Un nuovo modo nuovo di fare approfondimento culturale, con taglio antropologico, e con nuovi sguardi sulle società umane: 200 lezioni, dialoghi e conferenze di studiosi e esperti con letture inedite del mondo che ci circonda sui temi: identità, corpo, don
A cura del festival di antropologia del contemporaneo
Da sempre, ogni volta che un leader si trova ad affrontare un’elezione, si fa affiancare da consiglieri che lo assistono nel creare strategie, posizionamenti, e narrazioni. Il fine è sempre lo stesso: creare consenso. Ma come si realizzano queste strategie? Come si creano le narrazioni? A cosa serve lo storytelling? Si tratta di semplici artifici retorici o dietro c’è qualcosa di più? Un viaggio nel dietro le quinte della politica, dove giorno dopo giorno si costruisce il consenso dei leader di tutto il mondo raccontato da Giovanni Diamanti, che insegna Storytelling politico.
L’evoluzione umana è una grande narrazione che spesso ci ha affascinato con le sue illusioni di progresso, linearità, necessità. L’errore più pericoloso è il senno di poi: ricostruire il passato per giustificare il presente, come se fosse l’unico possibile. Oggi la narrazione è cambiata radicalmente, grazie a nuove e sorprendenti evidenze scientifiche. Abbiamo imparato a raccontare il nostro passato in termini di diversità, contingenza, ramificazioni plurali, migrazioni. La nostra specie non era affatto la predestinata. Ha convissuto fino a poche decine di migliaia di anni fa con altre forme umane e poi ha prevalso per ragioni ancora da definire. Siamo una specie creativa e invasiva, al contempo. Superare la narrazione del progresso significa ripensare anche il modo in cui concepiamo la diversità umana attuale. Ma perché la mente umana ha questa forte predisposizione per le narrazioni? E se il nostro tardivo e contingente successo evolutivo dipendesse in qualche modo anche dalla nostra attitudine a raccontare storie?
Secondo l’Odissea, gli dêi vollero la distruzione di Troia affinché fosse raccontata. La vita è limitata, mentre il racconto e i suoi eroi sono eterni. Questo modello sembra essere immutabile e anche le persone reali, i pazienti dell’analista, si lasciano spesso trasportare dal destino come tragici protagonisti. Nel Novecento questa dimensione drammatica della vita è stata parzialmente rimossa dai modelli cinematografici, dove vince sempre il bene, ma non è stata eliminata dalla vita, è stata solo spinta nell’inconscio, da cui riemerge come sintomo ansioso: basta pensare quanto siamo impreparati a immaginare la guerra. Il racconto completo che contiene anche il male della vita, è rimasto uno spazio privato, ad esempio nella stanza d’analisi. L’analisi è dunque, in un certo senso, una forma di narrazione che guarisce proprio in quanto racconto. Il racconto di un grande psicoanalista.
Un dialogo che ripropone una consuetudine importante, quella di raccontare storie. Era un modo per stare vicini ai bambini, di aiutarli a crescere trovando le parole per capire il mondo, comunicare le loro emozioni e comprendere quelle degli altri. Le favole, che rappresentano i primi racconti dell’umanità, contengono tutto l’essenziale: i rapporti familiari, l’amore e l’odio, la fiducia e la paura, la solidarietà e l’abbandono. Ora, nell’epoca della realtà virtuale, sono state sostituite dai videogiochi, dove i bambini possono solo rispondere, senza interloquire, agli stimoli che provengono dal video. In quella esperienza anonima e meccanica non c’è prossimità, affettività, reciprocità, possibilità di dissenso e di scambio. Invece accanto all’adulto che racconta, il bambino impara le parole per dirsi, conoscersi e farsi conoscere, può suggerire varianti, proporre alternative, affrontare enigmi. Le storie aiutano a crescere non solo ascoltandole ma inventandole: come sarebbe un Cappuccetto giallo, verde o nero? chiede Rodari dando la parola ai bambini.
Viviamo in un’epoca di muri: fisici, giuridici, religiosi, culturali. Al di qua del muro ci siamo Noi. Pensiamo: Noi chi? Noi quali? E quali Altri? Perché e al di là c’è sempre l’Altro, il “diverso”. Ma l’Altro, è un volto che ci interroga, che ci chiede: “Mi riconosci?” Negando, ci priviamo della possibilità di capire che spesso Noi, siamo semplicemente dei Non-altri o meglio dei Noi-Altri. Volgere lo sguardo verso l’Altro, riconoscerlo, è questo il primo gesto che porta a una possibile narrazione della convivenza. Spesso la costruzione della diversità nasce dall’opposizione visibile/invisibile perché ogni sguardo nasce da un punto di vista, ha un’angolazione particolare, non osserviamo il mondo con occhi neutri. Una scrittrice e un antropologo dialogano sull’importanza dello spostare il nostro punto di vista. Proviamo a costruire una nuova narrazione, fondata sul dialogo e sul riconoscimento, che pensi in termini più ampi e nuovi l’idea di Noi.
Il ventesimo secolo è, tra le altre cose, il momento in cui esplode il fenomeno del “racconto pubblico industriale” del passato, in cui nascono i contesti sociali nei quali si struttura quella che chiamiamo opinione pubblica. Il periodo in cui, grazie alle nuove tecnologie, una gran parte della popolazione viene immersa nelle grandi narrazioni sociali, nazionali. La Storia, divenuta scienza, si incarica di raccontare a intere generazioni di esseri umani chi sono, da dove vengono e, sempre più spesso, dove devono andare. Un ruolo importante, a volte manipolabile, in cui il passato diviene non uno strumento di indagine ma uno specchio del presente, in cui il fatto stesso in sé perde valore, in favore del suo ricordo: la “Memoria” che prende il posto della Storia, nell’accompagnare l’essere umano nel tempo. Chi governa il passato governa il futuro, recita l’adagio. Comprendere i meccanismi e le tecniche di trasmissione di questo passato è il primo passo per prendere in mano il proprio futuro. Lo storico Francesco Filippi ci accompagna in un percorso anche ricco di esempi su come la Storia possa essere fatta da narrazioni e contro-narrazioni.
“Questo lavoro è cambiato negli anni. All’inizio documentavo piccole e grandi religioni all’ombra di guerre antiche e recenti, e sulle loro ceneri. Poi, a un certo punto, sono state le mie immagini a cercarmi, a parlare da sole, raccontando delle preghiere e dei sogni, dell’acqua e del fuoco, della memoria, del teatro della festa dei morti, della via dei canti. Ora quello che faccio è una cosa semplice, quasi infantile: raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della torre di Babele. Forse questo può fare il fotografo, raccogliere tessere di un mosaico che non sarà mai completo, metterle nell’ordine che gli sembra giusto, o forse solo possibile, sognando quell’immagine intera del mondo che magari da qualche parte c’è, o forse c’era e s’è perduta, come la lingua di Adamo.” Monica Bulaj, fotografa.
“O Italiani, io vi esorto alle storie”. Da decenni ormai la dimensione del racconto ha ricevuto attenzioni degne della famosa apostrofe di Ugo Foscolo. Oggi sappiamo che non soltanto non esiste società umana che sia stata priva di storie, non c’è neppure comunicazione umana che non sia costruita – più o meno esplicitamente – su strutture narrative. Ma è “storia” la ricostruzione documentata del passato ed è “storia” la fandonia; narrare istruisce e incanta. E ancora: lo “storytelling”, che storia ci racconta? Perché una parola inglese al posto di “narrazione”? Che differenza fa? Stefano Bartezzaghi, semiologo e teorico della creatività ci spiega la differenza fra narrazione e storytelling.
È questa la grande narrazione dei nostri tempi: l’ambiente e la crisi climatica. Dopo anni di grande cecità e silenzio, sono ora al centro delle nostre discussioni. Cosa possono suggerire gli antropologi al proposito? Prendendo spunto dai loro studi nel Sud Asiatico e in Oceania e dalle esperienze di relazione con i loro luoghi di vita, Adriano Favole e Andrea Staid, esploreranno la concezione dell’ambiente in altre società, chiedendosi se e come quei modelli possano essere creativamente rielaborati per immaginare un futuro più attento alle relazioni tra noi e i non umani. L’ambiente, nella narrazione dei due relatori, non è un luogo da visitare: l’ambiente siamo noi insieme a tutti gli altri esseri che lo abitano. L’ambiente non è un ammalato da curare, ma piuttosto un tessuto di relazioni capaci di curarci. Anche noi siamo ambiente.
La parola è la marca distintiva dell’uomo, come ha spiegato Aristotele, e la stessa eco risuona nella fulminante sentenza di don Milani «Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua», ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale. La parola può tutto: «Spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia). Il suo potere è duplice, perché duplice la sua natura: creatrice e distruttrice, simbolica e diabolica, benedetta e maledetta. Pertanto essa può salvare e rovinare gli Stati, far scoppiare e far cessare le guerre, riscattare anche Elena, la donna più screditata dell’antichità. La parola è anche ambigua, perché essa è un phármakon, “rimedio” e “veleno”. Per questo i classici avevano teorizzato che la nostra vita, personale e collettiva, è tutta una “battaglia di parole” una contesa tra buono/cattivo, giusto/ingiusto, bello/turpe, vero/falso, folle/assennato, utile/non utile, insegnabile/non insegnabile. Ce ne parla Ivano Dionigi, uno dei più illustri latinisti e classicisti.
“Il club globale delle libere democrazie si sta velocemente restringendo”, scrive Jacob Mchangama, studioso e attivista per i diritti umani. Il discorso pubblico è sotto l’attacco di autocrazie, populismi e superpotenze tecnologiche che vogliono negare la libertà di espressione. Per questo oggi è cruciale riscoprire la forza del discorso come fattore chiave per plasmare la storia del mondo. Attraverso le parole, tra gli altri, di Pericle e Cicerone, di Emmeline Pankhurst e Nelson Mandela, di Robespierre, Mazzini, Angela Merkel, Vittorio Meloni riproporrà alcuni dei più appassionati discorsi per la democrazia e la libertà. Per riflettere insieme sulle radici della nostra civiltà politica e sulle nostre conquiste civili.
Consegna del Premio Internazionale Dialoghi di Pistoia a Dacia Maraini Dacia Maraini vince la quinta edizione del Premio Internazionale Dialoghi di Pistoia, conferito a una figura del mondo culturale, che con il proprio pensiero e lavoro abbia testimoniato la centralità del dialogo per lo sviluppo delle relazioni umane e contribuito a migliorare il dialogo e lo scambio interculturale. La sua è stata definita una militanza gentile, che ha caratterizzato tutta la sua vita, un percorso che ha visto la sua attività di scrittrice di successo e di intellettuale sempre impegnata sui temi più urgenti, dal femminismo ai diritti umani, facendosi interprete sensibilissima e originale dei mutamenti della nostra società, dimostrando con sempre maggiore evidenza una vocazione civile profonda. Figlia di un grande antropologo e orientalista e di un’artista, è vissuta all’estero e ha viaggiato per tutto il mondo (“sono nata viaggiando”), spesso in compagnia di Alberto Moravia e del grande amico Pier Paolo Pasolini, confrontandosi sempre con l’alterità e mossa, come lei stessa ha scritto, da uno spirito antropologico. Ha dedicato tutta la sua vita alla scrittura narrativa e di impegno, ne parla con lo scrittore e critico Paolo Di Paolo.
Uno dei racconti più divertenti del grande scrittore inglese dedicato alla regina Elisabetta, letto dalla voce straordinaria di Anna Bonaiuto. È successo qualcosa nella vita della sovrana, che a poco a poco la sta cambiando radicalmente, qualcosa di semplice, ma dalle conseguenze incalcolabili. Per un caso, la sovrana ha scoperto quegli oggetti strani che sono i libri, non può più farne a meno, legge in continuazione e cerca di convertire alla lettura chiunque incontri: primi ministri, dame di compagnia, persone a cui stringe la mano durate le inaugurazioni. Il suo entourage è in allarme, gli effetti sui suoi sudditi e sui servizi di sicurezza sono tragicomici. La lettura compulsiva della sovrana è vista a tratti come una malattia grave, a tratti come un hobby pericoloso. E forse lo è, dato che la regina Elisabetta non è più la stessa. Un racconto esilarante che ci fa riflettere sul potere della narrazione e su come possa cambiare la nostra vita. Venerdì 27 maggio alle ore 21.15 al teatro Pacini di Pescia.
Raccontare il coraggio e la solitudine. Nella sua vita, sicuramente fatta di solitudine e coraggio, Roberto Saviano ha scelto ora di narrare la vita di Giovanni Falcone, ucciso nel 1992, quando lo scrittore aveva 13 anni. “Ricordo i titoli dei giornali, la sensazione terribile che il male non potesse che prevalere. Fin da quando ero ragazzo mi sono occupato di questa vicenda, ho letto i libri e studiato gli atti dei processi, in particolare del ‘Maxi’ – loro lo chiamavano così – il Maxiprocesso a Cosa nostra che Falcone e gli altri magistrati del pool hanno istruito. Quando ho deciso di provare a raccontare di lui, di tutti loro, la quantità di informazioni che avevo nella mente era enorme, allora ho capito che la sola chiave per selezionare non era nella mente, ma nel cuore: ho scelto un filo conduttore, il solo possibile, quello del coraggio.”
Il più shakespeariano dei registi, Orson Welles, quando si è trovato a definire i film – almeno così recitano le leggende – ha parlato di “nastri di sogni”. Il cinema, quest’immensa nastroteca fatta di luce, nasce con le operaie che escono dalle officine Lumière e con l’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat: quasi nello stesso momento in cui Sigmund Freud finisce di appuntarsi per iscritto quell’Interpretazione che, dei Sogni in movimento di Auguste e Louis Lumière, è più o meno coetanea. Da 127 anni (da quando è nato il cinema) i film, narrazioni per immagini sottili quanto l’aria, ci visitano nel sonno. Hanno condizionato la forma estetica del Novecento (e del XXI secolo), e continuano, quando ci riescono, a rinnovarci l’inconscio di Bellezza. Ce ne parla lo scrittore e sceneggiatore Giordano Meacci.
A partire dagli anni Ottanta un gruppo di antropologi, tra cui l’insigne James Clifford, impresse una svolta fondamentale al modo di narrare le altre culture. Se fino a quel momento la ricerca antropologica era stata uno sguardo dell’Occidente sugli altri, espresso in libri e articoli scritti con un taglio “oggettivo”, ora un tale atteggiamento non era più possibile. Il mondo stava cambiando, la lotta per la decolonizzazione era in pieno corso, gli indigeni diventavano a loro volta antropologi. Di qui l’idea di abbandonare la pretesa di oggettività e dare un’impronta più narrativa ai testi antropologici, che dovevano contenere anche il racconto dell’esperienza del ricercatore. La svolta impressa da Clifford, e dai suoi colleghi ha cambiato il nostro modo di raccontare le altre culture, non più l’Altro visto da Noi, ma Noi insieme agli Altri. Dove stiamo andando, tutti insieme e separatamente? In questi tempi confusi, secondo Clifford, uno dei più autorevoli antropologi contemporanei, proprio una sensibilità “decentrata” può aiutarci a proporre narrazioni storiche adeguate. Taduzione consecutiva a cura di Marina Astrologo.
“Il club globale delle libere democrazie si sta velocemente restringendo”, scrive Jacob Mchangama, studioso e attivista per i diritti umani. Il discorso pubblico è sotto l’attacco di autocrazie, populismi e superpotenze tecnologiche che vogliono negare la libertà di espressione. Per questo oggi è cruciale riscoprire la forza del discorso come fattore chiave per plasmare la storia del mondo. Attraverso le parole, tra gli altri, di Pericle e Cicerone, di Emmeline Pankhurst e Nelson Mandela, di Robespierre, Mazzini, Angela Merkel, Vittorio Meloni riproporrà alcuni dei più appassionati discorsi per la democrazia e la libertà. Per riflettere insieme sulle radici della nostra civiltà politica e sulle nostre conquiste civili.
Una serie di traumi (o di shock) - dalla crisi economica a quella ecologica, dalla rivoluzione digitale alla pandemia e infine alla guerra - sembrano sottoporre l’umanità contemporanea, e ciascuno di noi, a una sfida molto difficile, svelando una condizione generale di incertezza e di vulnerabilità. Cadono sicurezze che ritenevamo stabili e confini che pensavamo assodati. Valori fondamentali e parole preziose vengono manipolati fino alla loro definitiva consumazione. Possono quelle che riteniamo attività culturali (pensare, leggere, guardare, ascoltare) contribuire a costruire un nuovo orizzonte individuale e collettivo? Possono aiutarci a combattere il muro della paura e della sfiducia che pare ostruire il nostro futuro?
Veniamo da anni di fake news, informazioni manipolate, disinformazione sui social media, notizie contrastanti. Il Covid, i vaccini, le campagne elettorali sovraniste e ora la guerra in Ucraina ci pongono davanti a una domanda urgente e importante: esiste la verità? E se esiste, come è possibile raccontarla? Ogni narrazione – anche quella giornalistica – comporta delle responsabilità e due grandi firme della stampa italiana si interrogano sul ruolo dell’informazione tra talk show, carta stampata e Internet. Caterina Soffici, scrittrice ed editorialista della Stampa in dialogo con Concita De Gregorio, scrittrice, conduttrice televisiva e opinionista di Repubblica.
Uno dei racconti più divertenti del grande scrittore inglese dedicato alla regina Elisabetta, letto dalla voce straordinaria di Anna Bonaiuto. È successo qualcosa nella vita della sovrana, che a poco a poco la sta cambiando radicalmente, qualcosa di semplice, ma dalle conseguenze incalcolabili. Per un caso, la sovrana ha scoperto quegli oggetti strani che sono i libri, non può più farne a meno, legge in continuazione e cerca di convertire alla lettura chiunque incontri: primi ministri, dame di compagnia, persone a cui stringe la mano durate le inaugurazioni. Il suo entourage è in allarme, gli effetti sui suoi sudditi e sui servizi di sicurezza sono tragicomici. La lettura compulsiva della sovrana è vista a tratti come una malattia grave, a tratti come un hobby pericoloso. E forse lo è, dato che la regina Elisabetta non è più la stessa. Un racconto esilarante che ci fa riflettere sul potere della narrazione e su come possa cambiare la nostra vita.
Narrare vuol dire costruire memoria, dare forma all’identità, alleviare la sofferenza, come mostra il mito di Mnemosyne, la dea della memoria e madre delle Muse. Cosa resta di tutto questo nell’età della scrittura? Lina Bolzoni propone alcuni esempi di come leggere vuol dire anche costruire la propria personale memoria e darsi gli strumenti per rinarrare la propria storia. In altri termini la lettura diventa lo specchio in cui dare ospitalità all’altro e insieme riconoscere, ricostruire se stessi. È anche così che la biblioteca diventa una forma di autobiografia, lo specchio cangiante di chi la crea. Ce ne parla la storica della letteratura Lina Bolzoni.
Scendere nelle profondità del narrare è un’impresa affascinante, quasi quanto lo è la pratica stessa del raccontare. Farlo non è difficile, basta chiudere gli occhi e lasciare che la mente si popoli di parole, tutte quelle che il narrare suscita intorno a sé: dal mito alla favola e poi, ancora più indietro, dal mythos dei Greci alla fabula dei Romani. Percorrendo le luci e le ombre di queste parole, resuscitando con il loro aiuto le molteplici forme del raccontare che si sono succedute nel corso del tempo, si costruisce una rete narrativa piena di imprevisti – le cui maglie conservano tutta la forza, le certezze, le ambiguità, le seduzioni e perfino gli inganni che il racconto ha tessuto intorno a sé. Una rete infinita, che da che mondo è mondo va pescando nel gran mare della cultura.
Il viaggio iniziatico è uno straordinario mito culturale che attraversa tutte le epoche e culture. Antropologi, scrittori e storici ne hanno parlato e scritto. Ogni viaggio iniziatico porta alla prova di se stessi, con un allontanamento dalle proprie abitudini e certezze cui segue la morte simbolica. La rinascita vera e propria avviene soltanto dopo. Metabolizzare quel viaggio, raccontarlo, scriverlo, è parte integrante dell’itinerario conoscitivo con cui il viaggiatore scopre di essere una persona nuova, diversa, rinata. L’atto stesso della scrittura è spesso come un’iniziazione. Due studiosi, un letterato e un antropologo ci parlano di uno dei temi da sempre più misteriosi e affascinanti, raccontandoci i viaggi iniziatici di grandi antropologi e letterati.Testimonianze preziose e affascinanti per comprendere come il successo dell’Homo sapiens sia legato proprio alla capacità di immaginare cosa c’è al di là del conosciuto.
Una conferenza sulla mistica come “via del distacco”, che va oltre l’orizzonte dell’anima, verso lo spirito. Dopo un lungo oblio, la mistica sta infatti riemergendo non solo come unica possibilità di lingua universale delle religioni, in mezzo alla Babele dei linguaggi teologici, ma anche e soprattutto quale itinerario privilegiato verso la conoscenza essenziale, quella di noi stessi. Proprio sotto questo profilo, si deve infatti notare come non sia la teologia, tutta dipendente dai contenuti storicamente condizionati della Bibbia, e neppure la psicologia, frammentata in mille rivoli, a ricordare che l’essere umano è costituito non solo da corpo e anima, ma anche, e soprattutto, da spirito. Esso, infatti, emerge quale nostra realtà essenziale, libera e beatificante, solo dopo che ci si è liberati da tutte le determinazioni che ingombrano la psiche, che, come la mente-scimmia descritta dal buddhismo, saltella da un contenuto all’altro, senza mai trovare pace.
Le pagine che Neri Marcorè leggerà in questo evento conclusivo dei Dialoghi, sono tratte dal libro Le vie dei canti, pubblicato nel 1988, e divenuto un successo mondiale. Un libro che ha insegnato a intere generazioni a camminare, a osservare con sguardo attento, a conoscere e rispettare il mondo che ci circonda e l’altro. In queste pagine - una sorta di racconto-diario di un suo lungo viaggio in Australia - Bruce Chatwin ha reso nota al grande pubblico la concezione dello spazio degli aborigeni australiani. Secondo queste popolazioni, in un passato mitico chiamato Tempo del Sogno, gli antenati avevano percorso la loro terra, cantando il nome delle cose e delle creature in cui si imbattevano, facendo così esistere il mondo. Nacque in questo modo una geografia, fondata sulla relazione tra gli individui e il loro territorio, che si esprime attraverso dei canti. Una geografia della memoria, che vive di una tradizione orale, tramandata per secoli di generazione in generazione. (tesi a cura di Marco Aime, Giulia Cogoli, Adriano Favole)
La nostra società, nell'ultimo decennio, sta divenendo sempre più complessa: la globalizzazione e Internet hanno "ristretto" il mondo, facendo sì che l'incontro con le differenze, esperienza prima eccezionale e saltuaria nelle nostre vite, diventasse parte della quotidianità di ognuno di noi. Ma l'essere umano non è programmato per accettare tutto questo con serenità: istintivamente, infatti, vive la novità e l'alterità come minacce alla sua esistenza. Di conseguenza, si avverte la necessità di passare da una visione "normocentrica" della società, in cui la diversità viene vissuta come una minaccia e una devianza, a una più pacifica di “convivenza delle differenze”. Parte di questo processo avviene a livello linguistico, tramite la nominazione corretta e rispettosa delle diversità e un uso più attento delle parole – che non sono mai solo parole, ma ganci verso grappoli di significati – andando oltre le proprie abitudini di sempre.
Non c’è nulla in ciò che la scienza scopre o studia che non possa essere spiegato. Lo ha drammaticamente ricordato la pandemia causata da un oggetto vivente più piccolo di 160 nanometri (un milionesimo di millimetro) che dall’inizio del 2020 ha condizionato le nostre vite. La maggior parte di noi ha imparato ad apprezzare il valore delle conoscenze e delle competenze in un momento in cui le certezze del quotidiano sono venute meno. La sfida del domani sarà quella di recuperare e mantenere questo “innamoramento” verso la scienza e consolidare la fiducia nel metodo scientifico attraverso il racconto di come ogni gradino raggiunto oggi si poggi su quello costruito ieri da altri, e sarà la base su cui edificare l'orizzonte del domani. La scienza va avanti, non si ferma mai: cercare traguardi sempre nuovi è implicito nel suo metodo. Non ci può essere alcun limite alla libertà degli studiosi di studiare e non ci può essere alcun timore nel perseguire la conoscenza. Anche attraverso i fallimenti. Nell'interesse di tutti noi.
Cosa sta diventando l’essere umano in quest’epoca che qualcuno ha proposto di chiamare d.C., “Dopo il Coronavirus”? Che umanità è quella della grande accelerazione digitale e della crisi ambientale? Dobbiamo fermarci, riflettere, prendere atto dei danni inferti al pianeta, oppure prendere coscienza che l’essere umano è di per sé un animale limitato e imperfetto e, che proprio i limiti (la morte in primo luogo) ne evidenziano le caratteristiche, tra cui la libertà? Il rapporto con le macchine (quelle digitali, innanzitutto) configura rischi di alienazione e nuove schiavitù? Oppure è proprio la tecnologia che ci fa apparire per come siamo, ovvero esseri la cui “natura” è in realtà una cultura continuamente cangiante? E ancora, saremo destinati a vivere senza lavorare, superando così Homo faber, oppure le nuove tecnologie costringeranno alcuni a farlo per il benessere degli altri? In questo scenario, c’è da interrogarsi sul futuro della diversità culturale. Possiamo inserire la storia dell’umanità lungo un unico grande asse di progresso, oppure proprio in virtù dell’assenza di una natura umana, le varie società delineano possibilità assai differenti e divergenti dell’umano?
Per secoli, per millenni, gli uomini hanno seguitato a sfidare i limiti geografici, continuando ad andare oltre,impadronendosi di ogni luogo ignoto, possedendolo prima ancora che con le armi con la conoscenza: spazi, natura, uomini e civiltà. Ma la storia delle esplorazioni e delle conquiste non è solo una storia di geografie, è anche una storia di immaginazione. Di come abbiamo plasmato il mondo a forza di sogni. E così la domanda è questa. Possono stare nella stessa storia i mercanti greci e Odisseo? I viaggiatori arabi e Sindbad il marinaio? Colombo, Magellano e i pirati dei Caraibi? Lungi dall’essere un problema letterario, la risposta a questa domanda è una cosa da storici. Perché ci racconta molto di come abbiamo immaginato il mondo e del senso stesso che abbiamo dato alle nostre scoperte e alle nostre conquiste. E di come oggi guardiamo al nostro incerto presente.
La meravigliosa voce di Sonia Bergamasco ci porterà in viaggio con quattro donne straordinarie, avventurose, esploratrici che hanno camminato per il mondo, studiando altre culture, altri paesi inesplorati e sconosciuti al mondo occidentale. Sonia Bergamasco ci codurrà in Tibet, a Lhasa, la città proibita, attraverso il racconto di Alexandra David Néel, la prima donna occidentale che vi è arrivata travestita da pellegrina mendicande nel 1925. E poi con Margaret Mead, la più celebre e importante antropologa del XX secolo, fra Samoa e la Nuova Guinea, e infine in viagagio in Africa con due giovanissime antropologhe che all'inzio del secolo si recano da sole fra i Dogon per studiare i loro riti. È la peculiarità dello sguardo femminile il filo conduttore di questa serata di letture, linterpretata da una delle più importanti attrici italiane. Testi a cura di Marco Aime e Giulia Cogoli.
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Il clima del nostro pianeta è cambiato per cause naturali, fin dagli albori della Terra, alternando periodi più caldi di oggi ed epoche in cui i ghiacci la ricoprivano, rispondendo alle modifiche della composizione dell’atmosfera, delle caratteristiche della superficie e del funzionamento della biosfera. Ma nell’ultimo secolo, un nuovo attore è entrato in scena: l’umanità, che con le emissioni di gas serra, le modifiche del territorio, l’inquinamento, la distruzione della biodiversità è diventata un agente di rapido cambiamento planetario. Cosa ci aspetta, dunque, oltre l’orizzonte dei prossimi decenni? Come si evolverà il clima del futuro, quali conseguenze porterà l’aumento delle temperature? Quali possibili instabilità dovremo affrontare? E soprattutto, cosa possiamo fare per ridurre il riscaldamento globale e il suo impatto? Analizzeremo cause, conseguenze, possibili strategie, con l’attenzione al ruolo degli esseri umani e al loro rapporto con il “Sistema Terra”.
In un mondo sedotto dalla retorica tossica del no-limits e degli sport estremi, una delle più forti alpiniste del mondo racconta invece come il difficile sia scendere dalla montagna, non solo raggiungere la vetta. Una cima dopo l’altra, con il marito Romano Benet, ha scalato tutti i 14 “Ottomila” senza ossigeno e senza portatori di alta quota, conquistando il record della prima coppia a essere riuscita nell’impresa. Ma il suo motto è: “Io sono le montagne che non ho scalato”. Nives Meroi in dialogo con Caterina Soffici parla della sua passione per la montagna, l’amore per i viaggi e le esperienze con popoli diversi, la curiosità di andare a vedere cose c’è oltre, la voglia di scoprire se stessi in ambienti ostili, ma soprattutto l’umiltà della rinuncia, la consapevolezza e la responsabilità delle tracce che un essere umano si lascia dietro sul pianeta.
“Cammino dunque sono”. Non appaia irriverente il mutare il celebre aforisma cartesiano (Cogito ergo sum) attribuendo al camminare il potere di accrescere in chi l’adotti la consapevolezza di essere al mondo. Il pensiero filosofico non ha mai cessato di occuparsi di riflettere sul divenire, sul tempo scandito dai passi, sul dirigersi verso una meta o errando infaticabilmente alla sua ricerca. Già Platone la riteneva una saggia pratica da coltivare, feconda per l’educazione a ragionar di sé. L’atto del camminare si rivela dunque, ancora una volta, una grande metafora filosofica della condizione umana. Dove la strada, il sentiero, la sosta, gli incontri, si fanno simboli variabili del nostro rapporto meditativo e pensoso, o viceversa distratto e irriflessivo, con le cose e gli altri. Ci scopriamo così socratici nel piacere di conversare passeggiando; pellegrinanti nel raggiungere luoghi santi o memorabili; vagabondi romantici: con Goethe, Rousseau, Thoreau… se è il contatto con la natura che andiamo cercando.
Il cammino è uno dei momenti topici della riflessione e della scrittura in cui l’immaginazione si scatena, il pensiero si sincronizza con i battiti del cuore, il respiro e il passo danno vita nella mente a una prosa ritmata. Il cammino permette di intercettare immagini, suoni, odori, persone: cioè vita. Lo scrittore, per Paolo Rumiz, è dunque un trovatore, un cacciatore che non sa mai in cosa si imbatterà prima di partire, può solo camminare e cercare. Perché proprio durante il cammino si crea nella sua mente la fusione di sogno, memoria, impressioni. La vita dello scrittore è perciò una sorta di “pendolarismo talmudico” fra il momento nomadico, in cui esce dalla propria tana in cerca della preda, e il momento del ritorno a casa, in cui si rifugia al sicuro, raduna ciò che ha raccolto, per passare alla rielaborazione. La creatività infatti non nasce mai dal troppo, ma arriva attraverso il silenzio, ed è in quei momenti di libertà che lo scrittore si lascia riempire da qualcosa, lascia che le parole lo attraversino come il vento.
Il viaggio è una delle nostre condizioni più antiche. Una delle cose che ha a che fare con la nostra specie da sempre, da quando abbiamo cominciato ascendere dagli alberi. Perché noi siamo esseri in movimento e ogni nostro cambiamento, ogni nostra scoperta, ogni nostra crisi, alla fine dei conti, sono stati sempre legati a uno spostamento, a viaggi, scambi, conquiste o esplorazioni. Per secoli, per millenni, abbiamo continuato a sfidare i limiti geografici spingendo imbarcazioni in acque ignote, studiando venti e correnti, superando deserti e montagne. Per secoli, per millenni, abbiamo continuato ad andare oltre, appropriandoci di ogni luogo ignoto e modificando, in quegli incontri e quegli scontri, il nostro pensiero e la nostra visione del mondo. Eccolo dunque il punto di partenza di questi racconti: cinque brevi puntate per indagare le ragioni più profonde e alcuni dei volti che il viaggio ha assunto nella nostra storia. E da qui chiedersi magari cosa rimane oggi di questa lunga storia, in un mondo dove tutto è visibile e raggiungibile. In un mondo così apparentemente privo di ignoto. Dopo una prima puntata dedicata al senso del viaggio, alla sua lunga e varia dimensione storica ed esistenziale, i quattro racconti successivi racconteranno quattro storie esemplari, ognuna dedicata a un senso del viaggio: scoperta, penitenza, ricerca di libertà, ritorno.
Il viaggio è una delle nostre condizioni più antiche. Una delle cose che ha a che fare con la nostra specie da sempre, da quando abbiamo cominciato ascendere dagli alberi. Perché noi siamo esseri in movimento e ogni nostro cambiamento, ogni nostra scoperta, ogni nostra crisi, alla fine dei conti, sono stati sempre legati a uno spostamento, a viaggi, scambi, conquiste o esplorazioni. Per secoli, per millenni, abbiamo continuato a sfidare i limiti geografici spingendo imbarcazioni in acque ignote, studiando venti e correnti, superando deserti e montagne. Per secoli, per millenni, abbiamo continuato ad andare oltre, appropriandoci di ogni luogo ignoto e modificando, in quegli incontri e quegli scontri, il nostro pensiero e la nostra visione del mondo. Eccolo dunque il punto di partenza di questi racconti: cinque brevi puntate per indagare le ragioni più profonde e alcuni dei volti che il viaggio ha assunto nella nostra storia. E da qui chiedersi magari cosa rimane oggi di questa lunga storia, in un mondo dove tutto è visibile e raggiungibile. In un mondo così apparentemente privo di ignoto. Dopo una prima puntata dedicata al senso del viaggio, alla sua lunga e varia dimensione storica ed esistenziale, i quattro racconti successivi racconteranno quattro storie esemplari, ognuna dedicata a un senso del viaggio: scoperta, penitenza, ricerca di libertà, ritorno.
Il viaggio è una delle nostre condizioni più antiche. Una delle cose che ha a che fare con la nostra specie da sempre, da quando abbiamo cominciato ascendere dagli alberi. Perché noi siamo esseri in movimento e ogni nostro cambiamento, ogni nostra scoperta, ogni nostra crisi, alla fine dei conti, sono stati sempre legati a uno spostamento, a viaggi, scambi, conquiste o esplorazioni. Per secoli, per millenni, abbiamo continuato a sfidare i limiti geografici spingendo imbarcazioni in acque ignote, studiando venti e correnti, superando deserti e montagne. Per secoli, per millenni, abbiamo continuato ad andare oltre, appropriandoci di ogni luogo ignoto e modificando, in quegli incontri e quegli scontri, il nostro pensiero e la nostra visione del mondo. Eccolo dunque il punto di partenza di questi racconti: cinque brevi puntate per indagare le ragioni più profonde e alcuni dei volti che il viaggio ha assunto nella nostra storia. E da qui chiedersi magari cosa rimane oggi di questa lunga storia, in un mondo dove tutto è visibile e raggiungibile. In un mondo così apparentemente privo di ignoto. Dopo una prima puntata dedicata al senso del viaggio, alla sua lunga e varia dimensione storica ed esistenziale, i quattro racconti successivi racconteranno quattro storie esemplari, ognuna dedicata a un senso del viaggio: scoperta, penitenza, ricerca di libertà, ritorno.
Il viaggio è una delle nostre condizioni più antiche. Una delle cose che ha a che fare con la nostra specie da sempre, da quando abbiamo cominciato ascendere dagli alberi. Perché noi siamo esseri in movimento e ogni nostro cambiamento, ogni nostra scoperta, ogni nostra crisi, alla fine dei conti, sono stati sempre legati a uno spostamento, a viaggi, scambi, conquiste o esplorazioni. Per secoli, per millenni, abbiamo continuato a sfidare i limiti geografici spingendo imbarcazioni in acque ignote, studiando venti e correnti, superando deserti e montagne. Per secoli, per millenni, abbiamo continuato ad andare oltre, appropriandoci di ogni luogo ignoto e modificando, in quegli incontri e quegli scontri, il nostro pensiero e la nostra visione del mondo. Eccolo dunque il punto di partenza di questi racconti: cinque brevi puntate per indagare le ragioni più profonde e alcuni dei volti che il viaggio ha assunto nella nostra storia. E da qui chiedersi magari cosa rimane oggi di questa lunga storia, in un mondo dove tutto è visibile e raggiungibile. In un mondo così apparentemente privo di ignoto. Dopo una prima puntata dedicata al senso del viaggio, alla sua lunga e varia dimensione storica ed esistenziale, i quattro racconti successivi racconteranno quattro storie esemplari, ognuna dedicata a un senso del viaggio: scoperta, penitenza, ricerca di libertà, ritorno.
Il viaggio è una delle nostre condizioni più antiche. Una delle cose che ha a che fare con la nostra specie da sempre, da quando abbiamo cominciato ascendere dagli alberi. Perché noi siamo esseri in movimento e ogni nostro cambiamento, ogni nostra scoperta, ogni nostra crisi, alla fine dei conti, sono stati sempre legati a uno spostamento, a viaggi, scambi, conquiste o esplorazioni. Per secoli, per millenni, abbiamo continuato a sfidare i limiti geografici spingendo imbarcazioni in acque ignote, studiando venti e correnti, superando deserti e montagne. Per secoli, per millenni, abbiamo continuato ad andare oltre, appropriandoci di ogni luogo ignoto e modificando, in quegli incontri e quegli scontri, il nostro pensiero e la nostra visione del mondo. Eccolo dunque il punto di partenza di questi racconti: cinque brevi puntate per indagare le ragioni più profonde e alcuni dei volti che il viaggio ha assunto nella nostra storia. E da qui chiedersi magari cosa rimane oggi di questa lunga storia, in un mondo dove tutto è visibile e raggiungibile. In un mondo così apparentemente privo di ignoto. Dopo una prima puntata dedicata al senso del viaggio, alla sua lunga e varia dimensione storica ed esistenziale, i quattro racconti successivi racconteranno quattro storie esemplari, ognuna dedicata a un senso del viaggio: scoperta, penitenza, ricerca di libertà, ritorno.
Conferenza di presentazione del libro di Stefano Allievi: TORNEREMO A PERCORRERE LE STRADE DEL MODO, UTET - Dialoghi sull'uomo
La lingua è un fondamentale testimone della propria epoca, una cartina di tornasole dello spirito dei tempi in cui viviamo. Quando il linguaggio si impoverisce, come è accaduto nelle retoriche mediatiche e politiche degli ultimi anni, è perché il pensiero si è impoverito. Abbiamo tutti perso qualcosa. Come scrisse Albert Camus: «Nominare male le cose, è partecipare all’infelicità del mondo». Se il numero di parole usate diminuisce, si riduce anche il mondo in cui viviamo, si fa più stretto, incolore, grigio. Quando tutti pensano allo stesso modo, è perché si pensa poco. In un tempo che sta tracciando nuovi confini, nuove alterità e diversità, nuovi razzismi una riflessione sulla centralità del linguaggio per la convivenza e il dialogo.
Una lunga emozionante intervista concessa in esclusiva a Dialoghi sull’uomo da uno dei più grandi fotografi al mondo, di cui è in corso a Pistoia la mostra fotografica Exodus. In cammino sulle strade delle migrazioni. Sebastião Salgado partendo dal suo appello per salvare gli indigeni dell’Amazzonia dal Coronavirus, ripercorre il suo lungo e appassionato rapporto con questa parte del Brasile a cui da tanti anni dedica il suo lavoro e attenzione. Mai come in questa intervista si comprende come il suo sia uno sguardo antropologico, che lo ha sempre portato a occuparsi dei grandi temi legati all’essere umano e alla sua vita sul pianeta. Il racconto della preparazione delle sue spedizioni in Amazzonia, le difficoltà iniziali, il lavoro sul campo con gli indigeni, la felicità che ha provato a contatto con queste popolazioni prive di sovrastrutture, rendono questa testimonianza un documento straordinario. “Queste popolazioni indigene fanno parte della straordinaria storia della nostra specie. La loro scomparsa sarebbe una tragedia estrema per il Brasile e una perdita immensa per l'umanità. Non c'è tempo da perdere. È questo il rischio che corrono le popolazioni indigene se non si prendono provvedimenti urgenti” dice Sebastião Salgado. Traduzione Marina Astrologo.
Di che cosa parliamo quando parliamo d’amore? Si domandava Raymond Carver. Ma soprattutto: come parliamo, quando parliamo l’amore? E non a caso, per dare un titolo a quest’incontro, un verbo intransitivo per eccellenza, parlare, è usato al transitivo...Perché quando ci innamoriamo – di una persona, di un’idea, di un figlio - cambia tutto: il nostro modo di pensare, di coniugare verbi e possibilità, di dire io, dire tu, dire noi, di guardare il mondo. E cambia la nostra voce, arrivano parole misteriose. Se è la letteratura a raccontare l’amore, dunque, è innanzitutto di questa voce nuova che deve rendere conto. E di tutta la potenza e la fragilità che porta con sé, di tutto il coraggio dell’incoscienza. Perché solo grazie a quella voce rischiamo di potere essere nuovi anche noi e non solo per trasformare il nostro futuro, ma anche per comprendere meglio il nostro passato e rifondare la nostra identità. Chiara Gamberale, da sempre interessata nei suoi romanzi a scavare nel mistero degli esseri umani e delle loro relazioni, accompagnata dalle pagine degli scrittori che più l’hanno segnata e ispirata, ci rivela perché ha e avrà sempre senso parlare d’amore. E che, come scriveva Pessoa, solo chi non ha mai scritto lettere d’amore è veramente ridicolo.
Viviamo nel secolo e nel millennio aperto dall'attentato al World Trade Center. A principiare da quel giorno, l'immaginario mediatico e letterario occidentale è stato dominato dalla paura e dal lutto, in paradossale discrepanza rispetto a un'esperienza di vita ancora connotata da una "normalità" pacifica, benestante e tendenzialmente edonistica. Anche il linguaggio della politica - per bocca dei "nuovi" leader populisti - ha incentrato il proprio discorso sulla paura a discapito della speranza, che era stata la sua stella polare nel secolo precedente. I crolli delle torri gemelli e quelli di borsa non sono bastati a favorire la transizione della società occidentale da un pervicace individualismo alla ritrovata centralità dei "destini generali". La pandemia di questi mesi, attraverso una sorta di manovra a tenaglia, chiude la nostra psiche collettiva in una sacca psicotica, una sindrome da accerchiamento che ripropone la necessità di trovare un linguaggio finalmente capace di esorcizzare le nostre paure e di elaborare i nostri lutti.
In un mondo di solitudini e antagonismi, ricco di eroi solitari e vittorie contro tutti, forse è arrivato il momento di riflettere su quanto la Storia sia stata fatta dalle collettività, dalla condivisione di ideali che porta piccoli gruppi o intere nazioni ad allearsi e a unirsi per uno scopo comune. Questo in fondo è uno dei modi in cui si può leggere la convivenza: siamo tutti diversi ma, se vogliamo, sappiamo stare assieme, allearci per battaglie comuni, avventure collettive, ideali condivisi. Meglio vincere da soli o in gruppo? Due scrittrici e saggiste ci raccontano storie e motivazioni, spesso di donne, del più grande motore dell’umanità: l’unione, la compartecipazione, il saper sacrificare se stessi per il gruppo.
Viviamo in una società caratterizzata da un sempre più accentuato pluralismo: di stili di vita, culturale e religioso. In una società di questo genere le religioni possono giocare un ruolo fondamentale anche rispetto al mondo laico e alla società civile. Possono infatti essere un riferimento identitario (spesso, al di là delle forme di credenza e di convinzione personale) nella società e nella politica, oppure diventare strumento per dar vita a conflitti culturali o, al contrario, per aiutare a risolverli. Un sociologo delle religioni e delle migrazioni ci propone una riflessione di forte attualità per cercare di definire le caratteristiche e i nuovi contorni che una società autenticamente plurale dovrebbe avere. Seguendo alcune piste di approfondimento, e i dati fondamentali per capire il ruolo del pluralismo religioso e delle religioni – in particolare, nel rapporto con l’islam europeo.
“Vietato il gioco del pallone.” Tutto è iniziato così: la chiusura dei cortili, l’impossibilità di tornare da scuola a piedi da soli. Prima le metropoli, poi i piccoli comuni sono stati invasi dalla paura di ciò che poteva accadere ai figli. La crisi della comunità educante, la paranoicizzazione dell’altro, la società del narcisismo e dell’individualismo imperante sono davvero un prodotto di internet e dello smodato utilizzo dello smartphone da parte degli adolescenti? Per comprendere i significati evolutivi e i rischi delle esperienze digitali giovanili, è necessario interessarsi ai miti affettivi familiari e sociali che hanno presidiato la crescita delle nuove generazioni. Da questi si può partire per comprendere le forme del profondo disagio adolescenziale odierno. A cominciare dal sempre più diffuso ritiro sociale, dal sexting e dal cyberbullismo. Da questi si deve partire per alleviare la solitudine e le crisi di una generazione iperconnessa.
La riflessione che propone Shahram Khosravi, antropologo svedese di origine iraniana, verte sulla natura dei confini, fisici e politici, sui rituali e sulle pratiche dell’attraversamento e prende le mosse sia da una ricerca sul campo sia da un’esperienza di migrazione illegale vissuta in prima persona trent’anni fa. Ne emerge un percorso di studio rigoroso sulle frontiere, sulle migrazioni, sulle disuguaglianze e sulle discriminazioni contemporanee che coniuga la metodologia etnografica con narrazioni dense di sensazioni ed emozioni. Nel descrivere questo fenomeno planetario, Khosravi si richiama alle esperienze di alcune minoranze storiche e al pensiero di intellettuali che ne hanno fatto parte, come Said, Kafka, Benjamin e Arendt, ma anche alle testimonianze dei protagonisti diretti. Come quelli che dall’America centrale premono sul confine meridionale degli Stati Uniti o coloro che da più parti si accalcano alle frontiere della “fortezza Europa”. Traduzione Marina Astrologo.
Con la “globalizzazione” si è posto il problema della difficile convivenza di diverse grandi potenze. Ma c’è stata anche una “prima globalizzazione”, all’inizio dell’età moderna, sulla quale è in atto una riflessione storiografica importante. Allora fu l’Europa a guidare una fase rivoluzionaria della storia mondiale. Due furono i modi della tentata unificazione del mondo conosciuto: la conquista e l’assoggettamento politico e religioso del continente americano, fino alla sua assimilazione alla cultura europea, e la ricerca di un “accomodamento” tra cultura europea e culture orientali, avvicinate grazie alla navigazione portoghese fino ai porti cinesi e giapponesi. Qui le dimensioni e la forza politica e militare, ma anche la ricchezza delle culture di India, Giappone e Cina limitarono l’avanzata degli europei a tentativi di penetrazione pacifica mediante il commercio e prove di dialogo tra culture condotte da missionari gesuiti.
Mentre gli sguardi si appuntano sugli sbarchi, sui richiedenti asilo e sui porti che si vorrebbero chiudere, la sfida principale per una visione lungimirante dei fenomeni migratori in Italia riguarda l’integrazione delle seconde generazioni. Una popolazione eterogenea, composta da circa 1,3 milioni di persone, di cui 826.000 inserite a scuola e 30.000 in università. Il termine “integrazione” non a tutti piace. Alcuni amano i più leggeri “convivenza” o “interazione”, altri il più politico “inclusione”. Un’integrazione depurata dagli equivoci comporta tre dimensioni: la prima strutturale (trovare un lavoro dignitoso); la seconda relazionale (stabilire una rete di amicizie); la terza personale (sviluppare le competenze necessarie per inserirsi). Occorre domandarsi se le istituzioni pubbliche e la società nel suo insieme stiano promuovendo le azioni necessarie per favorire l’integrazione delle seconde generazioni. La questione della cittadinanza è emblematica.