mezzo busto leggermente dal basso e parallela al torace nudo. Una fotografia che assomiglia molto a un quadro del pittore Andrea Mantegna, che si chiama Il Cristo Morto. L'uomo era stato catturato dall'esercito boliviano il giorno prima assieme ad altri guerriglieri in un canalone, che qui viene chiamato quebrada. Quebrada del Yuro, a pochi chilometri dal villaggio di La Higuera. Si era arreso dopo essere stato ferito alle gambe, ma era già più di un mese, da fine Agosto, che lui e i suoi erano rimasti soli, con poche informazioni e senza viveri, dopo che l'esercito boliviano aveva annientato il resto dei suoi uomini a Puerto Mauricio, sul Rio Grande. A guidare le operazioni contro questo piccolo gruppo di ribelli, di guerriglieri, c'è Felix Rodriguez, un agente della CIA che qui conoscono come Felix Ramos. Ma cosa ci fa un agente della CIA in Bolivia? Chi è quest'uomo che sembra il Cristo Morto del Mantegna? Sicuramente non un uomo qualunque. Sono sorte leggende di ogni tipo su quest'uomo, un uomo che è diventato molto spesso il simbolo della Rivoluzione, quella con la “R” maiuscola, talmente simbolo da perdere anche in parte la sua carica di ribellione, diluita nella propaganda pop che ne è stata fatta da allora ad oggi. Perché quell'uomo catturato in Bolivia è nato in Argentina, ma è famoso in tutto il mondo per aver condotto al successo la rivoluzione cubana insieme a Fidel Castro: quell'uomo si chiama Ernesto Guevara, noto anche con il soprannome che gli era stato dato per l'intercalare che usava molto spesso quando parlava appassionato: El Che.
Jesus Guajardo è un soldato messicano agli ordini di Pablo Gonzales, il generale che sta combattendo nel sud del Messico contro i ribelli al presidente in carica, Carranza. Ha ricevuto l'ordine di iniziare le operazioni contro i ribelli nelle montagne attorno a Huautla, ma non le inizia. Resta fermo con la sua guarnigione in una Cantina, perché Guajardo sta pensando di cambiare bandiera, e di unirsi ai ribelli che qui si chiamano Zapatisti, perché a guidarli è un rivoluzionario famoso come Pancho Villa, che si chiama Emiliano Zapata. Il generale Pablo Gonzales però scopre che Guajardo non ha eseguito i suoi ordini, e lo arresta. Il 21 Marzo 1919, la lettera di Zapata che chiede a Guajardo di cambiare definitivamente bandiera viene intercettata da Gonzales, che decide di utilizzarla per realizzare un piano che portasse alla cattura e all'uccisione di Zapata. Obbliga Guajardo a scrivere una lettera a Zapata in cui lo avvisa di portare alla causa Convenzionista tutti i suoi uomini. Dopo una finta battaglia alla guarnigione di Jonacatepec, Guajardo chiede un incontro a Zapata alla Hacienda de San Juan, a Chinameca. È il 10 aprile 1919. Quando Zapata arriva alla hacienda, gli uomini di Guajardo lo crivellano di proiettili, portano il suo corpo a Cuautla, dove viene fotografato, esposto per 24 ore e poi sepolto. Pablo González voleva che il corpo fosse fotografato, in modo che non ci fossero dubbi sul fatto che Zapata fosse morto, per cercare di dimostrare alle élite messicane e agli interessi statunitensi che il presidente in carica Carranza fosse “l'unica alternativa praticabile sia all'anarchia che al radicalismo”.
José Doroteo Arango Arámbula è un proprietario terriero messicano, anche se non c'è nulla di più distante dal tipico latifondista messicano dei primi anni del Ventesimo Secolo. La fattoria gli è stata assegnata dallo stato messicano, perché José Doroteo è stato generale, anche se di un esercito non proprio regolare. Il 10 di luglio del 1923 va a Parral, città del Chihuahua nel nord del Messico, accompagnato da due uomini di scorta. Va a fare il padrino di battesimo del figlio di un suo uomo. Decide di trattenersi anche qualche giorno in più, perché a Parral c'è Manuela Casas, una donna con cui José intrattiene una relazione. Il 20 Luglio 1923 riparte in auto verso Canutillo, dove c'è la sua fattoria. Ma non ci arriverà mai. Mentre l'auto esce da Parral, si sente un grido: “Viva Villa”. È il segnale convenuto, parte una raffica di colpi dalle finestre del paese verso l'auto. Muore il suo segretario personale, e muoiono anche altri due passeggeri. Muore anche José Doroteo Arango Arámbula, che però il mondo conosce con un altro nome: Francesco Villa, detto Pancho.
Il pomeriggio del 5 Luglio 2016 è caldo e afoso a Fermo. Anche se la brezza che sale dal mare, dal vicino Porto San Giorgio, riesce a mitigarlo un po'. E il mare si vede da Viale XX Settembre, il viale che costeggia il centro storico della città, da un belvedere attrezzato con tre panchine. Sul viale sta passando una coppia di profughi nigeriani fuggiti dalle violenze di Boko haram, ospiti del vicino seminario in attesa del riconoscimento dell'asilo politico. Stanno andando in centro a fare delle compere, la donna si ferma ad una fontanella d'acqua a bere. Dalle panchine del belvedere cominciano a piovere insulti verso la coppia. L'uomo nigeriano non capisce quasi nemmeno una parola di italiano, ma la sua compagna, Chiniery, ne conosce abbastanza da capire il senso delle parole che gli vengono urlate. Ne capisce soprattutto due, che vengono ripetute più volte: “Scimmia Africana”. Le traduce per il suo compagno, che va verso la panchina dove è seduto l'insultatore. Quello che succede a quel punto non si sa con certezza. Quello che è sicuro è che Emmanuel Chidi Nnamdi, rifugiato nigeriano di 36 anni, resta sull'asfalto privo di sensi, la sera entra in coma irreversibile e il giorno dopo muore. I protagonisti di questa vicenda sono tutti noti. Emmanuel Chidi Nnamdi, ragazzo nigeriano, la vittima. Amedeo Mancini, ultras della Fermana, che ha insultato Chiniery e poi ha aggredito Emmanuel. Ma c'è anche un palo della segnaletica stradale, che diventa all'improvviso protagonista. Non della ferita mortale al cranio di Emmanuel, ma protagonista della lotta mediatica che si sviluppa immediatamente su questa vicenda. Perché dal momento in cui Emmanuel cammina aggressivo verso Amedeo al momento in cui Emmanuel è a terra privo di sensi sembrano esserci due realtà… Ma solo una è vera.
Il 20 Marzo 1994 a Mogadiscio Nord, in Somalia, c'è un pick-up bianco con delle strisce arancio scuro sulle fiancate, quasi rosse. Corrono orizzontali anche lungo tutto il cassone, aperto, fino alla scritta sul retro: Toyota. Quel giorno di Marzo, intorno alle 15 ora locale (in Italia siamo due ore indietro) ci sono tantissime persone che si muovono frenetiche attorno al pickup. Estraggono due corpi: un uomo dal sedile davanti, del passeggero. Una donna dal sedile posteriore. Li caricano su un altro pickup di proprietà di un imprenditore italiano che si chiama Giancarlo Marocchino e li portano al porto Vecchio, sempre a Mogadiscio Nord, dove vengono scortati sulla nave Garibaldi della Marina Militare Italiana intorno alle 16:00, perché i due corpi sono di due persone italiane. L'ufficiale medico redige anche il certificato di morte della donna. Un paio di ore più tardi arrivano anche gli effetti personali dei morti, prelevati dalla camera 203 e 204 dell'Hotel Sahafi a Mogadiscio Sud. Li hanno raccolti due giornalisti, Gabriella Simoni di Studio Aperto e Giovanni Porzio di Panorama, e vengono anche filmati da un operatore della televisione svizzera che si chiama Vittorio Lenzi mentre lo fanno. Hanno messo nelle borse e nelle valigie anche una ventina di VHS e cinque taccuini pieni di appunti. Perché i due morti sono italiani, ma non solo: l'uomo si chiama Miran Hrovatin, ha 59 anni, vive a Trieste ed è un cameraman freelance. La donna ha 33 anni, si chiama Ilaria Alpi, è di Roma, ed è un'inviata del TG3. Noi ci salutiamo e ci risentiamo alle 8:00 di Lunedì prossimo. Se un ribelle spento passa il testimone, siamo pronti a prenderlo?
Il 3 Febbraio 2016 viene ritrovato un corpo nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani al Cairo, in un fosso lungo l'autostrada che collega la capitale egiziana ad Alessandria, sotto il cavalcavia Hazem Hassan. Il corpo è nudo e presenta evidenti segni di tortura: contusioni e abrasioni in tutto il corpo come quelli che si sviluppano dopo un lungo pestaggio. Lividi estesi compatibili con lesioni da calci e pugni. Anche da un bastone. Nonostante il corpo sia in queste condizioni e non vengano trovati documenti di alcun tipo, le autorità egiziane non hanno alcun dubbio: il corpo è quello di un ragazzo italiano che era stato rapito qualche giorno prima, il 25 Gennaio. Aveva 28 anni e si chiamava Giulio Regeni. Il giorno successivo viene confermato che il corpo è quello di Giulio Regeni. Il direttore dell'Amministrazione generale delle indagini di Giza dice che le indagini preliminari parlano di un incidente stradale, nonostante il corpo presenti evidenti segni di tortura che vengono rilevate anche dal procuratore egiziano. Il 9 Febbraio dal Cairo cominciano i depistaggi: per allontanare un coinvolgimento del governo, dopo l'ipotesi dell'incidente stradale, il regime di Al-Sisi fa pubblicare sui media amici le ipotesi più disparate: si parla di un omicidio maturato nel mondo della droga, quando invece l'autopsia ha stabilito che Giulio non ha mai fatto uso di sostanze stupefacenti. Si parla di una rapina, si allude alle frequentazioni di Giulio. Voci che però vengono immediatamente messe a tacere con i fatti, in Italia. L'attivista per i diritti umani Mona Seif scrive che l'agente investigativo in Egitto a cui è stato affidato il caso di Regeni è Khaled Shalabi, condannato dal tribunale penale di Alessandria nel 2003 per aver falsificato un rapporto di polizia e aver torturato a morte un uomo. Il 24 Marzo 2016 il ministero dell'Interno egiziano annuncia che sono stati uccisi cinque sequestratori legati alla morte di Regeni. Nell'abitazione della sorella del capobanda sarebbe stata trovata una borsa con all'interno i documenti di identità e gli effetti personali del ricercatore italiano. Il ministro dell'Interno egiziano pubblica sui social la notizia e le foto dei documenti di Giulio e di altri oggetti ben disposti su un vassoio di argento (tra questi degli occhiali femminili e un pezzo di hashish). Si scoprirà poi che le cinque persone uccise erano innocenti ed erano state utilizzate per realizzare un depistaggio raffazzonato e molto poco credibile. Visto che l'Egitto non risponde alle richieste di invio di documentazioni, non collabora con gli investigatori italiani inviati al Cairo per le indagini e realizza depistaggi invece di aiutare la ricerca della verità, l'8 Aprile 2016 l'Italia ritira l'Ambasciatore dall'Egitto. L'episodio di oggi di Se un ribelle spento è un modo semplice per chiedere ancora, a gran voce, Verità per Giulio Regeni.
Siamo a 25 km da Tbilisi, in Georgia. Non ci sono luci, è notte; la notte tra il 15 e il 16 Ottobre 2000. È una stradina come tante, una strada che parte da Tbilisi e va verso il confine con l'Armenia. Una strada come tante, ma c'è una differenza. Su quella stradina di campagna c'è il corpo di un uomo. Non è un cittadino georgiano, ma è un italiano. Probabilmente un turista. La polizia georgiana pensa a un brutto episodio di criminalità, crede di averne la conferma quando raggiunge la casa della vittima, a Tbilisi. Quando comunicano la notizia all'Italia però qualche dubbio comincia a nascere. Il corpo ritrovato nella campagna di Tbilisi non è un turista. È un reporter freelance che lavora molto spesso per Radio Radicale. Sui suoi documenti non c'è scritto “Giornalista” perché non ha mai voluto iscriversi all'ordine. Ha 40 anni, e si chiama Antonio Russo Nel suo ultimo intervento pubblico Antonio Russo aveva parlato della possibilità che in Cecenia si utilizzassero proiettili all'uranio impoverito, causando oltre alle morti dirette degli spari anche danni all'ambiente. In una telefonata alla madre parlava di una videocassetta che mostrava torture e violenze dei reparti militari russi ai danni della popolazione cecena. Antonio Russo non era esattamente un tipo da scrivania. Aveva raccontato direttamente dai territori di cui stava parlando, aveva sempre scelto di mescolarsi: in Ruanda e Burundi durante i massacri hutu e tutsi; in Algeria, quando uomini, donne e bambine venivano sgozzati; a Sarajevo, quando i cecchini freddavano i civili al mercato. Radio Radicale l'aveva inviato anche in Kosovo, dove – unico giornalista occidentale presente nella regione durante i bombardamenti NATO – rimase fino al 31 marzo 1999 per documentare la pulizia etnica contro gli albanesi cossovari. Nel corso di quelle settimane collaborò anche con altri media e agenzie internazionali. In quell'occasione fu protagonista di una rocambolesca fuga dai rastrellamenti serbi, unendosi a un convoglio di rifugiati kosovari diretto in treno verso la Macedonia. Il convoglio si fermò durante il percorso e Antonio Russo raggiunse Skopje a piedi: di lui non si ebbero notizie per due giorni, nei quali lo si diede per disperso. Il materiale di quella fuga rocambolesca non venne mai venduto a nessuno, ma consegnato al Tribunale sulla ex-jugoslavia, per documentare la pulizia etnica dei generali di Milosevic. Marco Pannella lo aveva definito «Un radicale che fa il giornalista, non un giornalista che fa il radicale». Il suo nome compare nella lapide dei martiri ad Arlington, nel museo della stampa di Washington, assieme a quello di altri giornalisti scomparsi in servizio. Ci risentiamo alle 8:00 di Lunedì prossimo. Se un ribelle spento passa il testimone, siamo pronti a prenderlo?
A Roma all'angolo tra ponte Garibaldi e Piazza Belli c'è una lapide, che è stata posta da alcune femministe. Recita: “…Se la rivoluzione d'ottobre fosse stata di maggio se tu vivessi ancora se io non fossi impotente di fronte al tuo assassinio se la mia penna fosse un'arma vincente se la mia paura esplodesse nelle piazze coraggio nato dalla rabbia strozzata in gola se l'averti conosciuta diventasse la nostra forza se i fiori che abbiamo regalato alla tua coraggiosa vita nella nostra morte almeno diventassero ghirlande della lotta di noi tutte, donne se… non sarebbero le parole a cercare di affermare la vita ma la vita stessa, senza aggiungere altro”. La lapide è stata posta poco lontano da dove, il 12 Maggio 1977, viene colpita da un proiettile la studentessa di 19 anni Giorgiana Masi. Il 12 Maggio 1977 in Piazza Navona a Roma si tiene un sit-in organizzato dal Partito Radicale e dalla Sinistra Extra-Parlamentare per la raccolta di firme per organizzare alcuni referendum e per celebrare il terzo anniversario del referendum sul divorzio. Ci sono tantissime manifestazioni in quegli anni, ma questa è particolare. È particolare perché a Roma non si fanno manifestazioni dal 21 Aprile 1977, quando una sparatoria scoppiata tra Autonomia Operaia e polizia si è conclusa con la morte dell'agente Settimio Passamonti. Anche il 25 Aprile non è stato celebrato. L'unica eccezione è stata fatta per il Primo Maggio. Il Partito Radicale vuole fare una festa per celebrare il terzo anniversario per il referendum sul divorzio, il suo più grande risultato politico fino a quel momento, ma vuole anche combattere contro il decreto che impedisce le manifestazioni, creato da Francesco Cossiga, Ministro dell'Interno, dopo gli scontri del 21 Aprile. Si vogliono anche raccogliere firme, quel giorno, credendo che nemmeno un decreto può impedire la libertà di espressione dei cittadini sulla loro vita politica e sociale. Referendum importanti, come quello sul diritto all'aborto e l'abolizione della Legge Reale. Fronte Unico, L'ultimo respiro fa da testamentoSe un ribelle spento passa il testimone, siamo pronti a prenderlo?
Il 22 Novembre 1975 a Roma c'è una grossa manifestazione che sfila per le strade. L'obiettivo del corteo è quello di chiedere allo Stato Italiano di riconoscere la Repubblica Popolare dell'Angola, che si è appena liberata dal colonialismo portoghese. All'altezza di Via Labicana una decina di manifestanti si staccano per compiere un'azione dimostrativa contro l'Ambasciata dello Zaire in Via Labicana, regime che sta aggredendo attivamente l'Angola. Arrivati in Largo Mecenate, al gruppo sembra di essere caduti in trappola. Un folto gruppo polizia li sta aspettando e appena li vede urla “Eccoli”. E comincia a sparare ad altezza uomo. Il gruppo lancia alcune molotov per coprirsi la fuga e comincia a correre. Nonostante si stiano allontanando, la polizia continua a sparare, come se fosse il tiro al bersaglio. Due giovani vengono colpiti di striscio alla testa ma riescono a non fermarsi e fuggono. Uno di loro, Fabio Agostini, curato fuori dalle strutture pubbliche per evitare l'arresto, si suiciderà due anni dopo, nel Settembre del 1977. Un terzo ragazzo non è così fortunato. Crolla a terra colpito alla schiena. È un militante di Lotta Continua, frequenta l'ITIS Armellini e ha 18 anni. Si chiama Piero Bruno L'omicidio di Piero Bruno è figlio della Legge Reale, e grazie a questa norma resterà impunito. Nessuno dei membri delle forze dell'ordine presenti, agli ordini del vicequestore Ignazio Lo Coco, verrà arrestato. Erri De LucaC'erano i fascisti, venti anni fa. E la gente chiedeva Zaire, Angola, cosa sono? Poi trovava la risposta non in televisione, ma in casa, perché in ogni famiglia c'era almeno uno di questi ragazzi comunisti e se non c'era, peggio per chi non l'aveva, perché quella era la parte migliore della gioventù di questo paese, dal dopoguerra in avanti. La parte migliore compresa quella che è andata alla malora con il terrorismo e con l'eroina. Ci risentiamo alle 8:00 di Lunedì prossimo. Se un ribelle spento passa il testimone, siamo pronti a prenderlo?
Il 30 Settembre 1977 a Roma, un gruppo di venti studenti di sinistra ha organizzato un volantinaggio nel quartiere della Balduina, roccaforte dell'MSI, il Movimento Sociale Italiano. Il volantinaggio viene organizzato perché il giorno prima una ragazza di 19 anni, Elena Pacinelli, intorno alle 22.30, a Piazza Igea, era stata colpita da una raffica di spari esplosi da una Mini Mirror su una panchina dove era seduta con alcuni “compagni”. I medici che visitarono Elena evidenziarono, oltre la gravità delle ferite, anche un male incurabile in stato avanzato. Dopo mesi di sofferenze la Pacinelli morì. Un suo amico era scampato invece al peggio. La borsa a tracolla gli aveva fatto da scudo protettivo. Proprio per questa aggressione fascista gli studenti stanno volantinando in uno dei quartieri più fascisti di Roma. Partono da Via Pietro Pomponazzi nel quartiere Trionfale e risalgono Viale delle Medaglie d'Oro fino al numero 128c, dove c'è una sezione del Movimento Sociale Italiano. I fascisti escono e cominciano a lanciare sassi contro gli studenti, che sono costretti a retrocedere di duecento metri, fino alla pompa di benzina all'incrocio tra Viale delle Medaglie d'Oro e Via Marziale. C'è tantissima polizia in Viale delle Medaglie d'Oro. C'è anche un blindato, che copre l'avanzata dei fascisti verso la pompa di benzina. Quando arrivano a tiro, sparano sugli studenti. Un colpo ferisce di striscio il gestore della pompa, Giuseppe Marcelli. Un altro colpisce alla nuca uno degli studenti, che morirà prima di raggiungere l'ospedale. Si chiamava Walter Rossi, aveva vent'anni.
Siamo a Rafah, nella striscia di Gaza. È il 16 Marzo 2003. L'esercito israeliano sta demolendo gli edifici e la vegetazione lungo il confine. Il fatto che gli edifici siano abitati è un dettaglio di una certa importanza, ma l'esercito israeliano non sente ragioni. Secondo loro quelle demolizioni servono a scoprire le bombe e a distruggere i tunnel dei contrabbandieri. Operazioni che secondo gli Israeliani in passato hanno avuto successo, perché hanno demolito le case degli attentatori suicidi e hanno così disincentivato le attività terroristiche. Da mesi le operazioni dell'esercito israeliano sono disturbate da un'organizzazione che si chiama ISM, acronimo di International Solidarity Movement. È un'associazione statunitense non violenta che si pone l'obiettivo di sostenere la causa palestinese nel conflitto tra Israele e Palestina. Tra gli attivisti dell'ISM c'è una ragazza che si chiama Rachel Corrie. Rachel era partita dagli Stati Uniti il 18 gennaio 2003. Arrivata nella Striscia di Gaza aveva frequentato per due giorni un corso di addestramento sulle filosofie e le tecniche di resistenza non violente, prima di cominciare a partecipare alle azioni dell'ISM. Rachel Corri nasce il 10 Aprile 1979 nella città di Olympia, la capitale dello stato di Washington. È la minore di tre fratelli, figlia di Craig e Cindy Corrie, una famiglia della middle class. Dopo il diploma alla Capital High School, Rachel si iscrive all'Evergreen State College, sempre a Olympia, dove segue diversi corsi di arte. Si prende un anno sabbatico per lavorare come volontaria nel Washington State Conservation Corps e con l'ISM lavora per tre anni come volontaria facendo visita a pazienti con malattie mentali. Roger Waters, The most beautiful girl“Potrebbe essere stata la più bella ragazza del mondo La sua vita si è spenta come un bulldozer che frantuma una perla” Ci salutiamo e ci risentiamo il prossimo Lunedì alla stessa ora. Se un ribelle spento passa il testimone, siamo pronti a prenderlo?
In Piazza del Nettuno a Bologna c'è una targa. Sopra c'è scritto: “Bologna di popolo congiuntamente onorando i suoi figli immolatisi nella ventennale lotta antifascista, con questa pietra consacra nei tempi Anteo Zamboni, per audace amore di libertà. Il 31.10.1926 qui trucidato, martire giovanetto, dagli scherani della dittatura”. La targa ricorda un ragazzo che non ha ancora compiuto sedici anni. E che quel giorno ha cercato di uccidere Benito Mussolini, sparandogli con una pistola e mancandolo di poco. A Bologna è la sera del 31 Ottobre 1926. È Domenica, ed è prevista una grande festa per le strade per celebrare il quarto anniversario della nomina a primo ministro di Benito Mussolini, in seguito alla Marcia su Roma. Il giorno prima Mussolini aveva anche inaugurato lo Stadio Littoriale, il primo vero e proprio stadio italiano; stadio che dopo la guerra diventerà Stadio Comunale e nel 1983 otterrà il nome con cui lo conosciamo adesso: Renato Dall'Ara. Alla fine delle celebrazioni Leandro Arpinati, storico fascista bolognese, guida la macchina scoperta che porta Mussolini alla stazione; l'automobile arriva da via Ugo Bassi, dall'Archiginnasio, e sta svoltando a destra in Via Indipendenza. Dal portico che fa angolo tra le due vie parte un colpo di pistola. il proiettile colpisce il cordone dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro che Mussolini indossa a tracolla, perfora il bavero della sua giacca, attraversa il cappello a cilindro del podestà Umberto Puppini e si conficca nell'imbottitura della portiera dell'automobile. Il primo a reagire è un tenente del 56° fanteria, che trova subito l'attentatore e lo blocca. Il nome del tenente è Carlo Alberto Pasolini, il padre di Pier Paolo. A raggiungere l'attentatore sono subito dopo gli squadristi di Leandro Arpinati e gli arditi milanesi capitanati da Albino Volpi, che abbiamo già conosciuto nella precedente puntata come i rapitori e gli uccisori di Matteotti. L'attentatore fermato dal tenente Pasolini è poco più di un ragazzo, deve ancora compiere sedici anni, ma non importa. I fascisti lo assalgono e lo linciano, uccidendolo con quattordici pugnalate. Anteo Zamboni fa parte di quella che Palmiro Togliatti ha definito “Resistenza Silenziosa”. A lui viene dedicata, oltra alla targa di cui vi abbiamo parlato prima, anche una piccola via vicino alle mura nei pressi della zona universitaria, Mura Anteo Zamboni. Noi ci risentiamo alle 8:00 di Lunedì prossimo. Se un ribelle spento passa il testimone, siamo pronti a prenderlo?
Il 16 Agosto 1924 il corpo di un uomo in avanzato stato di decomposizione viene ritrovato a 25 chilometri da Roma. Dopo due giorni riescono ad effettuare il riconoscimento, grazie alla perizia odontoiatrica: il cadavere è quello del segretario del Partito Socialista Unitario, scomparso due mesi prima a Roma, il 10 Giugno. Il cadavere è quello di Giacomo Matteotti. Aveva 39 anni. Alle ore 16.15, Matteotti era uscito di casa a Roma per andare alla Biblioteca della Camera di Montecitorio, dove era già stato per tutta la mattinata. Percorreva il Lungotevere Arnaldo da Brescia, dove viene aggredito da alcuni membri della polizia politica fascista: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Viene caricato in macchina e pugnalato. Morirà dopo diverse ore di agonia. Giacomo Matteotti era nato a Fratta Polesine in provincia di Rovigo il 22 Maggio 1885. Non aveva fatto la prima guerra mondiale perché unico figlio sopravvissuto di una madre vedova, e non nasconde la sua ferma posizione antimilitarista, tanto da venire confinato per tre anni in provincia di Messina, poco dopo il suo matrimonio civile con la poetessa romana Velia Titta. Nel 1918 nasce il suo primo figlio, Giancarlo, mentre è ancora al confino. Entra in parlamento per la prima volta nel 1919, in rappresentanza della circoscrizione Ferrara-Rovigo. Viene rieletto nel 1921 e nel 1924. Nel 1921 pubblica l'”Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia”, in cui per la prima volta vengono messe nero su bianco le violenze delle squadre d'azione fasciste, proprio durante la campagna elettorale. Nel 1922 viene espulso dal Partito Socialista Italiano come tutta la corrente riformista legata a Filippo Turati; viene fondato il Partito Socialista Unitario e ne diviene il segretario. Nel 1924 vola a Londra in segreto per pubblicare la traduzione del suo libro: “Un anno di dominazione fascista”, in cui descrive meticolosamente tutti gli atti della violenza fascista contro gli oppositori. Il 30 maggio 1924 Matteotti prende la parola alla Camera dei deputati per contestare i risultati delle elezioni tenutesi il precedente 6 aprile. Mentre dai banchi fascisti si levano contestazioni e rumori che lo interrompono più volte Matteotti denuncia una nuova serie di violenze, illegalità ed abusi commessi dai fascisti per riuscire a vincere le elezioni, pronunciando un discorso che sarebbe rimasto famoso purtroppo famoso. Una volta terminato il discorso, Matteotti si gira verso i suoi compagni di partito e dice: «Io, il mio discorso l'ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me. Chi ha raccolto il testimone di Giacomo Matteotti, un altro ribelle spento? Se un ribelle spento passa il testimone, siamo pronti a prenderlo?
Il 10 Novembre 1995 a Port Harcourt, in Nigeria, vengono impiccati 9 attivisti del MOSOP , il Movimento per la Sopravvivenza del Popolo Ogoni. Il primo ad essere impiccato è un poeta, oltre che uno dei leader del MOSOP. Prima di venire impiccato dice: “Signore, prendi la mia anima, ma la lotta continua”. Era uno dei maggiori intellettuali nigeriani. Si chiamava Ken Saro Wiwa. Insieme a lui vengono impiccati Saturday Dobee, Nordu Eawo, Daniel Gbooko, Paul Levera, Felix Nuate, Baribor Bera, Barinem Kiobel e John Kpuine. Sono gli Ogoni Nine. Ken Saro Wiwa era già stato incarcerato nel 1992 per diversi mesi, su pressione del governo militare nigeriano. Dopo essere stato liberato, organizza con il MOSOP una manifestazione nel Gennaio 1993: vi partecipano circa 300,000 persone, più della metà della popolazione del popolo Ogoni; marciano attraverso quattro villaggi, attirando l'attenzione internazionale su questa popolazione e su quanto stanno richiedendo. Poco dopo il governo nigeriano decide di occupare militarmente la regione. Il 21 Maggio dell'anno successivo, il 1994, quattro capi Ogoni che si erano allontanati dal MOSOP e appartenevano all'ala più conservatrice, vengono brutalmente assassinati. Nonostante Ken Saro Wiwa non sia stato sul luogo del delitto nei giorni in cui i quattro vengono assassinati, viene arrestato con l'accusa di istigazione all'omicidio. Resta in carcere più di un anno, in quella cella scrive una delle sue poesie più famose, “La vera prigione”: Ken Saro Wiwa, La vera prigioneNon è il tetto che perde non sono nemmeno le zanzare che ronzano nell'umida, misera cella. Non è il rumore metallico della chiave mentre il secondino ti chiude dentro. Non sono le meschine razioni insufficienti per uomo o besta neanche il nulla del giorno che sprofonda nel vuoto della notte. Non è. Non è. Non è. Sono le bugie che ti hanno martellato le orecchie per un'intera generazione. È il poliziotto che corre all'impazzata in un raptus omicida mentre esegue a sangue freddo ordini sanguinari in cambio di un misero pasto al giorno, il magistrato che scrive sul suo libro la punizione, lei lo sa, è ingiusta. La decrepitezza morale l'inettitudine mentale che concede alla dittatura una falsa legittimazione la vigliaccheria travestita da obbedienza in agguato nelle nostre anime denigrate. È la paura di calzoni inumiditi, non osiamo eliminare la nostra urina. È questo. È questo. È questo amico mio, è questo che trasforma il nostro mondo libero in una cupa prigione. Nel 1990, Saro-Wiwa inizia a dedicare la maggior parte del suo tempo ai diritti umani e alle cause ambientali, in particolare a Ogoniland. Nel Delta del Niger c'è il petrolio, e molte compagnie petrolifere europee e statunitensi lo estraggono causando diversi disastri ambientali e costringono militarmente il Popolo Ogoni, che da sempre abitava quel territorio, a emigrare. È uno dei fondatori del Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni (MOSOP), che sosteneva i diritti del popolo Ogoni, che chiedeva una maggiore autonomia, la riparazione dei danni ambientali alle terre Ogoni e una percentuale sui proventi dati dall'estrazione del petrolio. In particolare, il nemico del MOSOP è la Dutch Royal Shell, nel Delta del Niger dal 1958. Fronte Unico, L'ultimo respiro fa da testamentoSe un ribelle spento passa il testimone, siamo pronti a prenderlo?
Ci sono tredici tombe nel cimitero di Dagnoën, alla periferia di Ouagadougou, in Burkina Faso. Sono quelle di Thomas Sankara e i suoi dodici uomini, uccisi nel colpo di stato di Compaoré del 1987. Nessuno sa esattamente come sia morto Thomas Sankara, ci sono almeno due ricostruzioni del suo omicidio. Certamente la responsabilità, se non materiale almeno politica, è di Blaise Compaoré, suo ex compagno d'armi e successivo presidente del Burkina Faso. Sankara viene ucciso, oltre che per la sete di potere del suo ex compagno, anche per le sue coraggiose scelte di politica estera: il rifiuto di pagare il debito estero, il tentativo di rendere il Burkina Faso autosufficiente e libero da importazioni forzate, la campagna di prevenzione dell'AIDS attraverso l'utilizzo di contraccettivi sono solo alcune delle misure che prevedeva l'agenda di governo. Ogni militare senza una formazione politica è un potenziale assassino. Intraprende la carriera militare, e nonostante i governi militari gli chiedano di partecipare al governo per risollevare il consenso, Thomas Sankara è un personaggio scomodo. Viene incarcerato due volte, fino alla liberazione definitiva e alla nomina di presidente dell'Alto Volta il 4 agosto 1983. Tra le misure messe in campo durante la sua presidenza troviamo il lavoro per far raggiungere alla donna la piena partecipazione alla vita pubblica e governativa, l'abolizione della poligamia e dell'infibulazione, l'attenzione all'ambiente e la lotta contro la desertificazione, la creazione di scuole e l'aumento dell'alfabetizzazione. “Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare. Non possiamo rimborsare il debito perché non ne siamo responsabili. Non possiamo pagare il debito perché sono gli altri che hanno nei nostri confronti un debito che le più grandi ricchezze non potrebbero mai pagare, cioè il debito di sangue. È il nostro sangue che è stato versato”. Queste riforme, estremamente innovative per un paese africano degli anni Ottanta, verranno quasi tutte annullate alla morte di Sankara con la salita al potere di Blaise Compaoré. Se un ribelle spento passa il testimone, siamo pronti a prenderlo?
İmralı è una piccola isola turca nel Mar di Marmara. Sarebbe un paradiso se non ci fosse una prigione. Un'area di 25 chilometri quadrati presidiata da 5000 soldati, che contiene un solo prigioniero: Abdullah Öcalan. Arrestato nel 2009, vive un isolamento devastante: una piccola cella, non può aprire la finestra; due ore d'aria al giorno, rinchiuso in un piccolo cortile e con una rete a escludere il cielo. Dal 2011 al 2019 gli sono anche state vietate le visite dei suoi legali, che erano l'ultimo legame che aveva con il mondo. Abdullah Öcalan nasce a Ömerli nel 1948. Un piccolo liceo di provincia, poi l'Università ad Ankara, dove però il colpo di stato militare lo porta presto ad abbandonare gli studi. Proprio il suo ritorno a Diyarbakır comincia la sua lotta per promuovere i diritti del popolo curdo. Nel 1977 fonda il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), un'organizzazione che lotterà per oltre 40 anni per dare ai curdi i diritti che gli sono sempre stati negati. Il PKK sceglie anche di abbracciare la lotta armata, e per questo viene classificato come organizzazione terrorista dalla maggioranza degli stati occidentali, compresi USA e Unione Europea. Nel 1980 Öcalan è costretto a fuggire in Siria, e dopo qualche anno in Russia. Cerca disperatamente uno stato che gli conceda asilo politico, ma non lo trova. Viene arrestato in Kenya, a Nairobi, e poi portato a İmralı, dove viene condannato all'ergastolo. È proprio in quella piccola cella che nasce il progetto più ambizioso per il popolo curdo: il confederalismo democratico. Teorizzato proprio dal prigioniero di İmralı, troverà la sua realizzazione nella rivoluzione del Rojava e nella nascita dell'Amministrazione autonoma della Siria del Nord-est. Se un ribelle spento passa il testimone, siamo pronti a prenderlo?
Benvenute e benvenuti, io sono Zorba e questo è Se un ribelle spento. Dalla prossima settimana, ogni Lunedì alle 8:00 sarà disponibile una nuova puntata in podcast, su Spotify e tutte le principali piattaforme online oltre che sul sito internet seunrispellespento.org. Di cosa parleremo in questo podcast? Parleremo di ribelli, ovviamente. Di tutti i ribelli che abbiamo citato nella canzone L'ultimo respiro fa da testamento di Fronte Unico. Ascolteremo le loro voci, quando possibile, vi leggerò le loro parole e cercherò di raccontarvi le loro storie e perché sono dei modelli da seguire per tutti quelli che come noi si sentono ribelli. Perché la caratteristica che li lega è che purtroppo sono quasi tutti morti, uccisi sempre dal sistema oppressivo che cercavano di combattere. Dai loro esempi possiamo imparare molto, e possiamo condividere quella santa rabbia che ci permette di smuoverci dalla nostra indifferenza per cercare di cambiare in meglio il mondo che ci circonda. Perché loro non ci sono più, sono spenti. Ma ci hanno passato un testimone, che tocca a noi prendere in mano e portare avanti, prima di passarlo a qualcun altro. Perché il loro ultimo respiro, la loro morte, è come un testamento che designa come eredi tutte quelle e quelli che hanno il coraggio di prenderlo. Ci sentiamo la prossima settimana, per la prima puntata di Se un ribelle spento. Parlermo di Abdullah Ocalan, leader del popolo Curdo, della sua prigionia e di come nonostante l'isolamento disumano in cui è costretto a vivere nel carcere di Imrali, sia riuscito a scrivere un documento che è tra i più rivoluzionari di questo nuovo millennio. Ciao a tutte e a tutti, la domanda che vi faccio da qui alla fine di questa esperienza non cambierà mai: se un ribelle spento passa il testimone, siamo pronti a prenderlo?