Camera d’eco è un podcast di audio recensioni curato da studenti svizzeri appassionati di libri che amano condividere la loro passione per la lettura. Attraverso la loro voce esploriamo lo sconfinato universo letterario e scopriamo quali libri hanno amato, odiato o riscoperto! Tutte le recensioni, andate in onda anche alla radio grazie alla collaborazione tra RSI EDU e Rete Due (Radiotelevisione svizzera), sono disponibili in formato podcast su www.rsi.ch/cameradeco .
RSI - Radiotelevisione svizzera
Gottfried Keller, Johann Peter Hebel, Robert Walser. Sono nomi che a generazioni passate susciteranno forse qualche ricordo studentesco, ma alle orecchie del lettore di oggi paiono ormai vuote di significato. Se aggiungessimo però alla lista alcuni altri elementi, Dürenmatt e Frisch, per esempio, o, ancora, i più recenti Paul Nizon, Gehrard Meier e Peter Bichsel nessuno stenterebbe a riconoscere la linea che collega tre importanti generazioni di scrittori svizzeri.Sono Michele Marchioni e quest'oggi vi accompagnerò in un viaggio a ritroso, alla riscoperta di una delle voci più importanti del nostro panorama letterario. Stiamo parlando di Robert Walser, nato a Bienne nel 1878 e morto a Herisau, nel Canton Appenzello, nel 1956. Il libro che vi voglio presentare venne pubblicato nel 1917 con il titolo Der Spaziergang, la passeggiata, presso l'editore Huber di Frauenfeld. È un breve testo, di circa un centinaio di pagine, che è possibile trovare nella traduzione italiana curata da Emilio Castellani per la casa editrice Adelphi.Prima di tutto però, chi era Robert Walser? "Le tracce che Walser lasciò sul suo cammino furono così lievi che hanno rischiato di disperdersi" nota Georg Sebald, in un saggio in memoria dello scrittore. Giovanni Orelli si domandava, invece, in occasione del centenario dalla nascita, quanta dimestichezza potesse avere il pubblico con questo autore, o se Walser non fosse, in fondo, uno sconosciuto Carneade.Eppure, egli ebbe tanti e grandi lettori, che di lui ebbero grande considerazione. Ricalcando parole altrui e cercando di tracciare un paragone con altri autori, potremmo dire che se la fortuna di Gogol fu determinata dal giudizio positivo di Dostoevskij e se la fortuna di Twain fu legata a quanto di lui ebbe a dire Hemingway, il successo di Walser è legato in gran parte al riconoscimento che gli tributarono altri grandi scrittori.La passeggiata è l'opera che più di altre si avvicina a raccogliere lo spirito dello scrittore e può essere considerata a buona ragione come il modello primario di successive e precedenti variazioni. Qui sono raccolti i temi che riaffiorano altrove nei suoi scritti e qui si esprime al meglio il suo stile nomade e vagabondo. Essa è il racconto in prima persona di un breve viaggio fatto di incontri, arresti, cambi di direzione improvvisi, digressioni e pensieri transitori. In questa gita, che si apre e si chiude nel corso di una giornata, siamo presi per mano dello scrittore, che ci invita a seguirlo e ascoltarlo, in una continua metamorfosi che porta il lettore a chiedersi se si stia ancora parlando del professor Meili, del libraio, del parrucchiere, del pranzo con la signora Aebi o di tutt'altro.La difficoltà del lettore odierno ad avvicinarsi a Walser non sta nel carattere schivo e sfuggente dello scrittore, che in vita non inseguì mai i riconoscimenti e la gloria letteraria, quanto piuttosto nella tendenza del pubblico a ritenerlo un ingenuo e semplice ritrattista di paesaggi. In parte siamo portati a questo equivoco dal carattere stesso della sua prosa, la quale si costruisce sugli incontri più incongrui, casuali e sorprendenti e sulla valorizzazione di cose all'apparenza insignificanti. Ma Walser non è né uno scrittore per semplici, né, come ebbe modo di definirlo Francois Bondy, uno "scrittore per scrittori". La chiave per accedere alla sua scrittura sta in quello che Walser non dice e nella nostra capacità di vedere oltre, di comprendere i sentimenti che muovono il suo animo.
“Spinta verso la prudenza durante la sua giovinezza, scoprì l'amore una volta cresciuta. La sequenza naturale di un inizio innaturale” (Jane Austen).Salve a tutti, sono Vittoria Sessa ed attualmente sto terminando il mio ultimo anno di bachelor in lingua e letteratura inglese ed Italiana presso l'università di Ginevra.Oggi vorrei proporvi una lettura classica, senza tempo, che sin dall'epoca del romanticismo britannico ha saputo raggiungere e toccare nel profondo i suoi lettori, mi riferisco al romanzo “Persuasione”, scritto dell'unica ed inimitabile Jane Austen, personalmente una delle mie autrici preferite, nonché una delle colonne portanti più amate della letteratura inglese ottocentesca.Il romanzo, come del resto tutti i racconti della Austen, si incentra su un'eroina e sugli eventi che l'accompagnano in un percorso di maturazione sentimentale e sociale. Nel caso di Persuasione tuttavia, Anne Elliot, non è una giovane ragazza pronta a scoprire il mondo ed inserirsi nella società, ma una donna che, secondo i gusti dell'epoca aveva già superato quell'età di giovinezza, bellezza e innocenza che ci si aspetta da una protagonista austiniana, ed era invece ormai troppo vecchia, troppo saggia, matura e totalmente disinteressata da ogni tipo di avventura amorosa che le si presentasse, a meno che, non riguardasse una persona in particolare.La protagonista Anne, figlia di un gentiluomo britannico, è considerata dal padre e dalle due sorelle come insignificante, noiosa, quasi trasparente. Nonostante non abbia ancora raggiunto i trent'anni è considerata quasi al termine dell'età da marito, e la sua bellezza giovanile va man mano sparendo lasciando dietro di se un volto stanco e privo di colore. La vita matrimoniale ed amorosa di Anne sembra ormai giunta al termine, quando ritorna in città una sua vecchia conoscenza giovanile, il Capitano Wentworth. Si scoprirà in seguito che tra i due, otto anni prima era nato un amore smisurato che li aveva portati al fidanzamento. Ma essendo a quei tempi solo un povero marinaio non era considerato all'altezza del rango della nostra protagonista che venne persuasa a rompere il fidanzamento con l'unico uomo che abbia mai amato, e che sempre amerà, per il bene della reputazione della sua famiglia. Questo sbaglio madornale la porterà a vivere i seguenti otto anni in un misero stato di rimorso e tristezza, stati d'animo che continueranno anche dopo il ritorno del Capitano, che ancora rancoroso del rifiuto di lei, pur frequentando gli stessi luoghi e compagnie si impegna nell'ignorarla e a trattarla con freddo disinteresse.Questo romanzo mi ha particolarmente toccata per il suo modo di dipingere una giovane storia d'amore iniziata e finita in un batter d'occhio, ma che a distanza di anni si dimostra di non essersi completamente dileguata dalla mente dei due protagonisti. La Austen rappresenta dei sentimenti d'amore molto forti, molto resistenti, che hanno saputo attendere il loro momento nel manifestarsi. La forza del perdono permette ad Anne ed al Capitano Wentworth di riscoprirsi dopo otto anni di congedo, di ri-apprezzarsi e di innamorarsi tutto daccapo di un amore più forte e più maturo di quello giovanile.Consiglio questo libro a coloro che credono nelle seconde occasioni e che vogliono scoprire come l'amore riesce a farsi strada in una mente matura, seria e rassegnata, riportando l'euforia della giovinezza in un cuore che ormai non ci sperava più.
“Non crede che sia proprio questo che la letteratura deve fare, inquietare?, da parte mia non ho fiducia nellaletteratura che tranquillizza le coscienze.” Mi chiamo Patrizia Costa e sono una studentessa in Lingua, Letteratura e Civiltà italiana all'Università della Svizzera italiana. Il libro di cui vi parlo oggi è Requiem. Un'allucinazione di Antonio Tabucchi (1943-2012). L'opera è scritta, nella sua stesura originale, in portoghese ed è poi tradotta in italiano da Sergio Vecchio per Feltrinelli, nel 1992. In una torrida giornata estiva, un uomo si trova improvvisamente catapultato a Lisbona: sa di dover incontrare un importante poeta, ma questo non prima della mezzanotte. Il racconto si stende su un arco temporale di 12 ore, scandite da una serie di incontri, tutti a loro modo bizzarri,con personaggi vivi e morti che hanno popolato il vissuto di Tabucchi, ma anche personaggi immaginari ripescatida letture dell'autore o interamente frutto di fantasia. Ogni dialogo scioglie un groviglio ancora annodato nella vitadi questo io-narratore-autore, facendo del romanzo un viaggio di commiato a persone e luoghi, idee e movimenti.Sogno e realtà, allucinazione o visione e luoghi si accavallano, rimescolandosi poi secondo il gusto proprio dellamemoria di Tabucchi; tutto nell'attesa di imbattersi nel Convitato, l'ultimo personaggio, illustre poeta e autore cheil protagonista aspetta di incontrare da una vita. Un uomo è catapultato all'improvviso a Lisbona e si trova trascinato in diversi luoghi della capitale portoghese,luoghi in cui incontra diversi personaggi: vivi, morti, reali e di fantasia, personaggi che fungeranno da anticameraall'ultimo e tanto atteso rendez-vous. Tabucchi diventa personaggio. Lo diventa per una pulsione incontrollabile, per il desiderio di omaggiare unalingua, dei luoghi e un autore che sono stati per lui la vera culla del sentimento.Lo fa componendo un requiem che ancor prima che cominci la storia, si dimostra altro rispetto al canone e anzi sitinge di striature polisemantiche: è un addio, un congedo, ma anche Un'allucinazione - come avverte il sottotitolo - eancora una “sonata” e un “sogno” - come ci dice Tabucchi stesso nella Nota che introduce il libro. È quindi un canto,che però proviene da produzioni dell'inconscio, dell'anima, della memoria. Tabucchi crea un amalgama di luoghi e persone, plasmate però in forme nuove dal ricordo e dall'immaginazione.Requiem è sì omaggio alla città, la cultura, il folklore portoghesi, ma ancor più a come si siano fatti simulacro,vestigia di un'esistenza.Nell'opera tempo, spazio e coscienza vengono continuamente affermati e negati: la giornata è scandita dacoordinate temporali precise, ma in cui si trovano a convivere il passato remoto, il passato prossimo, un altropresente. Anche lo spazio ci sembra apparentemente concreto, con rimandi a luoghi riconoscibili, in cui compaiono peròzone grigie, localizzazioni difficili e ampi spostamenti che sono omessi da un capitolo all'altro.Insomma, Tabucchi sembra alla ricerca di qualcosa che sia nella realtà e nel tempo, ma che li superi, che viri versol'onirico e l'utopico, alla ricerca di una zona liminare che ha lo scopo di destabilizzare il lettore, portandolo achiedersi: cos'è reale e cosa immaginario? Cosa vero e cosa falso?Tabucchi compone un canto che dice al ricordo di non sgretolarsi, un canto che spera di diventare eco, un'ondasonora in grado di scomporre e ricomporre le certezze del lettore.
«La strada di mille miglia inizia con il primo passo.»La voce dietro al microfono è di Nicola, per quella che potrebbe essere la sua ultima recensione. A chiudere il mio ciclo di consigli letterari vi porto nuovamente un'opera che proviene dal paese del Sol Levante: Musashi. Scritto da Eiji Yoshikawa, apparve per la prima volta a puntante su di un prestigioso giornale nipponico tra il 1935 e il 1939. La prima edizione Superbur della Biblioteca Universale Rizzoli risale al 1994, con la traduzione italiana di Pier Francesco Paolini.Musashi è un romanzo storico che narra le gesta di Miyamoto Musashi, celebre spadaccino noto per l'utilizzo di due spade, nato probabilmente nel 1584 e morto nel 1645. Pur mantenendosi fedele ai fatti storici, Yoshikawa intreccia abilmente dettagli di fantasia, come le imprese ardimentose, le coincidenze fatali, e una grande storia d'amore autenticamente giapponese. Quest'opera non solo ha goduto di molteplici pubblicazioni in volume, ma sono stati tratti ben sette film e svariate opere teatrali.Passiamo ora alle tre ottime ragioni per leggerlo. Per prima cosa, essendo un romanzo storico, la storia narrata restituisce in maniera fedele un pezzo cruciale della storia giapponese. Per i grandi appassionati di storia è dunque una chicca imperdibile. Un secondo punto di forza deriva dal Musashi storico, il quale non era solo un abile spadaccino, ma aveva anche scritto delle opere filosofiche di cui siamo tutt'ora in possesso. Leggere Musashi è dunque un modo per iniziare ad avvicinarsi alla sua filosofia e agli insegnamenti della cosiddetta Via della Spada. La citazione in apertura non era che un assaggio di questi scritti. Infine la parte “romanzata” della storia sarà in grado di catturare tutti i lettori grazie alla varietà degli episodi, degli incontri e delle avventure che vivrà il protagonista.Cosa ci racconta Musashi? Come anticipato il romanzo storico segue la vita di Miyamoto Musashi e lo fa partendo dal dato storico della battaglia di Sekigahara, avvenuta nel 1600. Il giovane Shinmen Takezō, che solo in seguito diventerà Miyamoto Musashi, giace ferito tra i cadaveri di quella terribile battaglia. L'avventura di Takezō non poteva cominciare in modo peggiore: uno sconfitto dalla storia. Grazie all'aiuto dell'amico Matahachi, anche lui scampato alla disastrosa battaglia, Takezō si riprenderà dalle ferite e dalla delusione della sconfitta. Inizia così per i due giovani un lungo viaggio fatto di incontri e di separazioni, di rocambolesche fughe, di storie d'amore e soprattutto di duelli. A cambiare la vita di Takezō sarà specialmente l'incontro con il monaco Takuan, che lo convincerà ad adottare il nome di Miyamoto Musashi e seguire la Via della Spada. Da quel momento in poi Musashi vivrà solo per la Via, con l'obiettivo di diventare il migliore di tutti. Fondamentale per Musashi sarà anche la sua storia d'amore con l'amica d'infanzia Otsū, la quale passerà la vita cercando di ricongiungersi al suo amato, per poi riuscirci prima di uno dei momenti più noti del romanzo: il duello contro Sasaki Kojirō, divenuto ormai l'emblema dei duelli tra samurai.Quello che riesce a fare Yoshikawa è dunque catturare un preciso momento storico e restituircelo nella sua realtà. Quel periodo fu un periodo di transizione estremamente tumultuoso, dove dopo anni di guerre tra i signorotti locali, i cosiddetti daimyō, la nazione venne finalmente unificata sotto il potere del primo shōgun, Tokugawa Ieyasu. La dinastia dei Tokugawa portò al Giappone duecento anni di pace e prosperità, con una profonda e netta divisione delle classi sociali, ma ci vollero tre generazioni per ottenere quel risultato. Negli anni della vicenda di Musashi la situazione era però ancora instabile, e il romanzo mostra bene i fermenti sociali e gli spostamenti avvenuti. Con la pace si giunse alla realizzazione che il potere militare non era più indispensabile, mentre era fondamentale il talento amministrativo. I samurai si trasformarono così in burocrati. Più delle prodezze di guerra contavano disciplina, autocontrollo e istruzione. E così Miyamoto Musashi si fa portavoce di questa transizione, passando da combattente istintivo a uno che anelava l'autodisciplina zen, alla completa padronanza interiore di sé e un senso di comunicazione con la natura circostante. Da semplice samurai a fondatore di una scuola di scherma e filosofo. Insomma In tempo di pace le arti marziali diventano un mezzo per rinvigorire il carattere.
Buongiorno, mi chiamo Maddalena Muscionico e sono una studentessa di letteratura italiana presso l'Università di Losanna. Il libro di oggi rappresenta un vero e proprio lavoro pionieristico nell'ambito della letteratura multiculturale e intersezionale contemporanea. Il libro nasce per la prima volta nel 2001, momento in cui la restituzione autobiografica di scrittrici donne immigrate risulta essere praticamente inesistente.L'intrigante racconto dell'autrice si sviluppa in una forma fluida e si costruisce attraverso l'esplorazione di vari generi, a partire da quello autobiografico, fino a toccare quello antropologico. È proprio la mancanza di modelli dai quali attingere, che porta alla luce un testo letteralmente unico nel suo genere e che difficilmente incontrerete di nuovo nelle vostre letture. Questo libro, scritto interamente tramite immagini quotidiane e comuni, offre uno spaccato esplicito, senza peli sulla lingua, di quella che è la percezione della nerezza in Italia e l'esperienza di discriminazione che ne deriva. L'oppressione, tuttavia, non sempre è violenta ed esplicita, ma può essere anche latente e sottile; proprio per questo, l'autrice cerca di levigare quello che è il nostro sguardo, insegnandoci innanzitutto a dirigerlo nella direzione giusta.Traiettorie di sguardi racconta il viaggio attraverso numerosi paesi, affrontato dell'autrice Geneviève Makaping, immigrata in Italia dal 1982 partendo dal suo paese d'origine; il Camerun. Sempre più, lungo la sua vicenda e la sua esistenza, emerge una presa di coscienza dello sguardo degli altri nei suoi confronti, la consapevolezza di essere osservata e discriminata. Prestando i suoi occhi, l'autrice rende al lettore visibile quello che è il sistema binario alla base di un'intera società, nella quale esistono la normalità e gli altri, l'osservatore e l'osservato, il bianco e il nero. Ma non si limita solo a questo; Makaping ricollega questioni come l'immigrazione e il razzismo sistemico ad un'origine coloniale, formulando una linea del colore e sottolineando l'importanza della memoria pubblica e storica. L'autrice a tal proposito afferma: «Guardo me stessa che guardo loro che da sempre mi guardano».In questo caso l'unilaterale traiettoria compiuta dallo sguardo comune viene ribaltata; infatti, ora sarà Makaping ad osservare, a ridefinire il suo percorso dal margine verso il centro attraverso l'autoaffermazione della propria identità e alterità. Per la prima volta la scrittrice ha il potere e il diritto di raccontare la propria verità, la propria complessa storia di migrazione, rendendo la scrittura uno dei tanti e forse più potenti luoghi di lotta. L'audace voce dell'autrice consente la decostruzione della nostra percezione nazionale etnocentrica, mostrandoci la possibilità di una diversa, ma non per questo meno vera, prospettiva e narrazione della storia.Makaping attraverso questo libro ci insegna ad ascoltare le potenti voci di coloro che ingiustamente non hanno potuto parlare e soprattutto ci permette di metterci in discussione, interrogandoci su cosa voglia dire essere italiani oggi. Nel caso vi piacesse il libro e voleste approfondire l'argomento vi consiglio la lettura di Sangue giusto di Francesca Melandri, L'unica persona nera nella stanza di Nadeesha Uyangoda.
Mi chiamo Andorra Garobbio e studio letteratura presso l'Università di Zurigo. Ho intrapreso la lettura di questo romanzo dopo aver letto e apprezzato molto Il deserto dei Tartari e Un amore sempre di Buzzati.La boutique del mistero, edito nel 2016 da Mondadori, viene pubblicato per la prima volta nel 1968, quattro anni prima della sua morte. L'antologia nasce dalla volontà dichiarata dell'autore di far conoscere il meglio di quanto aveva scritto. La raccolta è composta da trentuno racconti piuttosto brevi, che declinano in modo diverso i temi prediletti di Buzzati, come l'angoscia, la morte, il surreale, il mistero e lo smarrimento. Quello stesso smarrimento si produce fin dalla copertina, su cui compare un disegno firmato dallo stesso Buzzati, Ritratto del califfo Mash er Rum e le sue venti mogli, dove compare un viso maschile e corpi di donne ma in sembianze di vegetali e frutti.Nell'antologia di racconti si ritrovano temi già affrontati in precedenza dall'autore, come per esempio l'attesa infinita che è la colonna centrale su cui si dipana la sua opera maggiore, il Deserto dei tartari.Leggere l'antologia di racconti è stato per me molto coinvolgente: Buzzati fa leva sull'angoscia e sulla curiosità bruciante che spinge a divorare i racconti per scoprire come finiranno. Vi sono racconti segnati dall'inquietudine, come ne La fine del mondo, in cui improvvisamente una mano enorme compare nel cielo. Altri racconti sono più stravaganti e bizzarri, come il racconto Una goccia: la storia riguarda un condominio e il rumore di una goccia, ma non una goccia che cade, bensì una goccia che sale lungo le scale del palazzo. In altri racconti ancora l'inquietudine si accompagna all'angoscia: in Sette piani un uomo viene ricoverato in ospedale per una semplice febbre. L'ospedale è suddiviso in piani, dove ogni piano rappresenta la gravità della malattia. L'uomo viene spostato nei reparti inferiori con pretesti e equivoci continuando ostinatamente a ribadire che lui non è un malato grave, ma allora perché viene trasferito in mezzo ai moribondi? L'intelligenza di Buzzati sta nel scrivere storie che fanno leva su esperienze di tutti i giorni, banali, ma caratterizzate da elementi bizzarri, distorcendo la routine quotidiana con il filtro dell'angoscia.La boutique del mistero di Dino Buzzati (edito nel 2016 da Mondadori) è consigliato ai lettori amanti dei racconti misteriosi, angoscianti, o ai racconti di Edgar Allan Poe e soprattutto per chi vuole approfondire la scrittura dell'autore italiano, assaporando i suoi racconti brevi meglio riusciti. Con una scrittura semplice, ma con un'accurata scelta di parole e immagini, Buzzati narra situazioni ambigue, di inquietudine, surreali, fino a sconfinare nell'improbabile e nell'assurdo.
“Cavallo pazzo non disse nulla, sapeva bene quali fossero la tradizione e il costume del suo popolo. Sapeva che entrare sotto la tenda con una donna e non sloggiare subito avrebbe significato a tutti gli effetti prenderla in moglie.”Ciao a tutti, sono Alessia, studentessa dell'Università di Lugano, e oggi sono qui per parlarvi di uno dei miei libri preferiti: Gli spiriti non dimenticano, scritto dal giornalista italiano Vittorio Zucconi nel 1998 e pubblicato da Mondadori. L'autore ricostruisce la vita di Cavallo Pazzo, figlio del tuono e della grandine, che nel 1876 sconfisse il 7° reggimento a cavallo dell'esercito americano.Zucconi costruisce il suo racconto attraverso i ricordi dei Lakota Sioux delle grandi praterie che gli raccontano la vita quotidiana, i riti e i segreti di una popolazione devastata dall' arrivo degli uomini pallidi.È un libro che dalla prima all'ultima pagina è una scossa all'anima. Un racconto, questo, capace di far trattenere il fiato, di versare lacrime, di far accapponare la pelle. Sono 375 pagine di racconti di infinita bellezza che parlano di una comunità meravigliosa ma ostracizzata e dimenticata troppo spesso.Zucconi, con la sua bravura giornalistica e la sua magica penna, ci accompagna in questo viaggio in terra Sioux dove, pagina dopo pagina, attraverso le sue parole, ci si sente talmente vicini a quella gente da sentirsi quasi uno di loro, e diventa impossibile non appassionarsi alla vita incredibile di Cavallo Pazzo, grandioso guerriero ed esempio superbo di valore e di coraggio, un'icona di sobrietà e di nobiltà d'animo. L'abile giornalista riesce a descrivere con eccellenza la splendida cultura dei nativi d'America, così ricca di riti, così in armonia con la natura, così “civile e umana”.Una cultura complessa e rivestita di grande semplicità ma tristemente calpestata dal “Uas'ichu “, dall'uomo bianco che, nella sua avidità di conquista, non si è minimamente preoccupato di comprenderla cercando invece di cancellarla.Lo scrittore entra con delicatezza e quasi in punta di piedi nella vita di Tashunka Uitiko e per raccontarla, come scrive nelle prime pagine, dovrà chiedere il permesso direttamente allo spirito del maestoso guerriero che ancora oggi aleggia sulla sua terra per guidare il suo popolo.Sarà lo stesso Figlio del Tuono, Cavallo Pazzo, a trascinare il lettore nelle sue imprese, ipnotizzandolo con il rumore degli zoccoli che rincorrono bufali, con l'odore del fuoco che brucia nei tipì, con le grida di gioia delle donne e dei bambini, con la sua lingua così speciale e melodica. Zucconi compone un mosaico di voci e racconti, di ricordi e pezzi di storia magistralmente incastonati nella suggestiva cornice del Nord America. Un libro, questo, per emozionarsi, per riflettere e per meravigliarsi davanti a questa etnia. Un reportage storico, asciutto ed educativo che andrebbe proposto nelle scuole e andrebbe letto ai propri figli per farli diventare uomini migliori.Perché Cavallo Pazzo è un modello da seguire e la sua storia drammaticamente attuale può insegnare ancora molto.
«Romeo può essere un uccello e Giulietta può essere una pietra. Romeo può essere un granello di sale e Giulietta può essere una cartina geografica. Che cosa gliene importa di questo al pubblico?»Mi chiamo Céline Bignotti, sono una studentessa del Master in italianistica e études théâtrales (studi teatrali) all'Università di Losanna e quest'oggi sarò la vostra guida alla scoperta di una delle pièces più rivoluzionarie del Novecento: Il Pubblico di Federico García Lorca, di cui vi consiglio l'edizione italiana di Einaudi (2006) a cura dell'ispanista Glauco Felici.Poeta, drammaturgo, musicista, disegnatore, Federico García Lorca è stato un artista a tuttotondo, detentore senza alcun dubbio di quel duende che dall'alba dei tempi alberga nei corpi dei più grandi artisti.Il Pubblico è un'opera teatrale di stampo surrealista scritta fra il 1929 e il 1930. La pièce, giuntaci incompleta, forma insieme alla Commedia senza titolo e Aspettiamo cinque anni la cosiddetta «trilogia del teatro impossibile», chiamata così per via della trattazione di temi particolarmente scandalosi per l'epoca. Ne Il Pubblico Lorca affronta, infatti, in maniera esplicita il tema dell'omosessualità e il pregiudizio farà sì che la pièce venga messa in scena solo 56 anni dopo la sua stesura. La pièce si svolge per lo più in una dimensione onirica e straniante, in questo teatro sotto la sabbia, nel quale è finalmente possibile mettere in scena il desiderio omoerotico: ma come reagirà il pubblico quando scoprirà che in realtà Giulietta è interpretata da un ragazzo di 15 anni?Il pubblico inizia con il Regista (Enrique) che vuole mettere in scena il classico shakespeariano di Romeo e Giulietta. Quest'ultimo viene interrogato da tre uomini barbuti sulla sincerità della tragedia del Bardo e sull'importanza nell'opera del sesso di Romeo. Si susseguono diverse situazioni surrealiste attraverso le quali l'autore dimostra l'impossibilità di mettere in scena la verità del teatro sotto la sabbia.Nell'opera, in particolare, Lorca sviluppa in modo del tutto audace e spiazzante per l'epoca il motivo del sadomasochismo, che si manifesta per mezzo di continue metamorfosi del Regista (Enrique) e dell'Uomo 1 (Gonzalo), i quali sono protagonisti ne Il Pubblico di una relazione amorosa conflittuale. Le figure iniziano così un gioco omoerotico con ruoli alternati di violenza e sottomissione: - «E se io mi trasformassi in pesce luna » chiede la Figura con i sonagli, - «io mi trasformerei in coltello» risponde la Figura con i pampini. Attraverso l'esplorazione del sadomasochismo, Lorca vuole smentire l'idea secondo la quale esistono dei ruoli predefiniti nelle coppie omosessuali e ristabilire al contempo l'importanza della componente del dolore in una relazione amorosa.Eccoci alla fine del viaggio nell'universo teatrale di García Lorca, come abbiamo visto Il Pubblico è un'opera estremamente enigmatica e rivoluzionaria che rimane ancora oggi attualissima. Raccomanderei la lettura della pièce a tutti coloro i quali s'interessano agli studi di genere; a tal proposito consiglierei anche la lettura della silloge poetica lorchiana dei Sonetti dell'amore oscuro. Olte a ciò, se avete già letto Il Pubblico e amate il teatro di Lorca vi consiglio anche le pièces giovanili di Ramón Gómez de la Serna, un autore tanto eccentrico quanto geniale, che anticipa di alcuni anni questo teatro d'avanguardia.
Un uomo apre con trepidazione una busta che contiene l'atteso referto medico. Legge che il risultato è negativo, ma non riesce a capire se esserne sollevato o se è il caso di preoccuparsi.Una ragazza a un colloquio di lavoro tende la mano e si presenta come Rossi Maria; il selezionatore fa una smorfia come se avesse addentato un limone.Sono piccoli disagi che possono capitare a ognuno di noi e che hanno a che fare con la lingua madre, che tendiamo a dare per scontata e ormai acquisita.Mi chiamo Giuliana Santoro, sono una dottoranda in Linguistica italiana all'università di Basilea, e quello che avete appena sentito è l'incipit del libro “Potere alle parole. Perché usarle meglio” di Vera Gheno, Einaudi editore, un saggio di educazione alla cura della lingua (in questo caso l'italiano), il primo strumento che abbiamo in dotazione per relazionarci nel mondo. Partendo dall'osservazione che la società in cui viviamo ci mette continuamente di fronte a situazioni che richiedono di usare la lingua e di usarla bene, Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall'ungherese, per vent'anni collaboratrice dell'Accademia della Crusca, ci guida per mano in un viaggio alla riscoperta delle innumerevoli possibilità che l'italiano offre ai suoi parlanti, aiutandoci a comprendere che la vera libertà di una persona passa dalla conquista delle parole. “Ognuno di noi è le parole che sceglie: conoscerne il significato e saperle usare nel modo giusto e al momento giusto ci dà un potere enorme” chiosa l'autrice.La qualità della lingua di un popolo dipende dai suoi parlanti e dunque ognuno di noi ha in mano le redini del proprio idioma e, allo stesso tempo, la responsabilità di curarlo, perfezionando la conoscenza delle sue forme e dei suoi meccanismi.Che cosa penseremmo del proprietario di una Maserati che la lasciasse sempre parcheggiata in garage pur avendo la patente o di una persona che pur possedendo un enorme armadio di vestiti bellissimi indossasse sempre lo stesso completo? Queste situazioni atipiche – ricorda Vera Gheno nel libro “Potere alle parole” – fanno pensare all'atteggiamento di tante persone nei confronti della propria lingua: pur avendo accesso a un patrimonio immenso e inestimabile ne usano, per pigrizia, imperizia o comodità una piccola parte.La democrazia ha bisogno di persone che capiscano ciò che succede intorno a loro, non di succubi pronti a farsi incantare da un prestigiatore che seleziona le parole per parlare alla pancia invece che alla testa di chi lo ascolta. Padroneggiare gli strumenti linguistici significa spostarsi agilmente tra i registri scegliendo quello di volta in volta più consono alla situazione in cui ci si trova; significa essere in grado di relazionarsi con ogni tipo di interlocutore, vale a dire saper conversare con gli amici al bar ma allo stesso tempo tenere una presentazione formale in un'azienda o al cospetto di un consiglio comunale. Se ognuno di noi è in possesso, come in effetti è, di uno Stradivari, vale la pena di fare lo sforzo – ci esorta l'autrice- di imparare a suonare decentemente il nostro strumento, diventando ogni giorno più competenti per affrontare le sfide della società della comunicazione. Questa pulsione, questa spinta ad interrogarsi sulle parole che ogni giorno scegliamo, consapevolmente o meno, per raccontarci e raccontare è a mio parere l'aspetto più avvincente del libro, quello che mi ha incatenato alle sue pagine e che mi porta a riaprirle pagine ogni qualvolta la lingua s'inceppa o la rigidità di una grammarnazi si impossessa di me.Perché allora leggere questo libro:Motivo numero 1: per riscoprire la bellezza del contegno linguistico e della gentilezza nei confronti degli altri: questo significa parlare e scrivere al meglio delle proprie possibilità,Numero 2: per capire che nella lingua la norma alla fine corrisponde a ciò che viene percepito come giusto in uno specifico momento storico e sociale Numero 3: per imparare ad amare e a curare di più la lingua attraverso la quale, ogni giorno, raccontiamo agli altri chi siamo.
Compiendo un tuffo nel passato fino alle origini della civiltà, nell'antica terra mesopotamica, ecco apparire davanti a voi Gilgameš, re di Uruk.E con lui dalle nebbie del tempo sbuca Nicola, con la sua consueta recensione. Oggi vi presento l'opera considerata come il primo poema epico dell'umanità: L'epopea di Gilgameš. Il suo autore è purtroppo ignoto, ma il poema nella sua forma contemporanea è stato curato da Nancy Katharine Sandars, importante archeologa britannica. Adelphi ne ha pubblicato la versione italiana, tradotta da Alessandro Passi, nel 1986.La ricostruzione del poema non è stata affatto facile: inciso su molteplici tavolette di argilla, esso è stato rinvenuto nell'epoca d'oro degli scavi archeologici, a metà dell'Ottocento. In origine era frammentato in cinque poemi sumerici, ma in seguito il testo è stato unificato in un'unica narrazione tra il 1600 e il 1100 a.C..Giungiamo ora alle tre ottime ragioni per leggerlo. Innanzitutto essendo un poema epico la storia narrata è un perfetto miscuglio di avventura allo stato puro, di morale e di tragedia. In questo senso non è per nulla diverso dai poemi omerici o dai grandi cicli bretoni e carolingi che tutti ben conosciamo. A questo proposito, per i grandi appassionati di storia e comparatistica questa lettura si rivelerà una vera e propria miniera d'oro: infatti quest'opera non ha solamente influenzato i poemi omerici, ma vi si trovano forti similitudini anche nella narrazione biblica cristiana ed ebraica. Infine, leggere il poema significa entrare in contatto con le origini della civiltà e dell'umanità stessa.Cosa ci racconta L'epopea di Gilgameš? Il poema narra le eroiche imprese di Gilgameš, presunto re di Uruk vissuto verso il 2700 a.C. e in seguito divinizzato. Presentato all'inizio del racconto come per un terzo uomo (da parte di padre) e per due terzi dio (da parte di madre, la dea Ninsun), l'eroe da quest'ultima ha ereditato grande bellezza, forza e irrequietezza, dal primo la mortalità. L'epopea narra la preoccupazione del giovane re con la sua condizione di mortale, che lo condurrà a compiere un lungo viaggio in cerca del suo rimedio: la conoscenza e la vita eterna. In origine solo, Gilgameš conoscerà presto Enkidu (l'uomo creato dagli dèi con dell'argilla), che diventerà il suo migliore amico e compagno di avventure. I due viaggeranno a lungo affrontando nemici vari, tra i quali il Gigante Humbaba, ma soprattutto sconfiggeranno il Toro del Cielo, inviato dalla dea Ištar a devastare la Mesopotamia dopo che Gilgameš aveva rifiutato le sue avances, addirittura canzonandola. Il viaggio alla ricerca dell'immortalità condurrà Gilgameš fino a Utnapištim, unico sopravvissuto al Diluvio e protetto del dio Ea, il quale conosce il segreto degli dèi e condivide questa conoscenza con l'eroe, rivelandogli dove si trova la pianta che dona eterna giovinezza.Il primo poema epico dell'umanità affonda dunque le sue radici in una delle questioni più antiche e permeanti della vita umana: il rapporto con la morte. Sin dalle sue origini possiamo vedere come la produzione letteraria umana si sia concentrata sul tema della morte e della memoria. I problemi che affliggono il giovane re Gilgameš non sono dunque poi così diversi dai problemi che possono affliggere la nostra contemporaneità. Cosa succederà dopo la nostra morte? Qualcuno si ricorderà di noi? Verremo dimenticati? Non sarebbe meglio allora vivere eternamente, così da non perdere i propri cari? Il viaggio epico compiuto dal nostro eroe è un viaggio alla ricerca di queste risposte, con una soluzione che forse non è così banale come può sembrare a prima vista. Certo è, che in qualche modo, direttamente o indirettamente, Gilgameš ha ottenuto la risposta che cercava: la sua fama e la sua leggenda lo hanno reso un eroe immortale dell'umanità, e le sue gesta continuano a essere tramandate di generazione in generazione, fino a voi, i suoi lettori moderni.
Esistono libri che chiunque, anche il meno appassionato dei lettori, conosce. Titoli che risuonano come noti e celebri nelle orecchie di ognuno di noi. È il caso de Il nome della rosa di Umberto Eco, pubblicato per la prima volta da Bompiani nel 1980.Mi chiamo Coralie, studio letteratura italiana, e oggi vi parlerò di questo geniale romanzo, vincitore del premio Strega e tradotto in più di 40 lingue.L'autore, Umberto Eco, non ha bisogno di lunghe presentazioni; oltre a pubblicare saggi e romanzi, è stato professore universitario e direttore editoriale della casa editrice Bompiani. I suoi studi riguardano ambiti diversi: la cultura di massa, la semiotica, ma anche il Medioevo.Ecco quindi che non deve stupirci, e nemmeno spaventarci, l'ambientazione medievale del romanzo. In una nota di commento all'opera l'autore stesso dichiara di avere inizialmente pensato a rendere contemporanea la vicenda, ma alla fine ha cambiato idea fortunatamente.La storia è ambientata in un'abbazia del Nord Italia e a raccontarla in prima persona è Adso da Melk, giovane novizio al tempo dei fatti narrati e ormai anziano, che viaggia insieme al suo maestro, e protagonista del romanzo, Guglielmo da Baskerville.La storia inizia con l'arrivo di frate Guglielmo e Adso presso un monastero benedettino, dove si sono recati per partecipare a un incontro che vedrà due gruppi di religiosi confrontarsi in merito alla questione della povertà della Chiesa. La vicenda religiosa però, pur rimanendo presente, passa in secondo piano quando la quiete dell'abbazia inizia a essere turbata da una serie di misteriose morti, che sembrano essere collegate a un manoscritto segreto, custodito nella biblioteca dell'abbazia e poi scomparso. Guglielmo viene incaricato di indagare sulla vicenda, il suo personaggio è sicuramente uno dei più interessanti: brillante e acuto, capace di giugnere a conclusioni degne delle indagini dei detective protagonisti delle serie TV, condisce le sue ricerche con riflessioni filosofiche e perle di saggezza. Adso è il perfetto co-protagonista, goffo e impacciato sa essere, al momento opportuno, un aiuto prezioso (spesso senza saperlo, ma ciò che conta è il risultato).La vicenda si sviluppa in sette giorni, a loro volta divisi seguendo i ritmi della vita monastica, la trama alterna indagini, riflessioni teologiche e il racconto dell'incontro tra le due delegazioni. Certo quest'ultima parte può sembrare poco interessante, ma fidatevi dell'acuta penna di Eco, capace di rendere divertenti e piacevoli anche questi passaggi.Un grande pregio di questo romanzo è il fatto che possa essere letto da chiunque, a prescindere dall'interesse e dalla conoscenza del mondo monastico medievale, che è piuttosto un vivace sottofondo che si lascia cogliere da ciascuno in modo differente. Gli “addetti ai lavori” potranno apprezzare i riferimenti culturali, teologici e storici (oltre alle citazioni in latino), un lettore curioso si farà invece catturare dall'avvincente trama legata al mistero delle morti e del manoscritto.Eco stesso, parlando del suo romanzo, ha dichiarato che non spetta all'autore decidere quale sia la giusta chiave di lettura, questo è un compito del lettore.
Questa non è un'autobiografia. Afferma lo stesso Roald Dahl nella prefazione del suo libro intitolato Boy (titolo dall'originale inglese: Boy. Tales of Childhood), scritto nel 1984 all'età di 68 anni e pubblicato in traduzione italiana nel 1994 da Salani (traduzione italiana di Donatella Ziliotto). Vi starete chiedendo: come mai questa non è un'autobiografia? L'autore ne spiega subito il motivo: Un'autobiografia è quel libro che si scrive per raccontare la propria vita e che generalmente è zeppo di ogni specie di particolari noiosi.Mi chiamo Marica Iannuzzi e oggi vorrei parlarvi di questa particolare (non) autobiografia.Boy è rivolto al pubblico più giovane ed è corredato da lettere autografe, fotografie e illustrazioni di Quentin Blake, fedele illustratore dei libri di Roald Dahl. Gli avvenimenti narrati si svolgono in Inghilterra e in Norvegia all'inizio del ‘900 e ricoprono l'arco di vita dai 6 ai 20 anni di questo straordinario autore.Roald Dahl, scrittore di romanzi e racconti e anche regista, è un pilastro della letteratura per ragazzi e padre di numerosissimi personaggi ancora oggi celebri. La sua vita è segnata da continue sofferenze: malattie che gli portano via prematuramente moglie e figli e un gravissimo incidente aereo durante la Seconda guerra mondiale. Da difficoltà, troppo ingiuste, e dagli adulti, troppo seri secondo lui, decide di scrivere per i bambini, l'unico modo per divertire anche sé stesso.Boy di Roald Dahl è la sua (non) autobiografia, la selezione di ricordi con cui quest'autore ci dimostra che le esperienze, positive o negative, possono sempre essere trasformate in qualcosa di utile per noi e per gli altri e trasformabili anche… in libri. Non a caso nelle sue storie lui impasta con leggerezza e profondità i personaggi che ha incontrato nella vita e che noi incontriamo in queste sue pagine. Facciamo qualche esempio: dalla sorvegliante della scuola viene alla luce la terribile signorina Spezzindue del romanzo Matilde; dagli sporadici regali in collegio arriva l'ispirazione per scrivere La fabbrica di cioccolato; dalla proprietaria del negozio di dolci che il piccolo Dahl aveva sul tragitto casa-scuola prende vita la nonna del protagonista de La magica medicina. Nell'ultimo capitolo l'autore comincia a parlare del Dahl adulto, uomo d'affari a Londra, definendosi felice, veramente felice (p. 183). Con il suo solito umorismo considera questa vita semplice se confrontata con quella di uno scrittore che è un vero inferno, perché deve forzarsi a lavorare, deve imporsi un orario, deve trovare continuamente nuove idee (p. 183). Secondo lui bisogna essere pazzi, per fare gli scrittori. La loro sola compensazione è un'assoluta libertà. Il loro unico padrone è la loro anima ed è per questo che hanno fatto quella scelta, lui ne è certo (p. 183).E io sono certa che per immaginare, creare, raccontare come questo scrittore bisogna essere geniali, non pazzi. Bisogna diventare grandi restando bambini. Ed è proprio quello che ci accade quando leggiamo Roald Dahl: diventiamo grandi restando bambini. Perché le sue storie riescono a incantarci a ogni età e a trasformare ingiustizie e difficoltà.
Ciao, mi chiamo Nicolekenya Del Curto e sono una studentessa di lingua, letteratura e civiltà italiana all'USI di Lugano. Oggi vorrei parlarvi di un romanzo che, a distanza di anni dalla prima lettura, rimane una presenza viva nella mia esperienza di lettrice: Memoriale di Paolo Volponi, pubblicato per la prima volta nel 1962. Si tratta di un romanzo appartenente alla «letteratura industriale» italiana, un genere letterario nato alla fine degli anni '50 che, attraverso le parole dei suoi autori, racconta la rapida trasformazione dell'Italia da paese rurale a nazione industriale, con tutti gli effetti che questo mutamento ha provocato anche sul piano antropologico. In effetti, se da un lato l'ascesa dell'industria ha permesso il pieno sviluppo della nazione, dall'altro lato ha causato anche un'importante problematica, inizialmente poco considerata: quella dell'alienazione dell'uomo – in particolare dell'operaio di fabbrica –, il suo estraniarsi al mondo lavorativo e, con il passare del tempo, alla vita stessa. Volponi, che per alcuni anni lavorò al fianco di Adriano Olivetti nella sua fabbrica a Ivrea, lo aveva intuito: ascoltando le confessioni di un dipendente a proposito dei «suoi mali», pare che l'autore abbia tratto ispirazione per il proprio romanzo. I malesseri – fisici e psichici – del dipendente della Olivetti sono gli stessi che il lettore ritroverà nel protagonista del romanzo, Albino Saluggia.Siamo in Italia, negli anni Cinquanta del Novecento. Un considerevole flusso migratorio si sposta da Sud a Nord concentrandosi in grandi città come Milano, Torino e Genova, i cui cieli da qualche tempo si sono tinti di grigio e vengono sfiorati dalle alte ciminiere. Quello che era stato un territorio profondamente agricolo viene gradualmente punteggiato da nuovi edifici all'avanguardia, enormi centri produttivi che segnano un cambiamento definitivo non soltanto nell'industria, ma anche nel paesaggio e nello stesso essere umano: le fabbriche. Albino Saluggia è un ex prigioniero di guerra malato di tubercolosi polmonare, che dopo un periodo di disoccupazione viene finalmente assunto in un'anonima industria del Canavese. Ottimista e volenteroso, Saluggia non sa che, tra i corridoi della «grande industria di X», avrà inizio il suo vero calvario, scandito dal ritmo della catena di montaggio e dalla pressione del lavoro a cottimo. Un ritmo monotono e dilaniante, che invece di guarire i «mali» del protagonista – con i quali il libro si apre – li alimenta, trasformandoli in una vera e propria alienazione – dal proprio lavoro, dalla propria vita.La lettura lenta, a tratti immobile delle prime pagine, si fa sempre più incalzante man mano che i disagi del protagonista aumentano. Le descrizioni elegiache della campagna lasciano uno spazio sempre maggiore alle dure parole messe in bocca al protagonista per parlare del luogo in cui lavora: una fabbrica «immobile» che da ogni parte «mandava lo stesso rumore, [...] un affanno, un ansimare forte».Leggendo il più celebre romanzo volponiano ci si immerge davvero in un'esistenza dilaniata dai traumi del passato e le nuove angosce del presente; stati d'animo espressi magistralmente dall'autore con uno stile che pare cogliere tutte le sfumature e gli affanni di un operaio di fabbrica come Saluggia. Ancora oggi vale la pena fermarsi un momento, nella rapidità del nostro quotidiano, ad ascoltare questo «ansimare forte» che vibra tra le pagine di Memoriale – romanzo che, in tutta la sua originalità, ci rivela quale sia il prezzo che il progresso ha richiesto e che, forse, continua a esigere.
«Flashover è il termine che identifica il momento di transizione tra un incendio in crescita e un incendio nella sua fase matura: la temperatura è uniforme, il fuoco ha raggiunto la totalità delle superfici disponibili, tutto brucia all'unisono.»Mi chiamo Antonio Martignoni e studio italianistica all'università di Basilea. Vi consiglio di leggere Flashover: incendio a Venezia di Giorgio Falco pubblicato da Einaudi nel 2020. Giorgio Falco nasce nel 1967 e dal 2004 pubblica libri premiati da numerosi e prestigiosi concorsi italiani.Flashover muove da un fatto di cronaca: il 29 gennaio del 1996 il Teatro La fenice di Venezia brucia. Ad appiccare il fuoco è stato Enrico Carella, con la complicità del cugino e dipendente Massimiliano Marchetti. Carella era in ritardo sulla consegna di alcuni lavori elettrici per la restaurazione del Teatro, per evitare di pagare la penale che le sue finanze non gli permettevano di saldare, decide di provocare un piccolo incidente sul cantiere: appicca un fuoco che si espande portando alla distruzione dell'intero edificio.All'inizio il libro è un romanzo. Viene narrato un pomeriggio di marzo del 1995 in cui un giovane uomo lascia la laguna Veneziana per dirigersi presso un'autoconcessionale: acquista a rate una BMW. Quest'uomo conduce una vita al di sopra delle sue possibilità, una vita che coincide con l'immagine che ha di se stesso, ma non con le finanze di cui dispone. Quest'uomo è Enrico Carella, colui che un anno dopo darà fuoco alla Fenice.A pag.9 la narrazione si conclude, e l'opera di Giorgio Falco si dispiega in quello che non è «né romanzo, né racconto, né saggio, né novella, né poesia: Flashover». «Da qui in avanti rinunci al romanzo» scrive l'autore (rivolto a sé stesso e al contempo a chi legge, a chi ascolta) «ti concentri sui fatti. Soltanto a pag. 185, poco prima della fine ci sarà un ritorno al romanzo: ma cosa succede fra questi due squarci di storia? Nel vero senso della parola Giorgio Falco apre il libro: ricostruisce e decostruisce una storia vera, viviseziona un'ossessione, si interroga sul denaro, sul suo potere seduttivo e distruttivo, smaschera un personaggio e ne ricava la maschera di tutti.All'interno del libro è centrale la riflessione sui 3 minuti. 3 minuti è il tempo richiesto agli impiegati di Starbucks per servire caffé e dolcetti, è il tempo in cui un medicinale di Angelini promette di far passare il mal di testa da ciclo. 3 minuti è la durata di questa recensione. Dato alle fiamme, 3 minuti è il tempo che impiega un salottino del secondo Novecento a raggiungere il flashover irreversibile. Così scrive l'autore: «3 minuti è il fondamento dell'organizzazione capitalistica degli ultimi decenni, la manifestazione escatologica del nostro mondo e, fin dal primo libro che hai scritto, una delle tue ossesioni.»Attraverso le fotografie di Sabrina Ragucci Giorgio Falco diventa personaggio del romanzo. Infatti lo scritto è intrecciato ad una serie di immagini che pur tracciando un percorso indipendente entrano in dialogo con il testo, ritraendone l'autore mascherato. Da queste immagini fiorisce un ragionamento su quello spazio infinitesimale che si pone fra la maschera, che tutti noi quotidianamente indossiamo, e il volto: lì, secondo l'autore, «succede qualcosa di significativo». È quello spazio infinitesimale che porta Enrico Carella a dare fuoco alla Fenice, che lo porta a scontare la sua giusta pena, che gli permette dopo il carcere di iniziare una nuova vita e diventare un professionista del verde… Il libro è ibrido ed eccede qualsiasi definizione perché coincide solo con sé stesso perché è esso stesso quello spazio infinitesimale. Nel suo scottante realismo, con il suo stile forte e mai compiaciuto, Flashover è uno strumento per capire il nostro passato e aprire una fessura verso il futuro.Ed ora eccoci qui, 3 anni (e al contempo 3 minuti) dopo la pubblicazione del libro – inchiodati tra le fiamme incandescenti di un inferno bianco flashover.
La recensione di Alessia Blum, studentessa all'Università della Svizzera italiana
La recensione di Nina Altoni, studentessa all'Università di Losanna
Buongiorno, mi chiamo Maddalena Muscionico e sono una studentessa di letteratura italiana presso l'Università di Losanna. Oggi mi piacerebbe proporvi un libro che, ora più che mai, è sotto la lente dei lettori di tutto il mondo. Si tratta de L'evento di Annie Ernaux, neovincitrice del premio Nobel per la letteratura 2022. Il libro della scrittrice francese viene pubblicato una prima volta in lingua originale nel 2000, per poi essere ripubblicato da L'Orma Editore nel 2019. Il romanzo breve, tanto da poterlo leggere tutto d'un fiato, riporta, tuttavia, un resoconto esistenziale dal peso inestimabile, ovvero quello dell'aborto clandestino che ha dovuto affrontare da giovane. La struttura diaristica del romanzo, che si presta ad essere specchio fedele della vicenda totalmente autobiografica, genera una perfetta simmetria tra forma e contenuto. La lettura di questo testo dal passo rapido, concesso dalla semplice seppur precisa scrittura e dalla intensa analisi introspettiva, permette ad ogni lettore, che sia donna o uomo, di immedesimarsi nella vicenda. Infatti, L'evento, come il titolo stesso suggerisce, non parla unicamente di aborto, ma bensì delle sensazioni provate nel vivere una vicissitudine, qualsiasi essa sia, che stravolge la vita tanto da mutarla per sempre. Si tratta di sensazioni nelle quali risulta impossibile non riconoscersi: è in questo modo che la storia della scrittrice diventa quella di tutti, o meglio, quella di ciascuno di noi.Tramite un'efficace analessi, l'autrice si addentra in una Rouen, cittadella al Nord della Francia, del 1963; una Francia nella quale l'aborto verrà depenalizzato solamente nell'allora lontano 1975. È in questo contesto che la ventitreenne, studentessa universitaria, scopre di aspettare un figlio indesiderato. Eranux, dichiarando “se non andassi fino in fondo a riferire questa esperienza contribuirei ad oscurare la realtà delle donne schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo”, si fa carico di riportare quello che è stato il percorso, pericoloso fisicamente e debilitante psicologicamente, verso una legittima conquista di indipendenza e libertà del proprio corpo.Il linguaggio utilizzato dall'autrice appare inizialmente sconcertante, dal rifiuto di artifici retorici emerge un'apatia scientifica; tuttavia, indispensabile al fine di raccontare quella che si può definire una narrazione eccezionalmente oggettiva. L'autrice ci apre uno squarcio su questo lasso di tempo eternamente sospeso nell'attesa che l'evento - non della nascita, ma della morte – si compia. Tuttavia, la giovane ragazza ancora non sa, che l'evento consisterà propriamente in entrambe le esperienze; ovvero nella compresenza della dicotomia trascendentale di parto e aborto, vita e morte. In questo sorprendente modo Ernaux ci introduce a una visione del tutto filosofica della maternità. Tramite questo sguardo umano ma in una certa misura distaccato, la scrittrice oramai adulta, scioglie quello che tutt'ora viene taciuto, il tabu di un'intera generazione di donne che hanno dovuto crudelmente soffrire per un diritto inderogabile. Risulta, infine, estremamente affascinante il discorso metaletterario, secondo il quale l'esperienza vissuta in quanto essere umano, ma soprattutto in quanto autrice, si concretizza per Ernaux solamente nella conclusione del processo creativo della scrittura, abbracciando in questo modo la denuncia e la guarigione, l'aiuto a tutte le donne e l'aiuto a sé stessa.Grazie a quest'incredibile narrazione in prima persona, la scrittrice non solo ci offre un pezzo di storia, ma anche un pezzo della sua vita. Consiglio, dunque, il libro a chiunque fosse interessato a questo aspetto storico ancora poco narrato e a chiunque abbia voglia di farsi trasportare in una profonda riflessione esistenziale.
Ciao a tutti, mi chiamo Coralie e studio Letteratura italiana, oggi vorrei proporvi il libro In altre parole di Jhumpa Lahiri, pubblicato nel 2016 dalla casa editrice Guanda. Jhumpa Lahiri è un'autrice di origine indiana, anche se è cresciuta negli Stati Uniti, dove si è affermata come scrittrice, iniziando a pubblicare nel 1999. I protagonisti delle sue storie sono spesso immigrati di origine indiana, che, cambiando paese, sono costretti a confrontarsi con importanti differenze culturali.Malgrado in molti sostengano che Jhumpa Lahiri sia una scrittrice autobiografica lei non ama essere definita così; in appendice a In altre parole spiega infatti che per i suoi romanzi ha preso ispirazione dalla realtà delle comunità benegalesi che frequentava con i genitori, creando però delle storie originali e frutto della sua fantasia. In altre parole invece, il primo scritto che pubblica in italiano, come dichiara l'autrice stessa, è una storia integralmente autobiografica che, come scritto sul retro di copertina, racconta “ la storia di un colpo di fulmine, di un lungo corteggiamento, di una passione profonda”. In altre parole, di Jhumpa Lahiri, viene definita a tutti gli effetti una storia d'amore, i protagonisti però sono totalmente inaspettati: da una parte c'è la nostra autrice, che si innamora pazzamente della lingua italiana, incontrata per la prima volta durante un viaggio a Firenze, città che visita durante il periodo universitario insieme con la sorella. Qui scatta la scintilla di un amore che cambierà totalmente la vita dell'autrice, che dopo questo viaggio decide di iniziare a studiare l'italiano, uno studio che la coinvolge e la cattura sempre di più. Dopo aver cambiato tre insegnanti Jhumpa capisce che l'unico modo per imparare davvero la lingua è quello di immergervisi completamente; decide quindi di leggere e scrivere solo in italiano, lasciando da parte l'inglese, ma questo non basta. Capisce quindi che è necessario fare il grande salto e trasferirsi, insieme a tutta la sua famiglia, a Roma. Per molti si tratta di un'idea folle, ma del resto chi non ha mai fatto qualche follia per amore? In Italia continua a studiare e scrivere in italiano, tiene una sorta di diario nel quale racconta del suo rapporto con la lingua italiana. Racconta del triangolo che si forma tra le sue tre lingue (inglese, benegalese e italiano), della frustrazione di sentirsi sempre straniera (in America perché ha origini indiane, in India perché è cresciuta all'estero, e in Italia per entrambi i motivi). In un momento di sconforto ci dice che si sente come bloccata al di là di un muro, che non la abbandona mai, impedendole di sentirsi pienamente padrona di una lingua. Credo che la storia di Jhumpa Lahiri meriti di essere letta e raccontata perché è un grande esempio di determinazione; malgrado le delusioni e le difficoltà la nostra autrice non rinuncia al suo sogno, che si concretizza nella pubblicazione di numerosi volumi in lingua italiana. È una lettura sicuramente diversa dal solito, non ci sono grandi colpi di scena, ma il semplice racconto di una straordinaria quotidianità.
“La marea si era alzata, […] l'unica cosa da fare era star fermi all'ancora e aspettare che la marea cambiasse. Il tratto finale del Tamigi si stendeva di fronte a noi come l'inizio di un'interminabile via navigabile.”Ciao, sono Marta Pizzagalli e quello che vi ho letto è l'inizio di Cuore di tenebra, romanzo di Joseph Conrad. La storia inizia con una nave che attende sul Tamigi l'abbassarsi della marea; è allora che, nell'attesa notturna, il marinaio Marlow inizia a raccontare del suo viaggio avvenuto su un'altra imbarcazione e su un altro fiume, un viaggio compiuto per conto di una compagnia che commerciava avorio. Il romanzo si apre allora come un racconto di fiabe: qui non è però una nonna che racconta ai nipoti, ma un marinaio che narra ai compagni la sua avventura avvenuta nel cuore dell'Africa; narra delle popolazioni indigene incontrate e degli europei lì stabilitisi. Il libro viene prima pubblicato a puntate su rivista, nel 1899, poi edito in volume nel 1902. Io l'ho letto nella traduzione italiana di Flaminio Di Biagi, edito da Newton Compton. Conrad fu uno scrittore polacco naturalizzato inglese, prima di dedicarsi alla scrittura fu marinaio e viaggiò per mare fino all'Africa; viaggio da cui proviene l'ispirazione biografica del libro stesso. Lo scrittore viene talvolta affiancato a James Joyce per l'uso del cosiddetto “stream of consciousness”, il “flusso di coscienza” che conduce la narrazione da un punto di vista introspettivo.In Cuore di tenebra, di Joseph Conrad, il narratore racconta alla prima persona e questo risalta immediatamente come un tratto peculiare: Marlow si mostra essere, infatti, un narratore non solo accurato, ma anche profondamente riflessivo. Marlow racconta del suo viaggio nel cuore dell'Africa, con il compito di trovare e riportare indietro un certo Kurtz, uomo misterioso e di grande successo nel mercato dell'avorio locale, che viene venerato come una divinità dalla popolazione indigena, ma ora gravemente malato. “La sua era una tenebra impenetrabile”, così ne parla Marlow. Il tema del colonialismo è ben presente nella narrazione (e fortemente dibattuto dalla critica), ma non penso in realtà che sia il tema centrale del libro. La questione della prossimità del male al cuore dell'uomo mi sembra, infatti, il tema più urgente che Conrad comunica e Marlow testimonia.Nel raccontare, il narratore rielabora e commenta ciò che vede, usando accostamenti di parole, aggettivi e similitudini molto forti e connotativi: afferma per esempio che “la silente regione selvaggia […] mi colpiva come qualcosa di possente e invincibile, come il male o la verità”. Lo stile di Conrad è affascinante e quasi dolorosamente introspettivo. Il “suo” Marlow non si limita infatti alla semplice registrazione dei fatti, come avviene più spesso nelle fiabe, ma li commenta e vi reagisce emotivamente. Il narratore ci comunica di continuo i suoi turbamenti davanti all'oscurità del cuore umano, che la profondità e la solitudine della foresta primigenia fa emergere con violenza.Una delle cose che mi ha più colpita è il fatto che, nel mostrare il lato abominevole e disperato dell'umano, il narratore non lo giudica come un dato esterno. Anzi: egli ne soffre, soffre sulla propria pelle ciò che vede, perché lo riconosce dormiente anche in sé stesso. Questa mi sembra una questione non solo eternamente attuale, ma anche quasi presagio delle tragedie che poi, di fatto, sono seguite nel Novecento. In Marlow si percepisce il timore nei confronti dell'oscurità che incontra, non perché essa sia inopportuna, ma perché gli è interna, presente anche nel fondo dell'intimo.
Il lonfo non vaterca né gluiscee molto raramente barigatta,ma quando soffia il bego a bisce biscesdilenca un poco, e gnagio s'archipatta. Buongiorno, mi chiamo Marica Iannuzzi e sono una studentessa dell'Università di Zurigo.Quello che avete appena ascoltato è l'incipit di Il lonfo, una delle fanfole più famose di Fosco Maraini. La sua raccolta è stata pubblicata per la prima volta negli anni '60 ed è stata riedita nel 2019 dalla Nave di Teseo con il titolo Gnosi delle fanfole.Ma cosa è una fanfola? Esperimenti di poesia metasemantica – così la definisce l'autore stesso nell'introduzione. Un componimento poetico, quindi, con il quale il poeta sperimenta la poesia (meta)semantica, una poesia che va “al di là” delle parole. Le parole sono apparentemente senza significato, ma rispettano le regole della grammatica e della metrica e i suoni richiamano a qualcosa di conosciuto.Il padre della fanfola è Fosco Maraini, autore italiano, amante e insegnante di lingue e culture orientali e padre della nota scrittrice Dacia Maraini. Nasce nel 1912 a Firenze e nel ‘38 si trasferisce con la famiglia in Asia, dove rimane fino al ‘45 per poi tornare in Italia. È a lui che si deve anche la nascita del termine metasemantica, la tecnica letteraria usata proprio nella sua raccolta di fanfole.La raccolta Gnosi delle fanfole di Fosco Maraini può essere considerata un capolavoro d'invenzione letteraria che raccoglie esperimenti straordinari. A prima lettura i testi possono sembrare confusi, insensati, enigmatici, ma leggendo e rileggendo si possono carpire immagini e narrazioni che – pur travalicando il lessico comune e ordinario – si rivelano linguaggio comunicante. Perché è proprio il linguaggio il vero protagonista. L'autore accosta liberamente parole, il cui suono richiama a forme e a strutture conosciute. Ogni fanfola ha un titolo e ognuna racconta qualcosa e ha un senso proprio. Alcune hanno un tono ironico, altre malinconico, altre ancora esprimono dichiarazioni d'amore o domande esistenziali.Per l'autore la parola è una caramella, qualcosa da rigirare tra lingua e palato con voluttà, a lungo, estraendo fiumi di sapori e delizie. Le parole sono evocative, la fanfola è un testo evocativo, nel quale chiunque, leggendolo – e l'autore consiglia di leggerlo ad alta voce – troverà il proprio significato.E il bello, per me, sta proprio in questo: decifrare una lingua privata e segreta e assistere a veri e propri spettacoli di magia realizzati con le parole. Io ve lo assicuro: tra scontri e incontri di suoni, tra lingua e fantasia, le parole di Fosco Maraini riescono a lasciare chiunque a bocca e orecchie aperte!E un'ultima cosa prima di concludere: durante la lettura o l'ascolto delle fanfole… fate attenzione al vecchio lonfo ammargelluto!
Ciao a tutti, Nicola è tornato ai microfoni con nuovi consigli di lettura per voi. Oggi vi presento l'opera di un autore svizzero: Homo Faber di Max Frisch, edito da Feltrinelli nel 2005 in una bellissima edizione per la collana “Vintage”.Il suo autore è Max Frisch, zurighese nato nel 1911 e morto nel 1991. Nella sua lunga carriera è stato insignito di numerosi e prestigiosi premi letterari. Le sue opere trattano volentieri i temi, e anche le problematiche, dell'identità, della responsabilità e della morale.Eccovi le ormai note buone ragioni per leggerlo. Se vi interessa l'arte questo libro soddisferà il vostro desiderio, offrendovi un importante riflessione sull'arte e il suo valore. Inoltre, se doveste essere un po' dei ficcanaso questo libro vi permetterà di assistere alla complicata e turbolenta vicenda famigliare del protagonista. Infine, il libro è particolarmente breve e scorrevole, con un formato compatto che vi permetterà di portarlo con voi e leggerlo ovunque vogliate.Come in fondo ci ricorda il sottotitolo si tratta di un resoconto (quasi degli appunti sparsi o delle pagine strappate di un diario) di un periodo della vita dell'ingegnere Walter Faber, che girando il mondo per lavoro ha modo di ricongiungersi con una figlia della quale ignorava l'esistenza e con la madre di ella. Ambientato tra Stati Uniti, Venezuela, Italia e Grecia, questo resoconto mostra la vita del razionalissimo ingegnere andare in frantumi, sconvolta dagli eventi di cui resta in balìa. Le visite nei musei, un amore incestuoso, ricongiungimenti difficili, e soprattutto la perdita dei propri cari portano l'irrazionalità nella vita di Faber. Ma è soprattutto la comparsa della morte a fargli capire che la sua vita è sbagliata. È da questa comparsa che l'ingegnere comprende il suo amore per la vita, iniziando così un percorso nuovo, diverso.Homo Faber si presenta come un piccolo museo della vita di Walter Faber, passando attraverso le varie stanze, segnate dal cambiamento dei luoghi, possiamo assistere ai dipinti che Faber stesso ci mostra, a testimonianza delle sue avventure. Il discorso sul museo è particolarmente importante in quanto durante la tappa italiana del suo viaggio, Faber (con suo grande dispiacere) avrà modo di visitarne parecchi, su insistenza della sua compagna di viaggio Sabeth, grande appassionata di storia dell'arte. Per il razionale ingegnere i musei sono infatti dei luoghi morti, a lui interessano i viadotti, le autostrade, il Campari. Alla vista dei dipinti e delle sculture mal cela la sua frustrazione nel dover ascoltare le spiegazioni pompose delle guide turistiche e dei libri di storia dell'arte. Non tollera che qualcuno gli dica come lui debba sentirsi di fronte all'opera. Tanto più che l'opera è muta, morta. Eppure, scorgendo il riflesso di Sabeth sul vetro delle teche, e facendo dei giochi di luci e ombre su dei bassorilievi, ecco che anche Faber si apre alle gioie dell'arte. Finalmente, a modo suo, diventa partecipe dell'entusiasmo della sua compagna di viaggio, riuscendo a scorgere, là dove c'era la morte, la vita. La proposta di Faber per l'arte è quella di viverla a modo proprio, senza le parole degli esperti e delle guide. Questo proposta andrebbe applicata anche alla vita. Messo duramente a confronto con la morte, questa volta quella vera, Walter Faber riflette sul suo vissuto, ma anche sul suo futuro, e quando è ormai completamente circondato dalla morte, decide nonostante tutto di affidarsi alla vita. Non saranno altri a dettare come lui debba vivere o morire, ma vivrà e morirà secondo i propri termini.
– “Perché vuoi restare qui se rimarremo senza lavoro, se non potremo più parlare tedesco, se distruggeranno il paese?”– Perché qui ci sono nato, Trina. Ci sono nati mio padre e mia madre, ci sei nata tu, ci sono nati i miei figli. Se ce ne andremo avranno vinto loro”. (p. 36)Buongiorno! Sono Sofia Bertoli e sto frequentando il Master in lingua e letteratura italiana all'Università di Friburgo. Oggi vi vorrei parlare di Resto qui, un romanzo di Marco Balzano pubblicato con Einaudi, finalista del Premio Strega nel 2018.Nel paesino di Curon, in Alto Adige, sul confine con l'Austria e la Svizzera, abita Trina: una donna testarda, forte, che decise di restare.Restare quando i fascisti le impedirono di fare la maestra, perché bisognava parlare esclusivamente italiano e non tedesco; restare quando in molti accettarono di partire per la Germania, persuasi dalle false promesse del führer di una vita migliore; restare quando costruirono la diga che sommerse Curon, lasciando in piedi solo il campanile, che oggi emerge dal lago artificiale, segno di un mondo sommerso che ormai non c'è più.Il romanzo di Marco Balzano è in grado di dar voce alla storia, la storia di una terra di confine, prima travolta dal fascismo e poi dal nazismo. I fascisti misero al bando tutto ciò che identificava gli abitanti di questo paese di montagna, di cultura principalmente tedesca: il fenomeno di italianizzazione è solo un esempio del loro agire ottuso e violento. A questo seguì poi l'illusione di un cambiamento, le bugie della propaganda nazista, quando Hitler propose agli abitanti di annettersi al Reich nel 1939, portarono molti abitanti di Curon a lasciare la loro terra. Una promessa a cui molti credettero, nel disperato tentativo di conservare la loro identità minacciata dal governo italiano.Poi la guerra. Gli uomini vennero arruolati, le donne dovettero farsi forza. Lavorarono nei campi e attendevano le lettere dei mariti dal fronte, che Trina, l'unica in grado di farlo, leggeva per loro.Trina e il marito Erich, tornato a casa per una ferita di guerra, decisero di fuggire tra quelle montagne sudtirolesi che conoscevano come il palmo della mano. Una fuga disperata, di chi non vuole combattere mai più. Una fuga tra i boschi e i masi, tra il gelo, la fame e il terrore di essere scoperti.La guerra però non aveva fermato il cantiere della diga. E anche quando arriva la pace, il bilancio è disastroso. Nel 1950, nonostante i vani tentativi di opporsi alla costruzione, terminano i lavori della diga: le acque del lago artificiale sommergono per sempre i vecchi villaggi di Resia e Curon, di cui oggi rimane solo il campanile che spunta dall'acqua.In questo romanzo, ai fatti storici si legano le vicende umane, alcune davvero strazianti per Trina, la protagonista: sua figlia, Marica, sparisce nella notte, portata via dagli zii. L'amica Barbara viene mandata al confine per aver insegnato clandestinamente il tedesco.Resto qui è un libro che parla della paura, del coraggio, della sopravvivenza e del resistere. Di chi ha scelto di restare e combattere.Con una scrittura semplice ma efficace, Marco Balzano dà voce ai suoi personaggi, che ci raccontano uno spaccato di storia ancora poco conosciuto. Un libro che non solo è testimone di un dramma collettivo che ha interessato il Sud Tirolo, ma che attraverso Trina e i suoi rapporti umani, i suoi amori, le sue sofferenze, la sua incertezza e il suo coraggio, ci trasmette sincere emozioni durante tutta la lettura.
Quando si pensa a Leopardi si pensa al poeta del pessimismo, al serioso giovane dell'ermo colle immerso in foschi pensieri sull'ineluttabile infelicità umana. Tuttavia, Leopardi è anche un autore capace di ridere, e far ridere, dotato d'una comicità acuta e sottile, anche se spesso amara. Mi presento: sono Enzo Tomaselli studente del primo anno del Master in lingua letteratura e civiltà italiana presso l'Università della Svizzera italiana. L'opera di cui vorrei parlarvi è una delle meno conosciute del grande poeta recanatese, ma si tratta d'un poema a cui lavorò fino agli ultimi giorni della sua vita, dettandone i versi ormai sul letto di morte: i Paralipomeni della Batracomiomachia. Si tratta d'un poemetto in ottave che vuole essere la continuazione del testo attribuito impropriamente ad Omero la Batracomiomachia appunto, "la guerra dei topi e delle rane", tradotto da Leopardi più volte nell'arco della sua vita. Il poema pseudomerico ironizza gli stilemi dell'Iliade e dell'Odissea ponendo come protagonisti i piccoli animali ed elevandoli a nuovi interpreti di vicende eroiche.Il poeta recanatese rivisita però il testo in chiave satirica facendo diventare i topi, protagonisti della storia, rappresentanti dei liberali italiani, le rane dello stato borbonico e i granchi degli austriaci intervenuti per difendere gli anfibi contro i roditori. Il tutto ovviamente porta ad uno straordinario risultato comico e fa diventare il mondo animale specchio del mondo umano. La grande poesia di Leopardi si piega a narrare le vicende dei moti carbonari del sud Italia nel 1820, il che diventa pretesto per parlare della guerra, della politica e del potere.Leggendo i Paralipomeni della Batracomiomachia, si seguono le vicende dei nostri piccoli eroi fuggire dopo lo scontro, o sarebbe meglio dire la disfatta, contro i granchi, eleggere poi il conte Leccafondi come ambasciatore, il quale rappresenta l'immagine parodiata dell'intellettuale ottocentesco. Questi si deve scontrare contro la politica dei granchi, i quali si sono eletti come giudici ed esecutori dell'equilibrio generale del mondo animale, analogamente agli austriaci nell'800, autoproclamati difensori della Pace per l'intera Europa. Il testo offre una riflessione da parte di uno degli intellettuali più importanti del tempo sopra un momento fondamentale della storia politica italiana e non solo. Nel fare ciò l'ironia, a tratti feroce, diventa denuncia verso la società gonfia di valori sterili, pigra e codarda nel portare un vero miglioramento. Divertente, eppure straordinariamente profondo, i Paralipomeni sorprendono continuamente il lettore che mentre legge ridendo alcuni versi scopre passaggi di meravigliosa poesia. Questo piccolo poema può essere un'occasione per conoscere un lato un po' inedito di Leopardi, tra le voci poetiche più straordinarie dell'Ottocento. Le vicende dei topi e delle rane sembrano essere inoltre il testamento poetico del poeta di Recanati: un ultimo sguardo, intessuto di risate, verso il mondo e l'uomo, con tutte le sue contraddizioni, le sue bassezze e i suoi errori. Un testo che resta moderno anche se racconta di fatti lontani, perché in fondo forse anche noi siamo un po' topi: mossi da grandi ideali ma costretti spesso a fuggire con la coda tra le gambe di fronte alle difficoltà.
L'isola di Arturo, tra i romanzi di formazione più amati e che più hanno influito sulla letteratura italiana del Novecento, si fa spazio nel cuore di ogni lettore, andando a sfiorare e risvegliare, con il potere dell'ingenua giovinezza che lo vive, l'infanzia sepolta che si nasconde dentro ognuno di noi.Ciao! Mi chiamo Nina Altoni e studio letteratura italiana, filosofia e cinema all'Università di Losanna, e oggi vi parlerò di uno scrittore, tra i migliori e i più influenti del Novecento italiano. Uno scrittore che ha sempre odiato sentirsi definire scrittrice, al femminile; lei, diceva, si è sempre sentita più scrittore, al maschile. E noi rispetteremo la sua volontà.Elsa Morante è stata tra i più importanti e noti narratori del Novecento. Nel 1957, fu la prima donna ad esser insignita del Premio Strega proprio con il romanzo di cui vi parlerò oggi. La scrittura fu per lei un'attività iniziata già in precoce età: iniziò scrivendo favole e filastrocche, racconti brevi, poesie: buona parte dei quali fu edita da varie riviste e periodici, tra cui il Meridiano di Roma, il Corriere dei piccoli. Per alcuni di questi Elsa scrisse addirittura con pseudonimi maschili. Il suo contributo alla Letteratura italiana è considerato ancora oggi tra i più fondamentali e notevoli, sia per quanto riguarda l'ambiente femminile, che per quello maschile.Ho scoperto questo libro grazie ad un corso universitario e leggendolo, sfogliandone le pagine, attraversandone la storia, l'impressione che sussisteva in me era quella di un'immersione in un passato, in un'infanzia che collimava con un'altra storia che conoscevo abbastanza bene: la mia. Ma non si tratta di una mera questione personale, no. Perché sono sicura che così come mi è parso di rivivere una parte della mia vita attraverso quella straordinaria patina melodrammatica e quella profonda introspezione psicanalitica freudiana, ogni altro lettore può ritrovare un po' di sé stesso in questo piccolo ribelle genuino.Il protagonista, Arturo, un ragazzino di 14 anni orfano di madre e con un padre misterioso e molto assente, abbandonato alla propria vita e a una crescita libera da qualsivoglia costrizione sull'isola di Procida, nell'alone di miticità che pervade il romanzo, incarna in tutto e per tutto l'archetipo dell'infanzia, quel nocciolo mitico che soffochiamo tutti noi, giorno dopo giorno, con un presente troppo occupato a dimenticarsi del passato.Cresce e vive libero, si istruisce grazie alle letture che trova sparse per casa e passa con assoluta spensieratezza epica la propria infanzia. Abita in una misteriosa casa ereditata da un vecchio altrettanto misterioso, anch'essa circondata da un alone mitico che la rende leggendariamente fatale alle donne: la Casa dei Guaglioni.Il protagonista passa la sua vita in questo limbo di pace, fedelmente accompagnato dal cane Immacolatella. Fino all'arrivo della nuova sposa del padre. L'entrata della matrigna nella sua vita, rappresenterà per Arturo una svolta, un punto di rottura, un'incrinatura insanabile, che lo porterà a confrontarsi con un altro aspetto della propria esistenza e della propria libertà. Pubertà e adolescenza divamperanno, consumando le sicurezze e le verità sulle quali Arturo aveva costruito i propri sogni.“Il presente mi pareva un'epoca perenne, come una festa di fate.”L'ingenuità di questo bambino accoglie il lettore in un mondo che chiunque si convince di aver scordato, ma che la Morante, con questo romanzo, riesce a richiamarne i ricordi e le verità più profonde.
Che cos'è la grammatica quando la si prende sul serio? E che nesso c'è tra la grammatica e la mente? Gli errori fanno progredire o regredire la grammatica?Mi chiamo Giuliana Jane Santoro, sono una dottoranda in linguistica italiana all'università di Basilea e vorrei presentarvi “La grammatica presa sul serio. Com'è nata, come funziona e come cambia”, l'ultima fatica di Raffaele Simone, esimio linguista e professore emerito dell'università Roma Tre, editore Laterza.Il libro mira a fare piazza pulita di dicerie e falsi miti in circolazione sulla grammatica, mettendo in evidenza come essa sia il punto d'arrivo di Homo sapiens che cerca un modo per esprimere quello che ha in mente.Lungi dall'essere un insieme di prescrizioni minute e tediose, come spesso si pensa, la grammatica si rivela un territorio d'indagine affascinante, che dice molte cose sulle lingue ma anche sulla natura degli esseri umani. “La storia delle lingue è la storia della mente umana” sosteneva già Leopardi nel XIX secolo.Ma come funziona la grammatica? Quando una persona parla o scrive applica una grammatica, cioè regole, meccanismi e principi di cui non ha alcuna coscienza esplicita. Nel farlo in modo corretto viene aiutata da quello che i linguisti dell'Ottocento hanno chiamato Sprachgefühl, il senso della lingua, vale a dire la percezione immediata di quello che la lingua può e non può fare, che suggerisce quello che è corretto e quello che non lo è.ll libro “La grammatica presa sul serio” ci accompagna in un viaggio avventuroso tra le lingue, svelando somiglianze sorprendenti e sfuggenti al primo sguardo. I famigerati verbi separabili del tedesco o i phrasal verbs dell'inglese, cioè quei verbi costituiti da un verbo e da una particella che ha un po' il compito di rifinire il significato del verbo (per es. give up, live up, ecc.), abbondano anche in italiano. Pensiamo a verbi come andare fuori, andare via, buttare giù, portare su, ecc.: sono i cosiddetti verbi sintagmatici, di cui nessuna lingua romanza – lo sapevate? - è ricca come l'italiano.L'italiano non smette mai di sbalordire appena lo si analizza più da vicino: pensiamo per esempio alle parole alterate (diminutivi, accrescitivi, dispregiativi, ecc.) che si trovano soprattutto tra nomi e aggettivi e con le quali l'italiano ha un rapporto speciale. In inglese queste forme sopravvivono solo in poche voci cristallizzate, come booklet (libretto) o doggie (cagnetto). La stessa cosa accade in francese con filette (ragazzina), altrimenti il problema si risolve con l'aggiunta di aggettivi; in italiano invece le forme alterate sono molto produttive e hanno una grammatica del tutto irregolare. I nomi alterati si applicano ad alcune categorie e ad altre no senza un motivo visibile. Per es. si può dire che il ragazzo è biondino ma non è simpatichino, la casa è bellina ma non è vicinetta. Inoltre, molti alterati non indicano solo dimensione (come manina e palazzone) ma hanno una forza espressiva, pragmatica, cioè hanno a che fare con l'intenzione espressa da chi comunica il messaggio. Se ci viene chiesto di mettere una “firmetta” sotto un documento – fa notare l'autore Raffaele Simone - il diminutivo non significa che la firma debba essere piccola, ma che non richiede un grosso sforzo, dunque che il gesto che ci viene chiesto è poco impegnativo.La lingua può essere anche pericolosa, visto che alcuni reati sono costituiti solo da quello che si dice, come nel caso della calunnia e della diffamazione. Forse per questo la grammatica di molte lingue prevede delle risorse per evidenziare se chi parla conosce direttamente ciò di cui parla oppure lo ha saputo in altro modo. A seconda che quell'informazione sia conosciuta direttamente o no, cambia anche la responsabilità di chi parla verso quello che dice. L'italiano e le lingue sorelle per esempio usano mezzi lessicali per segnalare che si sta parlando di cose non sicure, per es. che io sappia, dicono che, sento dire che, oppure impiegano un condizionale “Maria sarebbe a Berna”. Altre lingue invece usano mezzi solo grammaticali: è il caso del tucano, lingua dell'Amazzonia nord-occidentale, che usa un suffisso diverso del verbo a seconda che l'informazione riportata derivi da un'osservazione visiva, da una non visiva, da una mera inferenza, da una supposizione sulla base del buon senso, dal racconto di qualcun altro.Insomma, ci sono almeno tre buoni motivi per leggere “La grammatica presa sul serio. Com'è nata, come funziona e come cambia.”: per sapere di più sulla lingua che parliamo ogni giorno, dunque per conoscere meglio quello che diciamo e perché lo diciamo, ma anche per capire meglio la nostra mente e dunque, in ultima istanza, noi stessi. Va da sé che il libro vi farà innamorare proprio di lei, della grammatica, di questa silenziosa, timida ma geniale direttrice d'orchestra al servizio della mente umana.
A Istanbul esiste un museo particolare, creato all'interno di una vecchia casa dipinta di un rosso sbiadito sotto il sole della Turchia. È il museo dell'innocenza, creato nel 2012 per volere di Orhan Pamuk, scrittore turco e premio nobel per la letteratura nel 2006.Mi chiamo Andorra e vi parlo di questa insolita storia perché il museo dell'innocenza è stato tema della mia tesi di laurea presso l'Università della Svizzera Italiana. Gli oggetti esposti al museo dell'innocenza sono minuziosamente descritti nel romanzo omonimo di Pamuk, pubblicato in italiano nel 2009 per Einaudi. È un romanzo che attraversa un ventaglio di emozioni: gioia, ansia, malinconia, dolore, struggimento, speranza, disperazione, espressi nel rapporto ondulante tra i due personaggi del romanzo.Il romanzo è ambientato nella Istanbul degli anni '70, sullo sfondo della crisi politica di governo, ma il focus è tutto sullo struggimento di Kemal, che, seppur già promesso fidanzato e a pochi mesi dal matrimonio, intreccia una relazione clandestina con Füsun, per di più sua lontana parente e appena maggiorenne. In poche settimane Kemal sente un profondo legame con la ragazza e quando lei si dilegua senza notizie, Kemal rompe il fidanzamento per cercare disperatamente dell'amata Füsun. Un giorno, all'improvviso, Füsun si rimette a contatto con Kemal e lo invita a casa dei propri genitori, dove vive. Kemal si precipita a casa dell'amante con il cuore palpitante, ma ad aspettarlo c'è solo un'enorme delusione: Füsun ora è sposata. La notizia affonderebbe le speranze di molti, ma Kemal non si fa scoraggiare e continua a frequentare la casa di Füsun, pure con il nuovo marito presente! Per 8 lunghi anni Kemal si presenta a casa della famiglia allargata, sedendosi a tavola con loro e amando di nascosto la ragazza, dividendo i pasti con il suo nuovo marito. La distanza incolmabile che Kemal sente tra sé e Füsun viene accorciata solo dagli oggetti che Kemal puntualmente sottrae dalla casa di Füsun si intasca, come il più innamorato dei cleptomani. La penna di Pamuk narra con delicatezza e sensibilità il sentimento profondo e ossessivo di Kemal per l'inafferrabile Füsun e dipinge con semplicità e eleganza la società turca degli anni ‘70, le profonde contraddizioni di una società combattuta tra il volersi aprire alle novità occidentali e il restare ancorata alle tradizioni. Oltre alle grandi capacità stilistiche, la storia possiede un'originalità creativa di tutto rispetto. Ogni oggetto che Kemal sottrae da Füsun o che rappresenta un momento passato con lei è descritto nel testo e si trova esposto nel museo dell'innocenza di Istanbul, creato per volere di Kemal stesso, il quale ha affidato il progetto nelle mani di Pamuk. È un procedimento contorto ma geniale: il personaggio di finzione, del romanzo affida all'autore il compito creare un luogo reale e concreto, rompendo così la membrana che separa finzione e realtà. Se vi siete incuriositi, vi invito a ottenere una copia del romanzo il museo dell'innocenza di Orhan Pamuk, edito da Einaudi per la versione italiana nel 2009, rigorosamente cartaceo:, ogni copia del romanzo cartaceo contiene infatti un biglietto valido per un'entrata gratuita al museo dell'innocenza di Istanbul.
Lo storico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, affermava che “per una parte non infima degli italiani il passato africano si è come pietrificato, e non c'è revisione critica che possa scalfirlo". Il romanzo di oggi cerca di esprimere in forma narrativa l'indicibile, raschiando con vigore la superficie arrugginita di una montagna fatta di bugie, e mezze verità.Ciao, mi chiamo Michela e sono dottoranda in italianistica alla Ohio State University, negli Stati Uniti.Oggi vi propongo il libro Sangue giusto, di Francesca Melandri, pubblicato da Rizzoli nel 2017 e selezionato al Premio Strega al 2018 nonché vincitore del premio Sila '49.Francesca Melandri è una scrittrice e sceneggiatrice italiana. Sangue giusto è il suo terzo romanzo che ha ricevuto molta attenzione all'estero, ma non ha avuto molta fortuna in ambito italofono; forse perché è uno di quei libri che ci mette un po' a disagio e ci pone davanti a questioni del passato che riguardano non solo un piccolo gruppo di persone, ma un paese intero. Partendo dai luoghi comuni dell'avventura coloniale italiana, che tentano di dare un'immagine positiva e rappresentare lo stereotipo degli “Italiani brava gente”, Melandri sposta invece l' attenzione sull' ammasso di corpi, schiavi e figli bastardi nascosti dietro narrazioni romanzesche e paesaggi lussureggianti.Il romanzo si svolge principalmente in Italia tra il 2010 e il 2012, ma anche in Etiopia, tra il 1936 e il 1940. La storia comincia con la protagonista, Ilaria Profeti, imbattersi sul pianerottolo di casa con un giovane etiope, Shimeta Ietmegeta Attilaprofeti che afferma di essere nipote di Attila Profeti, il padre novantenne di Ilaria. Questa rivelazione, spingerà la donna a cercare risposte sul passato (e presente) razzista di suo padre e le menzogne che lui e la sua generazione hanno contribuito a costruire circa i crimini commessi nelle colonie italiane durante il fascismo.Narrare questo doloroso passato della famiglia Profeti non è facile, ma Melandri lo fa con uno stile quasi cinematografico, che guida agevolmente la lettrice attraverso una parte di storia italiana che è ancora poco esplorata. In fondo è complicato raccontare un'Italia che non vuole fare i conti con la propria eredità coloniale. Melandri riesce anche a svelare come l'ossessione italiana per la purezza della razza e il “sangue giusto” non siano davvero dei concetti che ormai fanno parte del passato. Infatti, nel cercare di aiutare Shimeta, Ilaria scoprirà presto che, se il ius sanguinis stabilisce il diritto di cittadinanza per i figli di italiani, per chi ha la pelle scura avere il “sangue giusto” non basta:“Articolo 3 della legge 882 del 13 marzo 1940: Il meticcio non può essere riconosciuto dal genitore cittadino. Al meticcio non può essere attribuito il cognome del genitore cittadino. Articolo 5: Il mantenimento, l'educazione e l'istruzione del meticcio sono a totale ed esclusivo carico del genitore nativo. ”Sangue giusto è un romanzo storico, avvincente e intenso, perfetto per chi ama il genere e per chi vuole approfondire questioni legate alle conseguenze passate e presenti del colonialismo.
Mi chiamo Coralie e sono una studentessa di Letteratura italiana.Oggi vi presento un romanzo che ho particolarmente apprezzato, malgrado appartenga a un genere diverso rispetto alle mie solite letture. Si tratta del giallo L'enigma della camera 622, scritto dal giovane autore svizzero Joël Dicker e pubblicato dalla casa editrice La nave di Teseo nel 2020.Joël Dicker, classe 1985, è un autore di origine ginevrina che negli ultimi anni ha pubblicato numerosi romanzi, riscuotendo un certo successo anche all'estero, tanto da essere definito il nuovo re dei thriller.L'enigma della camera 622 è un romanzo che cattura l'attenzione del lettore, alternando intrighi amorosi, misteriose vicende legate alla sicurezza nazionale e segreti familiari; l'autore riesce a creare un mix di vicende mai banali. Non si può fare a meno di leggere un capitolo dopo l'altro, alla ricerca di risposte che, puntualmente, arriveranno solo alla fine del romanzo.Avendo ricevuto questo libro come regalo di Natale ho iniziato a leggerlo poco prima degli esami, e vi confesso che, più volte, mi sono ritrovata a rimandare lo studio per poter leggere ancora un capitolo!L'enigma della camera 622, di Joël Dicker è ambientato tra le Alpi svizzere; la trama è apparentemente semplice: un giovane autore, vittima di una delusione d'amore e del temutissimo blocco dello scrittore, decide di fuggire da Ginevra per trascorrere qualche giorno in un lussuoso hotel tra le Alpi. Tuttavia il soggiorno si rivela essere tutt'altro che una vacanza: infatti, incoraggiato da Scarlett, sua vicina di balcone, il protagonista decide di indagare su una misteriosa morte avvenuta nella camera 622 quindici anni prima, durante un evento di gala organizzato da una delle più importanti banche di Ginevra, nel corso del quale avrebbero dovuto avvenire l'annuncio del nuovo presidente. Ed è qui che la trama inizia a complicarsi: come spesso accade nei romanzi di Dicker, infatti, vengono raccontate contemporaneamente più storie, costringendo il lettore a viaggiare nel tempo tra un capitolo e l'altro.E così, di fianco alle vicende “presenti” di Joël e Scarlett, facciamo la conoscenza di tutti i protagonisti della famigerata cena con delitto: Macaire Ebezener, figlio del defunto presidente e incapace di mostrarsi all'altezza del padre, sua moglie Anastasia, una giovane donna dal passato tutt'altro che roseo, Lev Levovitch, un collega di Macaire attorno al quale aleggia una nube di mistero, e molti altri. Nel corso del romanzo esploriamo la vita di questi personaggi dall'infanzia all'età adulta, e, pagina dopo pagina scopriamo loro segreti. Il romanzo è una sequenza di rivelazioni e colpi di scena, che porteranno finalmente alla risoluzione del mistero.Se siete alla ricerca di una lettura leggera ma appassionante, ricca di colpi di scena mai banali, non potete non dare una possibilità a Joël Dicker e al suo romanzo L'enigma della camera 622, pubblicato nel 2020 da La nave di Teseo.
Ancora nel 1950 si potevano vedere, nella città di Pforzheim, innalzate su cumuli di macerie, delle croci di legno inchiodate. Erano queste il triste lascito di una campagna di distruzione che, tra il 1942 e il 1945, aveva raso al suolo la maggior parte delle città tedesche. Un'immensa opera di bombardamento che, alla fine della guerra, lasciò alle proprie spalle più di sette milioni di sfollati e senzatetto, mentre più di seicentomila persone persero la vita.Ciao a tutti, sono Michele Marchioni e studio letteratura all'Università della Svizzera italiana. Il libro che ho deciso di portare per l'incontro di oggi tocca un tema tanto lontano quanto vicino. Lontano perché tratta avvenimenti distanti nel tempo – cioè la Seconda guerra mondiale – e vicini, perché parla di problemi molto attuali anche per noi.La Storia naturale della distruzione è il titolo di una raccolta di diversi scritti di Georg Winfried Sebald sul tema della memoria collettiva, della percezione della storia e dell'identità personale. È il frutto di un lavoro che confluì in un unico volume a seguito di un ciclo di conferenze che lo scrittore tenne a Zurigo. Nel 2004 Adelphi ne ha pubblicato la versione italiana.A partire dal 1942, quando già le sorti del conflitto stavano delineandosi a sfavore dei tedeschi, le forze britanniche e americane misero in atto una campagna di bombardamento aereo sul territorio nemico, per indebolirlo e per fiaccare il morale della popolazione. Nessuna città tedesca fu risparmiata dalle bombe. Nel suo libro Sebald si interroga su quali furono le conseguenze della guerra condotta dagli alleati contro la Germania nazista.Come racconta molto bene lo scrittore, i danni materiali e morali portati dai bombardamenti alleati sulle città tedesche furono enormi. Ma che cosa provarono milioni di persone nel momento in cui le proprie case crollavano a pezzi, mentre le bombe al fosforo appiccavano incendi che si propagavano per le strade e per i tetti?La devastazione portata dalla guerra divenne in Germania, secondo Sebald, un infame segreto di famiglia, un argomento da dimenticare. “Ma ciò rappresenta un insieme di circostanze assolutamente paradossale” – sostiene Sebald – “se si pensa a quante persone furono in balia di quegli attacchi – per giorni e giorni, mesi e mesi, anni e anni – e per quanto tempo, nel lungo periodo del dopoguerra che ne seguì, esse dovettero misurarsi con conseguenze tali da soffocare qualsiasi atteggiamento positivo nei confronti della vita”.D'altronde, nota lo scrittore, come avrebbe potuto il popolo tedesco pretendere risarcimenti e giustificazioni per le violenze subite, dopo quanto esso stesso aveva causato? I tedeschi erano colpevoli e non avevano diritto di elaborare la propria colpa. Fu così che l'argomento fu messo a tacere, divenendo nel corso degli anni, il grande rimosso del popolo tedesco.Cercando di ricostruire come i generali inglesi e americani avessero progettato e portato avanti il proprio piano di azione, Sebald si chiede fino a che punto un'operazione di questo genere fosse strategicamente e moralmente giustificabile. La domanda, naturalmente, vale anche per noi. Ci basti riportare un particolare inquietante, che spero farà riflettere. Nel 1952 il generale di brigata Frederick Anderson concesse un'intervista a un giornalista di Halberstadt. Il giornalista chiede all'intervistato se l'attacco alla città si sarebbe potuto evitare, innalzando, ad esempio, una grande bandiera bianca sul tetto del campanile della città. Nella sua risposta il generale rileva che il carico di bombe costituisce una merce costosa, nell'atto pratico non la si può buttare via, scaricandola sui monti o nelle campagne, dopo tutta la fatica fatta in patria per produrle.Come ricordava Wiston Churchill, costruire può essere un lento e laborioso compito di anni, distruggere può essere l'atto sconsiderato di un solo giorno.
Un'anziana diva è improvvisamente pronta a svelare al mondo la sua verità sui meccanismi della vecchia Hollywood e il loro effetto sulla sua vita privata. Sceglie di farlo attraverso una giovane giornalista, alla quale affiderà segreti a lungo custoditi, tra cui il più intrigante: l'identità del suo vero grande amore.Mi chiamo Noelia, ho 23 anni e sono al terzo anno del mio Bachelor in Pedagogia presso l'Alta Scuola Pedagogica di Muttenz, nel Canton Basilea campagna. Ho tanti interessi, tra cui il cinema e la letteratura. Leggo diversi generi, al momento prediligo narrativa filosofica o psicologica.Ho scelto di proporvi un libro dell'autrice americana Taylor Jenkins Reid, intitolato “The seven husbands of Evelyn Hugo”. Pubblicato nel 2017, è stato uno dei romanzi più acclamati e chiacchierati nella comunità di lettori anglofona. In Italia “I sette mariti di Evelyn Hugo” è uscito nel 2021, da Mondadori.Ma non lasciatevi ingannare dal titolo e dalla copertina da romanzo rosa di questa pubblicazione! Perché quella che sembrerebbe la solita e superficiale storia sugli scandali del mondo del cinema, è in realtà un racconto profondo e toccante. “I sette mariti di Evelyn Hugo” tratta con straordinaria sensibilità problematiche sempre attuali, come il sessismo, il razzismo e l'omofobia. Ci si sente catapultati nell'affascinante mondo della vecchia Hollywood, dall'apparente facciata perfetta dietro cui si nascondono però tanta ipocrisia e lati oscuri.A dispetto di quanto il titolo possa suggerire, “I sette mariti di Evelyn Hugo” non si concentra sui mariti, quanto piuttosto su Evelyn stessa, un'anziana diva del cinema. Parla della sua ascesa nel mondo maschilista di Hollywood, degli anni d'oro dell'industria cinematografica e di un grande amore segreto il cui fallimento è stato il duro prezzo da pagare per il successo. Il lettore scopre la sua movimentata storia attraverso le interviste che Evelyn concede alla giovane e quasi sconosciuta giornalista Monique, la quale ha sorprendentemente prescelto per affidarle il compito di pubblicare la sua bibliografia.Ho scoperto “I sette mariti di Evelyn Hugo” passando del tempo su TikTok l'anno scorso, durante la pandemia. Su #BookTok se ne parlava e discuteva talmente tanto e con tale entusiasmo, che ho deciso di leggerlo. Alla fine del libro, mi è rimasta quella sensazione di vuoto che si prova dopo essere stati totalmente risucchiati da un racconto. Avrei voluto rimanere nel mondo di Evelyn ancora un po'. Vi raccomando di leggere assolutamente questo romanzo per tre motivi:Il libro è caratterizzato da un bellissimo simbolismo e, nel corso delle pagine, Evelyn insegna al lettore lezioni preziose sull'amore, sulla vita e sulla perdita.Penso che la caratteristica di un grande libro sia quella di farti dimenticare completamente che stai leggendo, e questo è esattamente quello che succede con "I sette mariti di Evelyn Hugo". La scrittura di Taylor Jenkins Reid è molto avvincente e toccante.Infine, penso che si tratti di un racconto che possa aprire gli occhi su molte tematiche, soprattutto sulle lotte della comunità LGBTQ+ per i loro diritti, mostrando quanta strada ancora c'è da fare.“I sette mariti di Evelyn Hugo” raccoglie tutte le ipocrisie e il perbenismo di un ambiente e di un'epoca sbattendoli in faccia al lettore, senza mezzi termini e senza complimenti. Il suo messaggio globale è che ognuno di noi dovrebbe avere la libertà di essere sé stesso e di amare chi vuole, perché l'amore ha molte facce. E ciò dovrebbe valere sempre, anche nella nostra società contemporanea.Concludo con una citazione di Evelyn Hugo, che racchiude proprio questo messaggio:“La gente pensa che l'intimità sia una questione di sesso. Invece è una questione di verità.”
Qualche volta (…) mi pigliano in giro, mi chiamano professore (…). Ma io li lascio dire gli piace sporcare le cose. Io lo so che sono ignorante, ma così lo sono di meno. Lei mi ha fatto capire dove sono le cose buone, e capire le cose mi piace.Ciao, sono Marta Pizzagalli e oggi vi parlo di Fine pena: ora, libro di Elvio Fassone, pubblicato nel 2015 da Sellerio. Elvio Fassone è stato magistrato del Co nsiglio superiore della magistratura e Senatore della Repubblica. Nel 1985 incontra il giovane Salvatore: è un capo della mafia di Catania, per cui in quell'anno si apre un maxi processo a Torino. Elvio è il giudice del processo, al termine del quale Salvatore verrà condannato all'ergastolo. Nonostante ciò, dopo il processo, tra i due si instaura un lungo rapporto epistolare, che continuerà fino alla morte in carcere di Salvatore, avvenuta dopo ventisei anni di prigione. Il libro tesse la storia di questo scambio e del rapporto impensabile nato fra un giudice – il “presidente”, come lo chiama Salvatore – e un ergastolano. Si racconta il travagliato viaggiare di Salvatore da un carcere d'Italia a un altro, il suo studio per ottenere la licenza elementare, poi di terza media, il suo lavoro continuo in cooperative, come giardiniere, come pasticciere; e i tentativi falliti di ottenere la semilibertà.Fine pena: ora, di Elvio Fassone, è diviso in 55 brevi capitoli ciascuno con un titolo indicativo del tema raccontato, e termina con un'inaspettata appendice, di cui vi parlerò meglio fra un istante. Nelle pagine, Fassone mostra una grande abilità scrittoria combinata a un'acuta sensibilità umana. Egli è infaticabile nel riflettere sulla giustizia del sistema giudiziario, e si interroga profondamente sulla sua effettiva efficacia. Come affermarla, del resto, difronte alla prova concreta del fatto che il sistema sta in realtà impedendo a un uomo di re-inserirsi nella società, dopo il percorso di ri-educazione intrapreso? Come non considerare ciò un fallimento? Le domande e questioni che Fassone si pone interrogano chiunque: parla della libertà, della speranza, della colpa, dell'amore, della ragione per vivere, di Dio, della disperazione, dell'educazione, della responsabilità dell'individuo e di quella della società.Leggendo, ho percepito tutta la drammaticità del “fine pena: mai”: siamo infatti posti di fronte alla storia di un uomo che cerca disperatamente e sinceramente una redenzione, ma a cui il sistema e la società (e dunque noi!) ci dimostriamo ciechi, incapaci di vedere e riconoscere l'umano.Il racconto non è fine a sé stesso: questa storia viene narrata perché si vogliono cambiare le cose. Ciò si mostra nell'appendice, ove Fassone spiega e propone degli atti concreti che si possono fare per cambiare la situazione giudiziaria. Propone scelte, leggi, riforme e vie attuabili. L'amarezza che la testimonianza di Salvatore lascia insinua così la speranza e il desiderio che Salvatore non abbia sofferto invano, che possa essere il martire che fa progredire e muovere la macchina giudiziale.Il libro è struggente e mi ha colpita per la drammaticità e attualità della vicenda raccontata: nella storia di Salvatore, sono le regole e le procedure applicate troppo rigidamente e senza tener conto del fattore umano lì presente a causare la “dannazione” di un individuo.Il peccatore che piange fino alla morte per i suoi mali non meriterà mai il perdono? Non colmerà mai il vuoto che ha creato con il suo male? Quelle lacrime che non compensano possono però fare qualcosa? È possibile ricominciare?
Salve a tutti, mi chiamo Vittoria Sessa, e frequento il terzo anno di bachelor in letteratura inglese ed italiana presso l'università di Ginevra.Oggi parleremo di un romanzo che ho avuto il piacere di leggere due volte, da bambina e recentemente da studentessa. Si tratta del Barone rampante, uno dei tre romanzi, tra cui il visconte dimezzato e il cavaliere inesistente, che compongono la raccolta di libri “la trilogia dei nostri antenati” di Italo Calvino, una trilogia dai toni fiabeschi che indaga il tema dell'identità. Ambientato in un paesino della Liguria del 700, nel contesto storico dell'illuminismo e della rivoluzione francese, il barone rampante affronta la tematica del distacco dall'usuale e dal socialmente accettabile, imparando a vivere la vita attraverso un nuovo punto di vista. Un romanzo che contiene tutte le esperienze essenziali della vita di un uomo; le battaglie contro i nemici, l'affetto per il fratello e l'amore per una donna. Una vita del tutto normale, non diversa da quella di chiunque altro, con la differenza che il nostro protagonista la vive interamente sugli alberi.Ritorniamo dunque alla recensione del Barone rampante di Italo Calvino, uno dei tre romanzi componenti la trilogia de “I nostri antenati”, opera più conosciuta dell'autore.La caratteristica principale del romanzo, nonché il filo rosso di tutta la storia, è il fatto che il protagonista principale, Cosimo piovasco di Rondò, un giovane nobile, decide che non avrebbe più tollerato le costruzioni e le rigide regole della società e dei suoi genitori, e che sarebbe andato a vivere sugli alberi della sua tenuta promettendo a se stesso che non sarebbe mai più sceso. Promessa che, contrariamente all'opinione di tutti, riesce a mantenere, Cosimo diviene infatti parte integrante della comunità del suo villaggio dimostrando a se stesso e agli altri che la vita tra le fronde di quei pini marittimi era altrettanto efficace, passionale e impegnativa come quella di coloro che camminavano sulla terra. Tra le tante avventure che Cosimo vivrà correndo tra i rami degli alberi, ci sarà un incontro romantico con Viola, il grande amore della sua vita, un incontro con i soldati francesi di Napoleone e addirittura delle lezioni di lettura con dei ladri furfanti.Questo libro non fallisce mai nel strapparmi un sorriso ad ogni pagina, mi sorprende sempre vedere come Cosimo, che alla fine del libro è un uomo molto anziano, è restato sempre fedele alla promessa fatta anni prima, fedele alle fantasie di un bambino che non voleva essere costretto ad una vita già scritta dai suoi genitori. Il personaggio di Cosimo, che rappresenta gran parte dei valori illuministi dell'epoca, ci insegna che la ricchezza umana si può trovare attraverso un punto di vista differente da quello Imposto dalla società, che, a volte semplicemente per pigrizia, incoraggia comportamenti sbagliati o nocivi. La vera ribellione richiede dunque, pazienza e disciplina. Non posso fare a meno di credere che forse tutti dovremmo apprezzare la vita dall'alto di un albero, costruendo relazioni d'amicizia ed amore basate su una connessione genuina mentale e meno fisica o materialista.Consiglio questo romanzo a coloro che desiderano una lettura scorrevole e ottimista, piena di situazioni assurde e divertenti e che, perché no, potrebbe farvi venire voglia di uscire in giardino e camminare ai piedi di un albero, porgendovi la domanda: come sarebbe la vita da lassù?
La persona che sei adesso ha l'occasione di evitare l'irreparabile. La tua seconda possibilità, per riparare al passato. Allora chiudo gli occhi, chiudo forte gli occhi, sono diventata scrittrice per questo: inventare, sistemare.Ciao, il mio nome è Francesca Rodesino e sono una dottoranda in italianistica dell'università di Zurigo. Il libro di cui oggi vorrei parlarvi s'intitola «Sembrava bellezza». Si tratta dell'ultimo romanzo di Teresa Ciabatti, scrittrice nata a Orbetello negli anni ‘70, ed è uscito per Mondadori nel 2021. In questo romanzo, Ciabatti riprende il genere dell'autofiction, o dell'autobiografia menzognera come preferisce intenderla l'autrice stessa, già sperimentata in precedenza, con il romanzo del 2017, dal titolo «La più amata».«Sembrava bellezza» assomiglia un po' a una scatola di fantasmi. Fantasmi che provengono dal periodo forse più oscuro e ambiguo dell'esistenza, l'adolescenza, e chiedono alla protagonista del romanzo, di cui non verrà mai svelato il nome, di tornare indietro nel tempo, ritrovando però, non soltanto la sua storia personale, ma il dramma di un'intera generazione di giovani donne.La protagonista di «Sembrava bellezza» è una scrittrice di successo di quarantasette anni che ha una figlia, Anita, con la quale vive un rapporto conflittuale. A distanza di trent'anni dall'ultimo incontro, questa scrittrice ritrova la sua migliore amica dell'adolescenza, Federica. Il passato prende quindi il sopravvento e con esso il senso d'inadeguatezza giovanile della narratrice, ma anche la storia di Livia, la bellissima sorella maggiore di Federica, caduta una notte dal balcone di casa all'età di diciassette anni. Quella caduta provocò a Livia irreparabili danni cerebrali, trasformandola in una bambola rotta, per sempre prigioniera di quell'età. La protagonista è invece prigioniera del senso di colpa, perché la notte dell'incidente era a dormire a casa di Federica e aveva visto Livia uscire sul balcone.Il tentativo della protagonista di ripercorrere la propria adolescenza per sciogliere quei nodi che ancora non le danno pace produce nel libro un mescolamento continuo tra i piani temporali e tra la realtà e la fantasia, che stordisce, anche perché si abbina a uno stile molto rapido e impressionistico. Sintomatica è la frase che si legge all'inizio del romanzo: «i fatti e le persone in questa storia sono reali», altro non lo è. L'indagine del passato dalla protagonista rifluisce così nell'indagine intorno alla sua attendibilità in quanto narratrice, che gioca al «bluff» con la lettrice e con il lettore, affermando continuamente: sto «mentendo», sto «recitando».Dietro al tema del confine labile tra la realtà e la finzione e a quello del non sentirsi adeguate, in questo romanzo si intrecciano però varie altre tematiche — i corpi non conformi, il rapporto tra la città e la provincia, l'identità, il tempo, l'amicizia e l'essere madre — che ne fanno un romanzo urgente e attuale.Bisogna però dire che «Sembrava bellezza» è un romanzo per molti versi respingente, perché è ricolmo di sentimenti velenosi e ambigui: il compiacimento, il senso di rivalsa che si trasforma in vendetta, l'umiliazione. Al di sotto di questa dimensione aspra possiamo però scoprire anche una storia diversa, che racconta la possibilità di perdonare e soprattutto di perdonarsi.
La vergognosa esclusione delle autrici in lingua italiana dai programmi scolastici è la ragione per cui voglio presentarvi Alice Ceresa e la sua riflessione sulla condizione della donna nella società. Buongiorno! Mi chiamo Laurène Ventura, vengo da Neuchâtel e sono una studentessa iscritta al programma di Master in Letteratura italiana all'università di Berna. Grazie a un corso che ho frequentato, ho scoperto quest'opera che mi ha portato a riflettere sulla condizione della donna con le mie amiche per un pomeriggio intero. Non è semplice fare un riassunto del libro di cui vi sto parlando. Il motivo è semplice: non si tratta di un romanzo; non c'è una trama lineare. Non c'è neanche una trama. L'opera è un'attenta analisi della posizione della donna nella società. L'autrice è Alice Ceresa, nata a Basilea ma cresciuta in Ticino, che ha lavorato prima in Svizzera e poi si è trasferita a Roma, dove è rimasta fino alla morte, avvenuta nel 2001. Iniziato negli anni Settanta, in un decennio fondamentale per la lotta femminista, il capolavoro letterario di Ceresa si intitola Piccolo dizionario dell'inuguaglianza femminile. Edito nel 2007 da Nottetempo, una seconda edizione viene proposta ancora nel 2020 con un ampliamento, sempre a cura della professoressa Tatiana Crivelli dell'Università di Zurigo.La particolarità di quest'opera risiede nella forma in cui è stato scritto, che è appunto un dizionario. Ceresa individua, frammenta, decostruisce e ridefinisce le istituzioni e i concetti che da secoli opprimono la donna o, come la chiama l'autrice, “organismo biologico femminile”. Le voci scelte da Alice Ceresa si susseguono in ordine alfabetico – proprio come un vero dizionario – e, a differenza di un romanzo o un saggio, una lettura lineare non è indispensabile per comprendere il messaggio dell'autrice. Per stessa ammissione di Alice Ceresa, lo stile è difficile. L'ironia pervade ogni definizione delle quarantasette voci e caratterizza tutte le sue opere. Il Piccolo dizionario ha lo scopo dichiarato di “fare il giro delle radici” dell'inuguaglianza femminile, scavare nella società per arrivare alle cause primarie dell'oppressione vissuta dalle donne. L'analisi delle definizioni fa emergere molto chiaramente il patriarcato, che a tutt'oggi caratterizza la nostra società. I vocaboli del Piccolo dizionario dell'inuguaglianza femminile spaziano dall'ambito familiare a quello psicologico, dalla biologia alla religione, dal chiedersi cosa è la norma alla definizione di letteratura. Particolarmente interessante è l'inserimento della voce Svizzera, elaborata negli anni Settanta e pubblicata in traduzione tedesca e francese da Alice Ceresa. L'inedita versione italiana ha invece dovuto aspettare il 2007. Alice Ceresa dedica ben quattro pagine di riflessione sulla Svizzera. Il ritratto che ne esce non è – ovviamente – lusinghiero. L'autrice si concentra sulla tardiva concessione del diritto di voto, ma l'argomento può benissimo essere sostituito con altro: la differenza salariale, per esempio. Vi propongo la graffiante conclusione della voce che recita: “Di femminile la Svizzera ha soltanto il nome.” I principali motivi per cui è necessario leggere il Piccolo dizionario dell'inuguaglianza femminile di Alice Ceresa sono molteplici: prima di tutto, è doveroso far conoscere un'autrice svizzera in lingua italiana; in secondo luogo, la sua opera evidenzia le disparità tra uomini e donne e contribuisce a mettere in discussione lo status quo e la società patriarcale.
“Farò rapporto come se raccontassi una storia, perché mi è stato insegnato da bambino, sulla mia terra natia, che la Verità è una questione di immaginazione”. Con questo incipit inizia uno dei romanzi fantascientifici più interessanti del novecento. Ciao, sono Michela e sono dottoranda in Italianistica presso la Ohio State University, negli Stati Uniti.Oggi vi parlo del romanzo di Ursula Le Guin “La mano sinistra del buio”, pubblicato per la prima volta nel 1969. In Italia è pubblicato da Oscar Mondadori a cura di Nicoletta Vallorani e tradotto da Chiara Reali.Anche se in ambito italofono è conosciuta principalmente per il ciclo di Terramare, Ursula Kroeber Le Guin è stata una delle autrici più importanti della letteratura americana del Novecento. Nata in California nel 1929, Le Guin è stata una figura di spicco della letteratura fantascientifica e fantastica e ha ispirato generazioni di scrittori e scrittrici. I suoi romanzi e racconti incentrati su temi complessi come ambientalismo, manipolazione genetica, razzismo, contatto con culture e civiltà diverse (anche extra terrestri), i rapporti e il binarismo di genere, hanno anticipato di decenni questioni che oggi sono al centro dei nostri dibattiti.Ne “La mano sinistra del buio”, Le Guin propone una nuova forma di umanesimo che mette in discussione le nostre strutture gerarchiche e norme di genere basate sul binarismo maschile/femminile, invitandoci a ripensare a come osserviamo e ci relazioniamo con l'altro.Lo stile narrativo di Le Guin può essere definito quasi antropologico. Questo perché il protagonista, Genly Ai, un terrano in missione sul pianeta Gethen, riporta con precisione, le sue osservazioni riguardo la cultura e società dei getheniani. Ci troviamo in un futuro indefinito in cui il viaggio interstellare è possibile e varie popolazioni di diversi pianeti hanno creato l'Ecumene, una federazione interplanetaria che ha lo scopo di instaurare relazioni diplomatiche e scambi culturali tra i pianeti e le sue civilizzazioni.Durante la sua permanenza su Gethen come inviato dell'Ecumene, Genly Ai ha difficoltà a relazionarsi con i suoi abitanti a causa della loro natura ermafrodita. I getheniani infatti sono esseri privi di sesso, e sviluppano apparati genitali maschili o femminili una volta al mese. Questo li rende esseri umani che sono sia uomini che donne, sia madri che padri.Genly esplorerà la cultura e le complessità politiche di Gethen grazie all'aiuto di uno degli abitanti, Estraven, ma dovrà anche superare i suoi pregiudizi nei confronti di una società dove i ruoli di genere e l'impulso sessuale non sono fattori determinanti nei rapporti interpersonali, e dove la separazione della società, basata su una presunta predisposizione biologica degli individui, è inesistente.Quando ero ragazzina ho letto avidamente il ciclo di Terramare, e la bravura di Le Guin non delude nemmeno in questo romanzo. Le Guin, propone un'idea di umanesimo che è davvero umano perché siamo messi di fronte alle nostre ansie più profonde, ma attraverso il protagonista riusciamo a vedere l'essere umano oltre il mero concetto di maschio e femmina: “E avevo visto, allora, di nuovo, e una volta per tutte, quello che avevo sempre temuto di vedere, e avevo finto di non vedere in [Estraven]: che era tanto donna quanto uomo. […]mi restò, finalmente, la consapevolezza di accettarlo per quello che era. Fino a quel momento l'avevo rifiutato, rifiutato nella sua vera essenza.”Se siete pronti a sfidare i vostri limiti ed esplorare nuovi generi, vi consiglio vivamente questo libro e tutte le altre opere di Ursula Le Guin.
Perché si sogna? Perché il cielo è blu? Perché il mare è salato? Perché il gallo canta? Perché il ferro di cavallo porta fortuna?Buongiorno, mi chiamo Marica Iannuzzi e sono una studentessa dell'Università di Zurigo.Quelli che avete sentito sono solo alcuni dei 145 perché raccolti ne Il libro dei perché dell'autore italiano Gianni Rodari, pubblicato postumo da Editori Riuniti nel 1984.Si tratta di una raccolta di domande e risposte nata da due rubriche per bambini curate da Rodari su L'Unità dal 1955 al 1958. Lui stesso rispondeva alle più svariate domande, sui più svariati temi, poste dal suo giovanissimo pubblico, con spiegazioni scientifiche miste a spiegazioni più fantasiose, sotto forma di filastrocche, o di storielle in prosa.Gianni Rodari, giornalista, scrittore e insegnante, ha contribuito in modo fondamentale alla letteratura per ragazzi, vincendo persino il prestigioso Premio Andersen nel 1970. Con le sue numerose filastrocche e poesie, così come con i suoi indimenticabili racconti, Rodari ha incantato e nutrito la mente e il cuore di generazioni e generazioni.Ne Il libro dei perché di Gianni Rodari si trovano risposte a domande poste da bambini su temi che spaziano dalla vita quotidiana alla filosofia, dalla storia alla scienza. Le risposte date dall'autore sono in grado di far riflettere e di far divertire, e di affascinare sempre, perché dentro di loro convivono scienza e poesia, razionalità e fantasia, pertinenza contenutistica e capacità narrativa. È in questo modo che la spiegazione tecnica al perché diventa una storia, una storia in grado di istruire e allo stesso tempo di divertire.Anche se è un libro dedicato e considerato per un giovane pubblico, io sono sicura che questa lettura possa essere dedicata e apprezzata da lettori e lettrici di tutte le età.L'età dei perché, infatti, non finisce mai e le domande sono il motore di piccole e grandi scoperte. La saggezza di un bambino sta forse proprio nel domandare il perché per ogni cosa.Anche in questo libro, come nei suoi altri, Gianni Rodari unisce con somma maestria la fantasia e la ragione che altro non sono che due diverse manifestazioni di un'unica cosa, l'intelligenza. E non a caso nella sua Grammatica della fantasia (Einaudi 1973), l'autore scrive:“La fantasia fa parte di noi come la ragione: guardare dentro la fantasia è un modo come un altro per guardare dentro noi stessi”.E visto che si sta parlando di perché… perché leggere Gianni Rodari? Perché per me è un autore che ci ricorda che non siamo mai troppo piccoli per cercare risposte e mai troppo grandi per trovare nuove domande.
Nei brividi dell'agonia, la rondine aveva delirato, sospirando il mare, i fiori, i palmizi, la primavera senza fine. E Nevina da quel giorno sognava le terre non viste.Sono Marta Pizzagalli, studio letteratura all'USI e oggi vi parlo delle fiabe di Guido Gozzano. Gozzano, scrittore torinese che viene spesso anche studiato a scuola, lo conoscete probabilmente più come poeta che come scrittore per bambini, eppure la sua produzione è ampia anche in questo campo: di fiabe ne ha scritte venticinque, che nel primo Novecento sono state pubblicate su riviste e in due raccolte. Le fiabe più belle sono quelle uscite sul «Corriere dei Piccoli» e sono racconti in cui Gozzano unisce il folklore, la tradizione della fiaba letteraria, dal Basile a Perrault (per dirne solo due), e la propria personale poetica.Mi affascinano molto le fiabe per la capacità che hanno di raccontare storie generali ed emblematiche, con personaggi altrettanto generali, ma che ogni epoca e ogni persona può, se vuole, rendere precisi, concreti e significativi. Ciò vale anche per le fiabe di Gozzano e vi farò un solo esempio che mi ha colpita particolarmente. Si tratta della storia di Piumadoro e Piombofino, due personaggi affetti da due opposte maledizioni: Piumadoro è estremamente leggera, tanto da volar via; Piombofino è estremamente pesante, tanto da affondare nel terreno. Ecco questa vicenda, raccontata oggi, a me è parsa una possibile voce e rappresentazione del dramma dell'anoressia e dell'obesità e del lungo e faticoso percorso verso l'accettazione e l'equilibrio. Non che Gozzano lo avesse in mente mentre scriveva, beninteso; ma proprio qui sta la forza delle fiabe, capaci di parlare oltre il tempo a ciascun tempo, proprio poiché sono raccontate con forme generali, che quindi possono prendere il volto e la forma che il narratore particolare necessita di dar loro.Le fiabe di Guido Gozzano sono state scritte nel primo decennio del Novecento. Gozzano nasce nel 1883 ad Aglié, in provincia di Torino, e muore prematuramente nel 1916, a trentadue anni, malato di tubercolosi. Di lui sono noti soprattutto I colloqui, il libro di versi che lo consacra come poeta e per il quale è stato spesso considerato padre e anticipatore dei poeti crepuscolari.Le trame delle fiabe di Gozzano sono spesso topiche e tradizionali; eppure non è raro che i finali creino uno scarto rispetto al consueto lieto fine, talvolta anche con una certa ironia: infatti, i conclusivi sposalizi principeschi non sempre avvengono come previsto dato che c'è chi preferisce alla principessa una compaesana contadina, chi si dissolve nell'aria con la sua bella, chi accetta di sposarsi a condizione che anche la propria sorella lo segua in altrettante ricche nozze e c'è, anche, chi non si sposa affatto ed è destinato alla distanza dall'amata.Trovo poi molto bello anche il linguaggio usato da Gozzano; la sua capacità poetica non si limita infatti ai versi: l'acuta delicatezza della poesia è anche in queste sue prose, nelle descrizioni e negli accostamenti fonici delle parole. Sebbene brevi, le fiabe di Gozzano hanno una prosa melodica che dice molto della cura e dell'attenzione del poeta per l'armonia della lingua, fatto che rende poi particolarmente piacevole la lettura. Nelle fiabe, il legame con la poesia si mostra anche negli incipit delle fiabe, dove spesso Gozzano sostituisce al solito «c'era una volta» delle simpatiche filastrocche dell'assurdo, che introducono il lettore nel mondo della fantasia in cui tutto è possibile.La mia fiaba preferita è Nevina e Fiordaprile, che racconta del breve viaggio della principessa delle nevi nelle terre del sole. Pur rischiando di finire in tragedia, Gozzano risolve la fiaba con il topico lieto fine che, tuttavia, non cancella il sapore amaro e nostalgico dell'epilogo. È l'amaro in bocca che resta difronte al frustato desiderio di Nevina di conoscere e gustare le bellezze dell'estate e della natura floreale e vivente: impossibile a lei, principessa delle nevi, poiché al suo passaggio diffonde il gelo e costringe la vita e chiudersi e a fuggire.
Mi chiamo *Gimbo Catazza* e studio italianistica all'università di Basilea: vi consiglio di leggere Era meglio il libro, di Valerio Lundini pubblicato da Rizzoli nel 2021.Lundini, nato a Roma nel 1986, dopo aver partecipato alla trasmissione Battute?, ha esordito con il suo programma per Rai2 Una pezza di Lundini, ottenendo un grande succcesso di pubblico e critica. Ha una band con cui si esibisce in tutta Italia e dal 2021 scrive libri. Su youtube e sui social sono numerosissimi i suoi sketch, che consiglio di guardare a chi vuole avvicinarsi al personaggio.Si tratta di una figura interessante e innovativa nel panorama dell'intrattenimento italiano perché dice cose per nulla scontate, o meglio ciò che dice è scontato, ma il modo è brillante e originale.In particolare usa il cringe, l'ironia, non solo come l'occhio che sa cogliere quanto l'esistenza sia folle e vana, ma anche per criticare la società e sui membri in modo apparentemente velato ma estremamente pungente.Era meglio il libro – di Valerio Lundini – si compone di brevi scritti di scorrevole lettura, dalla forma e il contenuto variegato. Si passa da raccontare la perplessità di un bambino di fronte al termine „sesso orale“ usato dai telegiornali per descrivere lo scandalo Clinton Lewinski, ad una serie di recensioni cinematografiche sbrigative, in cui il film viene giudicato dai soli primi 5 min…Star Wars risulta una pellicola interamente fatta di scritte sullo sfondo di un cielo stellato, 2001 Odissea nello spazio diventa un documentario sulle scimmie dalla colonna sonora naïf.In poche parole si ripercorre la cultura pop dagli anni 80 fino ad ora, richiamandone gli stereotipi come la bellezza delle canzoni di San Remo, i personaggi come Franco Califano e tutte le donne che si è vantato di avere avuto. È un libro che pur nei suoi toni leggeri, sottende una profonda padronanza della lingua che consente all'autore di formulare espressioni poetiche come Un vento pungente pettinava dolcemente le chiome dei ginepri, e una miriade di giochi di parole che creano piccoli, ma sani cortocircuiti nelle menti che abusano della ragione.Il libro è comunque molto più di questo, è un ecosistema di parole e immagini, ricco e variopinto, che può essere apprezzato da uno sguardo generale e fugace, ma che al contempo offre pane per i denti di chi ama sviscerare i dettagli.Prima di chiudere ci tenevo a precisare che il mio nome in realtà non è Gimbo Catazza. Gimbo Catazza non è che una delle varie maschere che Lundini indossa nei suoi skatch, nelle sue comparse in Tv, e in ciascuno dei brevi scritti che compongono il suo libro. Per questo più che dell'opera è interessante parlare del personaggio. Chi è Lundini? Chi si cela sotto a quelle maschere? Non un comico, non musicista, neanche un conduttore televisivo, né men che meno un artista, ma soltanto uno che si è accorto che per fare ridere, per colpire nel segno, non serve inventarsi barzellette o chissà quali assurde storie: basta essere sinceri. Lundini non rinuncia al suo nome, ma inventa un personaggio che rivela la sua sincerità nel continuo smascheramento di sé stesso. È un personaggio che si fa beffe di una cultura innalzatrice di vita e opere, che smonta l'altisonanza di luoghi comuni occidentali che celebrano la vita come un'ascesa verso il successo, quando le risorse del nostro pianeta non lo consentono più. Per questo rinunciare al proprio nome a livello culturale è un gesto significativo, foriero di un messaggio che promuove la decostruzione – da preferire alla distruzione.Scegliere il nome di Gimbo Catazza, una maschera di Lundini, oltreche un modo per fargli il verso, è soprattutto un andare oltre e prendere più sul serio un problema culturale contingente e attuale. È un modo per mostrare che se l'umana vita è un soffio è inutile fingersi tanto importanti, è inutile fomentare sogni di carriere e successi, che oltre a stressare, inquinano.
Siamo a Pietroburgo nell' Ottocento. L'impiegato Goljadkin incontra un giorno di novembre il suo sosia. Proverà prima paura, poi affetto e poi avversione per questo personaggio un po' sinistro. Un romanzo sul tema del rispecchiamento, della coscienza di sé e del mascheramento.Mi chiamo Patrizia Costa e sono una studentessa in Lingua, letteratura e civiltà italiana all'Università della Svizzera italiana. Il libro di cui vi parlo oggi è il secondo romanzo di Fëdor Dostoevskij: Il sosia. Compare per la prima volta nel 1846 sulla rivista letteraria russa Annali Patri e poi fluisce nella raccolta di opere complete dell'autore nel 1866.Il romanzo, appunto, ambientato a Pietroburgo, vede protagonista un uomo semplice, un funzionario governativo, Jakov Petrovič Goljadkin. E qui già il nome è parlante, perché significa mentalmente sprovveduto, povero di spirito, un disadattato, insomma.Goljadkin è un uomo volubile, vive nell'incertezza delle sue azioni, si sente rigettato, incompreso dalla società e si muove sempre tra ciò che gli comunica l'onore da una parte e l'istinto dall'altro. Dobbiamo immaginarci un uomo che inciampa fisicamente e verbalmente, impacciato, balbetta… Un giorno, vedendosi comparire in ufficio un suo sosia, è preso dall'inquietudine: è un uomo che in tutto gli somiglia nell'aspetto, nel trascorso, nelle origini, per di più suo omonimo, quindi un vero e proprio doppio. Questo secondo Goljadkin si rivelerà essere però, al contrario del primo, meschino e perfido nei confronti del protagonista. Lo umilia pubblicamente, infanga il suo nome sul lavoro e nell'alta società, gli ruba l'identità comprenderlo di ridicolo, tanto che Goljadkin si vede costretto a un confronto diretto con lui.Goljadkin, burocrate del ministero russo, è un uomo semplice, incompreso, che vive nella costante paura del fallimento. Questa paura si alimenterà all'inverosimile quando entrerà in contatto con il suo esatto doppio, un suo sosia identico a lui, nell'aspetto e nel nome, che si rivelerà essere il suo peggiore incubo e contribuirà ad alimentare e moltiplicare quelle fratture che Goljadkin già ha insite in sé.Il romanzo espone un topos letterario, quello del doppio: pensiamo al dottor Jekyll e mister Hyde, il visconte dimezzato di Calvino, il ritratto di Dorian Gray. In questo caso però, la dicotomia non è tra bene e male o tra vanità e vacuità, ma la rottura è qui, tra un mondo esteriore e interiore, tra i moti dell'animo e la maschera sociale, tra falso e autentico.Il dubbio del protagonista è: “Devo usare scorciatoie poco raccomandabili per arrivare a ottenere ciò che voglio o devo lasciar cadere l'arte della persuasione e agire secondo coscienza e onore?” Beh, il nostro protagonista sceglie apparentemente la seconda via, ma in una società dove è difficile riconoscere il vero dal falso e conta più l'arte persuasiva, per quanto mosso da buone intenzioni, Goljadkin, sarà disistimato e ininfluente.Questo ci porta a un altro grande tema che qui costituisce lo scheletro della personalità del protagonista, legato appunto al topos del doppio che è il tema del fallimento. E mi sembra che qui, nelle continue ripetizioni dei nomi, nella eccessiva prolissità, nella continua sospensione del discorso, si esprima appunto le elucubrazioni mentali tipiche dell'uomo in continuo conflitto con se stesso.Goljadkin è volubile, spesso incoerente e la sua paura dell'insuccesso lo porta a immobilizzarsi totalmente, ma è proprio l'assenza dell'azione che lo rende predestinato alla sconfitta. Perché - e credo che qui Dostoevskij ci voglia dire proprio questo - è agendo che il fallimento da certezza diventa solo ipotesi.
Buongiorno, sono Robin e frequento un Monomaster intitolato Studi italiani all'Università diZurigo in collaborazione con la Sapienza di Roma. Oggi vi presento Accabadora di Michela Murgiapubblicato da Einaudi. Si tratta di un romanzo breve, che ha come protagoniste due donne – la giovane Maria e l'anzianaBonaria Urrai – che vivono a Soreni (ipotetico paesino dell'entroterra sardo), e tratta due temitanto fondamentali quanto delicati: l'adozione e l'eutanasia. Michela Murgia, classe '72, è un'autrice sarda con numerose pubblicazioni all'attivo, ma non è soloun'ottima narratrice e un'attenta saggista, bensì anche una persona molto impegnata e attiva, chenon smette mai di osservare criticamente la realtà attuale per evidenziarne problemi non risolti eingiustizie sociali. Con Accabadora, vincitore di numerosi premi nel 2009 tra cui il prestigioso Campiello, Murgia ciporta in una Sardegna degli '50, che sembra quasi conservare una realtà di un tempo senza tempoe con una lingua scabra e poetica insieme, interroga il nostro mondo attraverso quella realtàlontana dal suo equilibrio segreto e sostanziale. «Fillus de anima. È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna edalla sterilità di un'altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell'anima diBonaria Urrai.» Con quest'adozione particolare, la piccola Maria lascia la famiglia povera per diventa figlia d'animadi Bonaria ed entrambe vivono questo legame felici, nonostante i pettegolezzi del paese. Eppurec'è qualcosa di misterioso: la vecchia Tzia lavora come sarta ma la gente di Soreni ne sembra quasiintimorita. Quello che tutti sanno infatti, ma che Maria non può nemmeno immaginare, è che Tzia BonariaUrrai oltre a cucire abiti è un'accabadora, cioè una donna che porta la morte alle persone in fin divita e in condizioni di malattia per cui vivere significa soffrire. Nell'inconsapevolezza di Maria tutto è tranquillo finché un giorno a richiedere l'interventodell'accabadora è il fratello del suo migliore amico, dopo aver perso una gamba e nulla sarà piùcome prima… Eccoli dunque i due temi importantissimi e centrali, che si intrecciano continuamente nel libro. Ciòche mi ha colpito e convinto, è come non siano mai trattati in maniera didascalica, anzi comevengono tematizzati nella quotidianità del paesino sardo. Dunque Murgia riesce a raccontarci unastoria avvincente, con una bell'affresco della sua terra d'origine e a innervarla con questetematiche: l'adozione e l'eutanasia. Un altro grande pregio è la riflessione indotta da alcune frasirivelatorie che arrivano quando si è completamente immersi negli eventi. Sono affermazioni concui l'autrice chiude una scena che non possono far altro di farci ripensare l'episodio o il capitolocon una prospettiva diversa, sotto una nuova luce.
Salve a tutti, sono Vittoria Sessa ed attualmente sto terminando il mio ultimo anno di bachelor in lingua e letteratura inglese ed Italiana presso l'università di Ginevra.Oggi vorrei proporvi un romanzo che abbiamo letto durante un seminario di letteratura inglese su gli “autori sudafricani”. Il libro in questione si chiama “Ways of Dying” scritto da Zakes Mda. Quest'ultimo é uno scrittore e sceneggiatore sudafricano i cui lavori più conosciuti e apprezzati si concentrano sul fenomeno dell'apartheid, un lungo periodo di oppressione contro la comunità di colore in sud Africa da parte di un governo di etnia bianca, che durò dal 1948 fino al 1991. Ways of dying, per la precisione, si svolge durante il post apartheid, una fase di transizione molto difficile e sofferta, in quanto il cambiamento da un governo oppressivo ad uno stato libero, come ci si può immaginare, non é stato immediato. Il libro narra le vicende di Toloki e Noria, un uomo e una donna che vivono in una baraccopoli sudafricana all'inizio degli anni novanta, che vedranno sbocciare un tenero amore l'uno per l'altra in un contesto di violenza, estrema povertà ed una costante lotta per la sopravvivenza.Il personaggio principale, Toloki, ha una singolare occupazione: in cambio di un compenso si presenta ai funerali di sconosciuti per piangere il morto e consolare le famiglie in lutto, in pratica una prefica al maschile. La bizzarra ed inusuale professione di Toloki acquista un senso agli occhi del lettore una volta che si realizza la difficile situazione politica e sociale del periodo di transizione; un periodo segnato da guerre interne nelle comunità di colore che causò ancor più dolore e morte dell'apartheid. In un paese segnato da tanti decessi diventava difficile provvedere ad un lutto rispettabile per ogni morto, ed é qui che il lavoro di Toloki entra in gioco; piangere coloro che non hanno nessuno a piangerli. Coloro che non hanno ricevuto il rispetto dovuto in vita, lo riceveranno almeno nella morte. Tra personaggi e atmosfere un po' grottesche, si consuma anche la toccante storia d'amore di Toloki e Noria, una relazione che sopravvive e cresce giorno per giorno nella difficile realtà delle baraccopoli in Sudafrica, all'insegna del reciproco supporto e della solidarietà.Il libro mi ha molto toccata e commossa, in quanto mi ha aperto gli occhi su una realtà che prima ignoravo. Conosciamo l'oppressione dell'apartheid, si studia a scuola, conosciamo l'ingiustizia subita dal popolo sudafricano durante questi decenni, tuttavia in pochi sanno che con la fine di questo regime, le cose non sono migliorate subito, la violenza non é scomparsa e i diritti dei cittadini di colore non sono stati subito riconosciuti. Sono rimasta impressionata nello scoprire che il periodo post apartheid é stato in se, più violento dell'oppressione da cui era appena uscito.Consiglio questa lettura a coloro che desiderano saperne di più su questo periodo difficile, attraverso le parole di un autore che, essendo nativo sudafricano, é intimamente legato a questo tema e lo rappresenta in modo autentico, ironico ed originale.Ne approfitto per ricordarvi il titolo del libro, Ways od dying di Zakes Mda, l'edizione in inglese di Picador del 1995. Il libro si trova anche in italiano, edito da Edizioni E/O, col titolo “Si può morire in tanti modi”.
Da quando i coniugi Konrad si sono stabiliti nella fornace, la loro vita è diventata un inferno quotidiano. Perché il vecchio Konrad ha deciso di rifugiarsi in questo luogo sperduto, abbandonando ogni legame con il mondo?Mi chiamo Michele Marchioni e studio letteratura all'Università della Svizzera italiana. Negli scorsi mesi ho avuto occasione di parlarvi di alcuni dei temi che più mi interessano: la storia e gli usi e i costumi della società. Ma oggi parleremo di qualcosa di molto diverso, il romanzo La fornace di Thomas Bernhard.In uno sperduto villaggio austriaco si consuma un tragico fatto di sangue: il vecchio Konrad ha ucciso la moglie paralitica con un colpo di fucile. C'è chi dice con due colpi alla nuca, chi parla di due colpi alla tempia, chi asserisce tre colpi. Sta di fatto che la notte della viglia di Natale, Konrad ha ammazzato la moglie sparandole con una carabina Mannlicher. Dopo giorni di ricerche Konrad è stato finalmente ritrovato, infreddolito e incosciente, sul fondo di un fossato della sua proprietà. Ora attende di essere processato per il crimine commesso.Edita per la prima volta nel 1970 e ora ripubblicata in una nuova veste da Adelphi, La fornace è uno dei primi romanzi dello scrittore austriaco. Bernhard, nato in Olanda da genitori austriaci nel 1931, è considerato uno dei più importanti scrittori in lingua tedesca del secondo Novecento. Dopo una breve esperienza lirica, si è presto dedicato alla narrazione, al romanzo e alla drammaturgia. Per i propri giudizi critici e senza mezzi termini nei confronti della società austriaca, Bernhard ha attirato su di sé l'ostilità di una parte dei propri connazionali (che arrivarono a definirlo Nestbeschmutzer, letteralmente colui che sporca il proprio nido), ottenendo però una grande fortuna all'estero.Il libro è il resoconto retrospettivo dei motivi per cui il vecchio Konrad è arrivato a uccidere la moglie. È Konrad stesso a raccontarci la storia della propria vita e del proprio matrimonio fallimentare. Una nausea cosmica si è abbattuta su di lui e lo ha spinto a nascondersi dal mondo e a rifugiarsi nella fornace. Solo una cosa sembra ancora appassionarlo: la scrittura di un saggio sull'udito, che – assicura – sarà la più importante pubblicazione scientifica del secolo che metterà la parola definitiva a tutti i dibattiti sulla questione. Quello che sembra l'antidoto alla sua desolazione si trasformerà però nella fonte delle ultime sue ossessioni.La tragica storia dei coniugi Konrad riesce ad avvolgere il lettore in un flusso ipnotico. Diventa difficile distogliere anche solo per un momento l'attenzione, per non rischiare di perdere il filo del ragionamento. Il centro dell'opera è il racconto di un uomo e del suo dramma. Konrad ha agito razionalmente o per un attacco di follia? La domanda rimarrà sospesa fino alla fine. Come in altri romanzi Bernhard ci spinge a confrontarci con i problemi esistenziali dell'animo umano, con le sue debolezze e con le sue manie. I suoi personaggi sono condannati a un mondo di desolazione, non hanno appoggi, non hanno prospettive, ma proprio per questo sembrano così autenticamente umani.Se volete immergervi fino nel fondo delle contraddizioni dello spirito umano o se siete semplicemente curiosi di sapere come andrà a finire la storia, vi consiglio di leggere questo libro molto particolare.